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La Consulta apre la strada al suicidio assistito

La Consulta apre la strada al suicidio assistito
Il reato di istigazione o aiuto al suicidio non è punibile in determinati casi, se vengono rispettate le modalità previste per il consenso informato.
Come noto, con ordinanza del 14 dicembre 2018, la Corte d’assise di Milano aveva sollevato dubbi di legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 580 del c.p., con riferimento al comportamento di un politico, Marco Cappato, il quale aveva con la sua condotta rafforzato le intenzioni suicidarie di un amico, cieco e immobilizzato, agevolando l’esecuzione delle stesse.
La Corte Costituzionale aveva inizialmente affermato, a tal riguardo, che la norma di cui si discute, l’art. 580 c.p., non è in sè e per sè incompatibile con la Costituzione.
Tale disposizione, infatti, svolge un ruolo di protezione dei soggetti più deboli e vulnerabili, i quali potrebbero essere indotti a scelte tragiche a causa delle circostanze in cui si trovano, e che necessitano per questo di una particolare tutela, attraverso il sostegno e l’appoggio delle persone che stanno loro accanto.
L’art. 580 c.p., in altre parole, tutela il valore costituzionale della vita, il quale può essere realizzato a pieno solamente attraverso un intervento dello Stato volto a tutelare e a dare sostegno al soggetto debole, e non viceversa agevolandolo nelle sue determinazioni suicidarie.
Tuttavia, esistono dei casi in cui punire un soggetto per aiuto al suicidio contrasta con altri principi costituzionali, poiché potrebbero verificarsi, come nel caso di specie, situazioni, “inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali”.
Dj Fabo non è stato il primo a rivendicare tali istanze di autodeterminazione terapeutica in virtù dei principi di dignità della persona; prima di lui, il "caso Welby" aveva già affrontato questioni simili e aperto la strada al ragionamento giuridico attorno a tali vicende.
Gli articoli 2 e 32 della Costituzione consentono infatti, in un’ottica evolutiva e di rispetto della persona umana e della sua volontà di porre fine ad un’esistenza vissuta in condizioni di sofferenza continua, di rifiutare di essere mantenuti in vita artificialmente.
Nemmeno la legge 22 dicembre 2017, n. 219 ("Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento") ha aiutato a risolvere la questione, permettendo tale normativa di ricorrere, in casi di invalidità permanente e irreversibile, solamente alla “sedazione palliativa profonda continua”, precludendo però agli operatori sanitari di praticare operazioni che direttamente provochino la morte del paziente.
Per tutti questi profili di problematicità legati alla tematica del fine vita, la Corte Costituzionale, anziché pronunciarsi direttamente in merito alla illegittimità costituzionale della norma, aveva invitato il legislatore a rimuovere il vuoto normativo, predisponendo una legge ad hoc per risolvere problemi come quelli del caso di specie.
Il Parlamento, tuttavia, è rimasto inerte, e la questione è ritornata dinanzi alla Corte Costituzionale, la quale si è pronunciata rilevando che, al fine di evitare eventuali abusi nei confronti di soggetti particolarmente indifesi, “non è punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Tale non punibilità è naturalmente collegata al rispetto della legge sul consenso informato e sulle cure palliative.


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