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Uccide la moglie per alleviarne le sofferenze: sussiste qualche attenuante?

Uccide la moglie per alleviarne le sofferenze: sussiste qualche attenuante?
Ai fini della riconoscibilità dell’attenuante di "aver agito per per motivi di particolare valore morale o sociale", di cui all’art. 62 c.p., è necessario che il movente dell’azione delittuosa sia “espressione del comune sentire sociale”.
Se un uomo uccide la moglie al fine di alleviarne le sofferenze, può essergli riconosciuta qualche circostanza attenuante?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7390 del 15 febbraio 2018, si è occupata proprio di questa questione, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.

Il caso sottoposto all’esame della Cassazione ha visto come protagonista un soggetto, che era stato condannato, sia in primo che in secondo grado, per il reato di “omicidio volontario aggravato” (artt. 575577 c.p.), per aver volontariamente ucciso la moglie, “mediante strangolamento con una sciarpa mentre costei dormiva”.

Nel caso di specie, in particolare, l’imputato aveva sempre ammesso la propria responsabilità e, dagli accertamenti effettuati in corso di causa, era emerso che “la moglie dell'imputato soffriva ormai da tempo di alcune patologie che ne avevano alterato irrimediabilmente le facoltà mentali e la capacità di deambulazione e, pertanto, era impossibilitata a gestire la propria vita quotidiana, già alterata dalle sofferenze e dalla depressione che avevano origini antiche, verosimilmente risalenti alla perdita di un figlio per suicidio”.

L’imputato, dunque, aveva ucciso la moglie al fine di porre fine alle sue sofferenze, asserendo che la stessa “avrebbe preferito, rispetto ad una lunga malattia, essere trovata una mattina morta nel suo letto”.

Ritenendo la condanna ingiusta, l’imputato aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.

Osservava il ricorrente, in proposito, che i giudici d’appello avrebbero errato nel non riconoscergli l’attenuante di “aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale”, di cui all’art. 62, comma 1, c.p.

Secondo l’imputato, infatti, “i giudici di merito avrebbero dovuto ritenere che fosse da considerare un valore condiviso dalla collettività quello di porre fine alle sofferenze della persona, conformemente ai suoi desideri espressi in vita”.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter aderire alle considerazioni svolte dall’imputato, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.

Osservava la Cassazione, sul punto, che il giudice d’appello aveva, del tutto adeguatamente, osservato che, ai fini della riconoscibilità dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., è necessario che il movente dell’azione delittuosa sia “espressione del comune sentire sociale”.

Nel caso in esame, invece, “ciò non poteva dirsi essere in concreto sussistente”, dal momento che la questione atteneva “a tematiche - quali l'eutanasia ed i trattamenti di fine vita - ancora oggetto di ampi dibattiti”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dall’imputato, confermando integralmente la sentenza oggetto di impugnazione.


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