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Minacce: quando puņ dirsi integrato il reato?

Minacce: quando puņ dirsi integrato il reato?
Secondo la Corte di Cassazione non può parlarsi di minaccia quando il male non sia prospettato come dipendente dalla volontà dell'agente.
Quando può dirsi integrato il reato di “minaccia”?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 54879 del 6 dicembre 2017, si è occupata proprio di un caso di presunte minacce, fornendo alcune interessanti precisazioni circa la configurabilità di tale reato.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Tribunale di Enna, in riforma della sentenza di primo grado, aveva assolto un imputato dal reato di “minaccia” (art. 612 c.p.) di cui era stato accusato.

Ritenendo la decisione ingiusta, la persona offesa aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.

Secondo il ricorrente, in particolare, la Corte d’appello, nell’assolvere l’imputato, non avrebbe tenuto in adeguata considerazione il fatto che i testimoni avevano concordemente confermato che l’imputato gli aveva rivolto delle minacce all'esito di un'udienza civile in Tribunale.

Evidenziava il ricorrente, inoltre, che, ai fini della configurabilità del reato di “minaccia”, “è sufficiente l'ingiustizia del danno, senza necessità che si realizzi l'effettiva intimidazione della vittima”.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione alla presunta parte offesa, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.

Osservava la Cassazione, infatti, che, nel caso di specie, la Corte d’appello aveva dato rilevanza a quanto dichiarato da uno testimoni, il quale aveva riferito di aver sentito l’imputato dire che l’azienda della persona offesa avrebbe chiuso, che la stessa si sarebbe trovata a “guardare pecore” e che le sarebbe “finita male”.

Ebbene, secondo la Cassazione, il giudice di secondo grado aveva, del tutto correttamente, ritenuto che tale frase non integrasse “sotto il profilo oggettivo, il reato di minaccia di cui all'art. 612 cod. pen., poichè la formula impersonale, utilizzata dall'imputato, evoca un male futuro, la cui realizzazione non dipende dalla volontà dell'agente”.

Secondo la Cassazione, dunque, “non può parlarsi di minaccia quando il male non sia prospettato come dipendente dalla volontà dell'agente”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dalla persona offesa, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.


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