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Canone locazione commerciale "a scaletta"

Canone locazione commerciale "a scaletta"
Nelle locazioni non abitative è sempre nullo il patto che prevede un aumento " a scaletta" del canone di locazione pattuito.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20384 dell’11 ottobre 2016, ha fornito alcune interessanti precisazioni in tema di contratto di locazione ad uso non abitativo.

In particolare, in tale tipologia di locazioni, è possibile, con un accordo successivo al contratto stipulato, convenire un aumento del canone originariamente previsto?

Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale di Catania, aveva accolto l’opposizione a decreto ingiuntivo proposta da una società nei confronti di un’altra società, la quale aveva ottenuto tale decreto ingiuntivo, a titolo di differenze canoni insoluti, pretendendo di applicare la maggiorazione pattuita con scrittura privata successiva alla stipula del contratto di locazione.

Il Tribunale, pertanto, accogliendo la domanda di opposizione, rigettava la domanda di pagamento avente ad oggetto i maggiori canoni di locazioni.

La sentenza veniva, tuttavia, veniva riformata in grado d’appello, con la conseguenza che veniva proposto anche ricorso per Cassazione.

In sostanza, la causa si incentrava “sulla pretesa di pagamento di maggiori canoni di locazione rispetto a quello inizialmente convenuto tra le parti, secondo “una scaletta” prevista con scrittura modificativa” del contratto stipulato.

La Corte d’appello, in considerazione “dell’autonomia delle parti, vuoi nella determinazione del canone di locazione ad uso non abitativo, vuoi nella successiva modificazione dell’accordo originario” aveva ritenuto “legittima la pretesa della locatrice ai maggiori importi pretesi con il decreto ingiuntivo opposto”, in quanto tale modifica era stata espressamente prevista dalle parti con un accordo successivo al contratto di locazione a suo tempo stipulato.

Evidenziava la Corte, inoltre, che “non esiste un sistema di blocco del canone nelle locazioni non abitative”, in quanto l’art. 32 della legge n. 392 del 1978 vieta “unicamente di perseguire lo scopo di neutralizzare gli effetti eccedenti i limiti della svalutazione monetaria”.

Peraltro, precisava il giudice di secondo grado, l’accordo modificativo, con il quale era stato previsto un aumento del canone di locazione stabilito, doveva ritenersi perfettamente valido, al pari del contratto originario.

Giunti dinanzi la Corte di Cassazione, la soc. locataria evidenziava che la Corte d’appello avrebbe errato nel rendere la propria decisione, in quanto risultavano violati gli artt. 32 e 79 L. n. 392 del 1978, in quanto la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto legittimo il patto modificativo, “in palese difformità con l’orientamento di legittimità consolidato nel senso della nullità dei patti modificativi della misura del canone sottoscritti nel corso del rapporto locativo”.

In proposito, la ricorrente osservava che “le clausole che prevedono aumenti progressivi “a scaletta” sono valide a tre condizioni e, cioè, che
1) siano fissate ab initio
(vale a dire già alla firma dell'originario e principale contratto)
2) che siano ancorate ad elementi oggettivi e predeterminati e
3) e che prevedano un canone finale fisso rispetto al quale i canoni minori costituiscano stadi intermedi per giungere al corrispettivo effettivo prefissato
”.

La Corte di Cassazione accoglieva alcuni dei rilievi fatti dalla ricorrente, ribadendo che “in tema di immobili adibiti ad uso diverso da abitazione, ogni pattuizione avente ad oggetto non già l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi dell’art. 32 legge n. 392 del 1978, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla, ex art. 79, co. 1, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone più elevato rispetto a quello previsto dalla norma. (cfr., in particolare, Cass., 11 aprile 2006, n. 8410; Cass., 27 luglio 2001, n. 10286)”.


Infatti, se è vero che la Cassazione, “con riferimento ai contratti di locazione ad uso non abitativo, in virtù del principio della libera determinazione convenzionale del canone locativo, ha ritenuto legittima la clausola che preveda la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto”, è pur vero che tutto ciò è ammesso “a condizione che l’aumento sia ancorato ad elementi predeterminati ed idonei ad influire sull’equilibrio del sinallagma contrattuale, ovvero appaia giustificata la riduzione del canone per un limitato periodo e che la suddetta clausola non costituisca un aggirare la norma imperativa di cui alla legge n. 392, art. 32, circa le modalità e aggiornamento del canone”.

Alla luce di tali considerazioni, la Cassazione annullava la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d’appello. affinchè la medesima decidesse in base ai principi sopra enunciati.

In particolare, la Corte d’appello avrebbe dovuto tener conto del principio per cui “in tema di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo, ogni pattuizione avente ad oggetto non già ò l’aggiornamento del corrispettivo ai sensi dell’art. 32 L. 27 luglio 1978 n. 392, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ex art. 79, comma 1, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone più elevato rispetto a quello legislativamente previsto, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunciare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti”.


La medesima Corte, inoltre, avrebbe dovuto considerare che “la clausola che preveda la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto è valida a condizione che si tratti, non già di un vero e proprio “aumento”, bensì di un “adeguamento” del canone al mutato valore locativo dell’immobile volto a ripristinare il sinallagma originario, evitando uno squilibrio a vantaggio del conduttore”.


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