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Licenziamento per giusta causa e insubordinazione

Lavoro - -
Licenziamento per giusta causa e insubordinazione
Chi svolge attività per conto proprio durante le ore di lavoro può essere licenziato per giusta causa ma non per insubordinazione poichè tale licenziamento si applica solo in caso di rifiuto ad eseguire un ordine.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8236 del 26 aprile 2016, si è occupata, ancora una volta, del tema relativo alla legittimità del licenziamento per giusta causa del lavoratore.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva disposto la conversione del licenziamento per giusta causa, intimato ad un lavoratore, in “licenziamento per giustificato motivo soggettivo, accertando il diritto del lavoratore a percepire l'indennità sostitutiva dei preavviso”.

Secondo il giudice di secondo grado, si escludeva che la contestazione disciplinare fosse stata generica, in quanto “sia pure in modo sommario, conteneva tutti gli elementi essenziali a identificare e ricostruire il fatto, così che era da ritenere che il lavoratore fosse stato messo in grado di formulare le sue difese, anche tenuto conto del fatto che la lettera contenente gli addebiti gli era stata consegnata appena due giorni dopo”.

Secondo la Corte d’appello, inoltre, il licenziamento non poteva essere considerato illegittimo in ragione della mancata affissione del codice disciplinare, in quanto “la condotta contestata aveva comportato la violazione del dovere fondamentale del dipendente di tenere a disposizione del datore di lavoro, durante l'orario di lavoro, le energie lavorative e cioè la violazione di un dovere che risulta tale indipendentemente dalla formale enunciazione in un codice disciplinare”.

Il licenziamento, peraltro, non poteva considerarsi sproporzionato rispetto al comportamento contestato, “essendosi trattato in sostanza di un episodio di insubordinazione, oltre che di una sorta di appropriazione indebita del tempo di lavoro retribuito e dei beni aziendali”.

Ritenendo la sentenza ingiusta, il lavoratore provvedeva a proporre ricorso in Cassazione; a tale ricorso si opponeva la società datrice di lavoro.

Osservava il ricorrente, in particolare, come il giudice di secondo grado non avesse dato corretta applicazione all’art. 7 della legge n. 300/1970 e come la sentenza risultasse viziata sotto il profilo motivazionale, nella parte in cui aveva escluso la genericità della contestazione disciplinare.

Secondo il ricorrente, inoltre, la Corte d’appello avrebbe errato nell’escludere l’illegittimità del licenziamento “per mancata affissione del codice disciplinare”.

La Corte di Cassazione, tuttavia, riteneva di poter aderire solo parzialmente alle argomentazioni svolte dal ricorrente.

Precisava la Cassazione, infatti, come la Corte d’appello avesse, del tutto adeguatamente, “ritenuto il carattere sufficientemente specifico della lettera di contestazione disciplinare”, oltre ad “averne esaminato il contenuto con riferimento a tutti gli elementi essenziali volti a descrivere il comportamento addebitato al lavoratore”.

Il giudice di secondo grado, dunque, aveva “correttamente sottolineato (…) come in tale indagine debba aversi riguardo alle finalità sostanziali proprie della contestazione, che sono quelle di porre il lavoratore in grado di esplicare pienamente il suo diritto di difesa”.

La Corte di Cassazione, riteneva, invece, di dover aderire ad uno dei motivi di ricorso avanzati dal lavoratore, al quale era “stato contestato di avere, durante l'orario di lavoro, eseguito attività per conto proprio, fuori della postazione di lavoro senza alcun permesso e utilizzando attrezzature sulle quali non era stato preventivamente addestrato”.

In proposito, la Cassazione osservava che “in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito commesso - istituzionalmente rimesso al giudice di merito - si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi in considerazione la circostanza che, a tutela dei lavoratore, il suo inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c.”.

Pertanto, “l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria dei rapporto”.

Nel caso di specie, la Corte d’appello non aveva proceduto a tale valutazione di “notevole inadempimento”, dal momento che la medesima aveva fondato “il proprio giudizio di gravità sul rilievo secondo il quale la condotta ascritta al lavoratore costituirebbe una forma di insubordinazione”.

Tuttavia, secondo la Cassazione, era evidente che, nel caso di specie, non si era verificata alcuna condotta che potesse essere considerata come “insubordinazione, la cui nozione è ristretta, in ogni ambito, alla condotta di chi rifiuti di ottemperare ad una direttiva o ad un ordine, giustificato e legittimo, di svolgere una diversa attività o un diverso compito”.

In base a tali considerazioni, la Corte di Cassazione annullava la sentenza di secondo grado, in relazione a quest’ultimo motivo di ricorso, rinviando la causa alla Corte d’appello, affinchè la medesima decidesse nuovamente sulla questione, in base ai principi sopra enunciati.


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