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Non commette violenza o minaccia a pubblico ufficiale il cittadino bisognoso che si rivolga al Sindaco in maniera ostile

Non commette violenza o minaccia a pubblico ufficiale il cittadino bisognoso che si rivolga al Sindaco in maniera ostile
Non risponde di violenza o minaccia a pubblico ufficiale il cittadino bisognoso che chieda insistentemente ed in modo ostile aiuti al Sindaco.
La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13153/2020, ha avuto modo di pronunciarsi in merito alla configurabilità del reato di violenza o minaccia a pubblico ufficiale, ex art. 336 del c.p., in capo al cittadino che si rivolga al Sindaco per chiedere degli aiuti economici, ponendo in essere condotte insistenti, petulanti ed ostili.

La questione sottoposta all’esame dei Giudici di legittimità era nata in seguito alla condanna inflitta ad un uomo, all’esito del giudizio d’appello, per il reato continuato di violenza o minaccia a pubblico ufficiale. Secondo i giudici di secondo grado la condotta dell’imputato integrava la fattispecie di cui all’art. 336 del c.p., posto che lo stesso si era recato in modo assiduo e petulante presso gli uffici comunali, chiedendo frequentemente e con atteggiamenti aggressivi degli aiuti economici al Sindaco. Tali condotte, a parere della Corte territoriale, avevano ingenerato, nel primo cittadino, uno stato di timore che lo aveva indotto, concordemente con gli organi comunali a ciò preposti, non solo a concedere al richiedente dei contributi economici non dovuti, ma anche a rimodulare le modalità di erogazione degli stessi, fornendo così all’imputato, seppur bisognoso, dei vantaggi maggiori rispetto ad altre persone che si trovavano nelle medesime condizioni economiche.

In seguito a tale pronuncia, l’imputato ricorreva dinanzi alla Corte di Cassazione, eccependo, in particolare, una violazione di legge ed un vizio di motivazione in relazione alla sussistenza del reato di violenza o minaccia a pubblico ufficiale. A suo parere, infatti, la propria condotta non aveva determinato l’evento lesivo necessario ai fini della configurabilità del reato ex art. 336 del c.p., non avendo inciso in alcun modo sulla volontà del Sindaco, il quale, peraltro, non gli aveva mai consegnato somme di denaro non dovute.
Il ricorrente evidenziava, altresì, come la Corte territoriale non avesse attribuito la dovuta rilevanza alla natura dei comportamenti da lui tenuti nei confronti del Sindaco, i quali avevano rappresentato dei semplici alterchi.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, annullando con rinvio la sentenza impugnata.

Gli Ermellini hanno giudicato incoerente con i criteri fissati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di violenza o minaccia a pubblico ufficiale, l’assunto dei giudici della Corte territoriale, che ha attribuito valenza minatoria alla petulante ed insistente presenza dell’imputato presso gli uffici comunali.

Secondo il costante orientamento della Cassazione, infatti, non integra il delitto di cui all’art. 336 c.p. la reazione genericamente minatoria del privato, mera espressione di sentimenti ostili non accompagnati dalla specifica prospettazione di un danno ingiusto, che sia sufficientemente concreta da risultare idonea a turbare il pubblico ufficiale nell’assolvimento dei suoi compiti istituzionali” (Cass. Pen., n. 20320/2015; Cass. Pen., n. 6164/2011).

Affinché sia ravvisabile una minaccia idonea ad integrare il delitto di cui all’art. 336 del c.p. è, dunque, necessario che la condotta posta in essere dall’agente sia dotata di un’effettiva capacità di coartare la volontà del pubblico ufficiale nell’assolvimento dei propri doveri d’ufficio, tale non potendosi ritenere l’atteggiamento del privato che, come nel caso de quo, esprima, genericamente, dei sentimenti ostili, non accompagnati da specifiche prospettazioni di un danno ingiusto, le quali sarebbero idonee a turbare il pubblico ufficiale nell’assolvimento dei suoi compiti istituzionali.

Secondo gli Ermellini, quindi, la continua ed insistente presenza dell’imputato negli uffici comunali, finalizzata al richiedere delle elargizioni per far fronte al proprio stato di indigenza, sembra risolversi in una generica condotta invasiva e petulante, in cui si potrebbe tuttalpiù configurare il meno grave reato di molestie, per il quale è sufficiente “un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell'altrui sfera di libertà, con la conseguenza che la pluralità di azioni di disturbo integra l’elemento materiale costitutivo del reato” (cfr. Cass. Pen., n. 6064/2017; Cass. Pen., n. 6908/2011).


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