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Dequalificazione del lavoratore

Lavoro - -
Dequalificazione del lavoratore
E' illegittima la condotta del datore di lavoro che attribuisce ad un lavoratore mansioni proprie di un'area inferiore rispetto a quelle precedentemente svolte.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3422 del 2016, ha fornito alcune interessanti precisazioni in tema di mansioni alle quali può essere adibito il lavoratore.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, aveva “accertato la sussistenza di una dequalificazione professionale”, operata dalla società datrice di lavoro nei confronti di un dipendente, il quale, a partire da una certa data, era stato adibito “a ripartire lettere e stampe; caricare e scaricare sacchi contenenti corrispondenza; trasportare manualmente carrelli e cassette di corrispondenza; svuotare sacchi contenenti corrispondenza”.

Secondo la Corte d’Appello, dunque, nel caso di specie era stato violato l’art. 2103 codice civile, “rispetto alle mansioni in precedenza svolte” dal lavoratore, le quali potevano definirsi “di qualificata natura tecnica”.

La società datrice di lavoro provvedeva, pertanto, a proporre ricorso in Cassazione, “in quanto la Corte di Appello non avrebbe proceduto al raffronto tra le mansioni svolte e le declaratorie contrattuali di riferimento”, ritenendo erroneamente di poter ricondurre le mansioni svolte dal lavoratore “all’area di base e non all’area operativa”.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva il ricorso fondato.

Secondo la Cassazione, infatti, la Corte d’Appello aveva provveduto al raffronto tra le mansioni svolte e le declaratorie contrattuali di riferimento, avendo la medesima evidenziato che “alla superiore area operativa appartengono i dipendenti che svolgono attività esecutive e tecniche presupponenti adeguata preparazione professionale, con capacità di utilizzazione di strumenti semplici e complessi e richiedenti preparazione tecnico-professionale di parziale o media specializzazione e capacità di autonomia operativa, nei limiti dei regolamenti di esecuzione”.

Secondo la Corte di Cassazione, dunque, la Corte d’Appello aveva ritenuto correttamente che la dequalificazione, operata dalla società datrice di lavoro, non era avvenuta nell’ambito della stessa area ma aveva “determinato l’attribuzione di mansioni proprie di un’area inferiore”.

Precisava la Cassazione, in proposito, che “pur in ipotesi di reinquadramento previsto dal contratto collettivo in un’unica qualifica di lavoratori precedentemente inquadrati in qualifiche distinte, permane il divieto di un’indiscriminata fungibilità di mansioni che esprimano in maniera radicale una diversa professionalità e che non consentano una sia pure residuale utilizzazione dell’acquisita professionalità, qualora le ultime mansioni espletate non abbiano, con quelle spiegate in precedenza, affinità o analogia di sorta”.

Infatti, l’art. 2103 codice civile, “fa divieto di un’indiscriminata fungibilità di mansioni che esprimano in concreto una diversa professionalità, pur confluendo nella medesima declaratoria contrattuale e, quindi, pur essendo riconducibili alla matrice comune che connota la qualifica secondo la declaratoria contrattuale”.

Lo stesso articolo è volto alla “protezione della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro”, al quale deve essere garantito l’accrescimento delle proprie capacità professionali.

Secondo la Corte di Cassazione, dunque, nel caso di specie la dequalificazione del lavoratore non poteva considerarsi legittima, dal momento che il dipendente era passato dallo svolgere mansioni di comprovata natura tecnica, a caricare e scaricare sacchi di corrispondenza.

Tale dequalificazione, secondo la Corte, aveva ripercussioni negative sia in termini di danno patrimoniale che di danno non patrimoniale.

Dal punto di vista “non patrimoniale”, infatti, la dequalificazione era stata “idonea ad alterare la normalità delle relazioni del lavoratore con il contesto aziendale in cui opera”.

Di conseguenza, la Corte d’Appello aveva correttamente riconosciuto la risarcibilità di tali danni.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso, condannando la società ricorrente al pagamento delle spese processuali.


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