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Dopo la fine della convivenza non si parla pił di "maltrattamenti in famiglia" ma di "atti persecutori"

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Dopo la fine della convivenza non si parla pił di "maltrattamenti in famiglia" ma di "atti persecutori"
La Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza n. 1711 del 2015, è intervenuta per risolvere la questione relativa alla configurabilità del reato di “maltrattamenti in famiglia” (art. 572 codice penale) o di “atti persecutori (stalking)”, nell’ipotesi in cui le molestie siano perpetrate dall’ex convivente, dopo la fine della convivenza stessa.

Se la convivenza è finita, l’ex convivente che ci maltratti, potrà essere condannato per l’uno o per l’altro reato? Dopo la fine della convivenza, può ancora parlarsi di “maltrattamenti in famiglia”?

Ebbene, la Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza sopra citata, ha fornito alcune delucidazioni in proposito.

Nel caso esaminato dalla Corte, il Tribunale aveva condannato l’ex convivente per il reato di “maltrattamenti in famiglia”, per aver “maltrattato la convivente (…), percuotendola, ingiuriandola e minacciandola ripetutamente, anche in presenza delle figlie minorenni (…), con l'aggravante di avere commesso il fatto con l'uso di un'arma”.
Inoltre, l’uomo era stato condannato anche per il reato di “atti persecutori”, per avere, “con condotte reiterate attraverso appostamenti sotto casa, danneggiamenti, telefonate, profferendo frasi offensive ed in cui manifestava, altresì, il proposito di ucciderla, minacciato e molestato Se.Ma., in modo da cagionarle un perdurante e grave stato di ansia e di paura, nonché di ingenerarle il fondato timore per la propria incolumità e costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita; con l'aggravante di avere commesso il fatto dopo essere stato legato da relazione affettiva alla persona offesa”.

L’uomo impugnava la sentenza, ritenendola ingiusta, e l’appello veniva parzialmente accolto, con la conseguenza che la sentenza veniva in parte riformata.

In particolare, l’appellante rilevava come il reato di “maltrattamenti in famiglia” non potesse ritenersi sussistente, dal momento che la persona offesa si sarebbe “limitata a riferire dei frequenti litigi” intervenuti con la convivente, “durante il periodo della convivenza, escludendo che si fossero mai verificate aggressioni fisiche da parte del predetto”, con la conseguenza che, “secondo la prospettazione difensiva, i frequenti litigi familiari, non caratterizzati da un atteggiamento aggressivo ed intimidatorio posto in essere dall'imputato, non avrebbero consentito di ritenere integrata la fattispecie di maltrattamenti contestata

La Corte d’Appello, tuttavia, rileva come, pur essendo vero che “dalla deposizione della persona offesa emerge che la stessa ha fatto riferimento soltanto alle continue liti, caratterizzate da plurime ingiurie rivolte nei suoi confronti dal convivente, per banali motivi ed, in particolare, per lo stato di indolenza del convivente, incapace di svolgere, con continuità, un'attività lavorativa, culminate con l'allontanamento dalla casa coniugale da parte del Mo., avvenuta nell'aprile 2010”, tuttavia, “l'effettivo clima di tensione familiare può cogliersi, in maniera più evidente, dalla testimonianza della figlia della predetta (…), spesso presente all'interno del domicilio domestico”, la quale “non si è limitata a riferire delle liti tra i due conviventi, (…), ma ha precisato che quest'ultimo fosse solito ingiuriare la madre, lanciarle addosso degli oggetti e percuoterla, con pugni e schiaffi, tanto da procurarle dei lividi sul corpo, oltre che dei tagli, dalla stessa apprezzati, anche successivamente allo svolgimento dei fatti”.

In particolare, la Corte d’appello rileva come debba “confermarsi il giudizio di colpevolezza del prevenuto, sussistendo la pluralità delle condotte violente e vessatorie poste in essere dall'imputato nei confronti della convivente, che consentono di ritenere sussistente il requisito dell'abitualità, necessario per il perfezionamento del reato di maltrattamenti contestato”.

Con riferimento, invece, alla condanna per “atti persecutori (stalking)”, la Corte osserva come “deve ritenersi configurabile l'ipotesi aggravata del delitto di atti persecutori, in presenza di comportamenti che, sorti in seno alla comunità familiare (o a questa assimilata) ovvero determinati dalla sua esistenza, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare o affettivo o, comunque, dalla sua attualità temporale”.
Pertanto, nel caso di specie, secondo il giudice d’appello, “deve ritenersi certamente perfezionato il delitto di cui all'art. 612 bis bis c.p., sussistendo non soltanto il grave stato di ansia e di paura, avendo la persona offesa il fondato motivo di temere per la propria incolumità fisica, ma anche l'alterazione delle abitudini di vita della predetta, costretta, per le ragioni sopra esposte, a farsi accompagnare sul posto di lavoro dal figlio”.

In sintesi, dunque, se le molestie intervengono durante la convivenza, si può correttamente parlare di “maltrattamenti in famiglia”, mentre se le stesse hanno luogo dopo la fine della convivenza si potrà parlare solo di “atti persecutori”, a causa, appunto della “sopravvenuta cessazione del vincolo familiare o affettivo o, comunque, dalla sua attualità temporale”.


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