Il legislatore non si limita però a modificare le aliquote della cedolare secca, ma incide direttamente sullo status fiscale del proprietario. Superata una determinata soglia di immobili destinati agli affitti brevi, la locazione turistica non viene più considerata come mera amministrazione del patrimonio, bensì come attività economica organizzata, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di Partita Iva, contributi previdenziali e adempimenti contabili.
La principale novità riguarda l’abbassamento drastico del limite oltre il quale scatta l’obbligo di operare come impresa. In passato la presunzione di attività imprenditoriale si attivava solo al raggiungimento di 5 immobili; adesso, la soglia si attesta alla terza unità immobiliare locata a fini turistici. In altri termini, chi affitta una prima e una seconda casa potrà continuare ad applicare la cedolare secca al 21% (per un approfondimento sulla questione si consiglia la lettura del seguente articolo).
Dal terzo immobile in poi, però, non sarà più possibile restare nel perimetro della tassazione sostitutiva e scatterà automaticamente l’obbligo di apertura della Partita Iva.
Questo cambio di impostazione coinvolge una platea molto più ampia di proprietari, spesso piccoli investitori che negli ultimi anni hanno diversificato i propri risparmi, puntando sugli affitti brevi. Per molti di loro, l’ingresso forzato nel regime d’impresa rappresenta un salto non solo fiscale, ma anche organizzativo e burocratico.
Un elemento che ha attirato l’attenzione degli operatori del settore è l’entità delle entrate previste per l’Erario. Le stime ufficiali parlano di un gettito aggiuntivo estremamente contenuto, pari a poche decine di milioni di euro annui.
Quando l’inasprimento fiscale è accompagnato da un incremento significativo dei costi indiretti, il rischio è che il mercato tenti di aggirare la misura, sottraendo i redditi del “terzo immobile” dalla dichiarazione.
Per chi intende restare nella legalità, le opzioni non mancano, anche se comportano rinunce e compromessi.
La scelta più lineare consiste nel modificare la tipologia contrattuale, destinando uno degli immobili all’affitto a lungo termine, rinunciando però alla flessibilità e ai rendimenti potenzialmente più elevati della locazione breve.
Contratti come il 4+4 o il canone concordato consentono di uscire dal conteggio delle unità turistiche, mantenendo una fiscalità più prevedibile e senza obblighi imprenditoriali.
Un’altra strada percorribile è la redistribuzione della proprietà all’interno del nucleo familiare. Intestare uno degli immobili al coniuge o a un figlio permette di evitare il superamento della soglia individuale delle due case. Tuttavia, si tratta di un’operazione che presenta costi notarili, rigidità giuridiche e potenziali complicazioni future, ad esempio in caso di successione o separazione.
Tra le soluzioni possibili rilevano anche il comodato e la sublocazione a soggetti terzi. In questi casi, il proprietario concede l’immobile a un’altra persona fisica o a una società, che a sua volta gestisce l’affitto breve. Formalmente, l’unità non rientra più nel numero di immobili locati direttamente dal proprietario originario. Si tratta, però, di un’operazione che nasconde alcuni rischi. Infatti, qualora l’operazione appaia priva di una reale giustificazione economica e finalizzata esclusivamente a ridurre il carico fiscale, l’Agenzia delle Entrate potrebbe riqualificarla come abuso del diritto o elusione fiscale, con il rischio di sanzioni e recuperi d’imposta. In un contesto di crescente attenzione ai flussi degli affitti brevi, queste strutture contrattuali saranno probabilmente oggetto di verifiche mirate.
Qualora non si volesse optare per le soluzioni indicate, l’alternativa resta l’apertura della Partita Iva. Nel regime ordinario, la pressione fiscale complessiva può risultare sensibilmente più elevata rispetto alla cedolare secca, soprattutto se si considera l’incidenza dell’Irpef progressiva. Una soluzione parziale è costituita dal regime forfettario, grazie all’imposta sostitutiva ridotta, che però non elimina il problema principale, ovvero i contributi previdenziali. L’iscrizione all’INPS e il versamento dei contributi, anche sul minimale, incidono in modo significativo sulla redditività dell’investimento, rendendo meno conveniente l’attività per chi opera su margini contenuti.
La titolarità di una Partita Iva, comunque, comporta anche una serie di adempimenti burocratici, come fatturazione elettronica, corrispettivi telematici, registrazioni contabili e scadenze periodiche. Anche affidandosi a un commercialista, il proprietario deve sostenere costi aggiuntivi e dedicare tempo alla gestione amministrativa.