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Confisca su conto corrente: è sempre diretta

Confisca su conto corrente: è sempre diretta
La confisca sul conto corrente è sempre diretta quando il prezzo o il profitto del reato sia il denaro, anche se si prova la sua derivazione da un titolo lecito.
Le Sezioni Unite, con sentenza n. 42415 del 18 novembre 2021, si sono finalmente pronunciate sulla questione di diritto se il sequestro delle somme di denaro giacenti sul conto corrente bancario debba sempre qualificarsi finalizzato alla confisca diretta del prezzo, anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la prova della derivazione del denaro da un titolo lecito.

Al fine di esaminare il recente approdo ermeneutico della Cassazione, è allora necessario ricordare che la confisca è una misura di sicurezza patrimoniale, prevista all’art. 240 c.p., avente ad oggetto le cose che sono state destinate a commettere il reato e quelle che ne sono il prodotto o il profitto. In particolare, il legislatore prevede che, in caso di condanna, il giudice possa estinguere il diritto di proprietà del reo su siffatti beni, allo scopo di prevenire la commissione di ulteriori reati. La confisca, concretamente, può essere di due tipi:
  • diretta, quando l’effetto ablativo si verifica con riferimento a beni direttamente collegati al reato;
  • per equivalente (o “di valore”), quando, non essendo possibile confiscare il profitto o il prodotto diretto del reato, colpisce somme di denaro o altri beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore equivalente.
Ben si può cogliere dunque come sia particolarmente problematico il caso in cui il profitto o il prezzo del reato sia costituito dal denaro, il quale venga versato poi sul contro corrente. È da anni discusso, infatti, se la confisca effettuata sul conto corrente bancario debba essere considerata confisca diretta del profitto del reato oppure se, al contrario, debba essere considerata una confisca per equivalente.
Va segnalato che il problema non è meramente teorico, ma ha un importante risvolto pratico, essendo diverso il regime giuridico applicabile nell’uno e nell’altro caso.
Sulla questione, infatti, si sono a lungo contesi il campo due contrapposti orientamenti:
  1. secondo una prima tesi (sostenuta, ad esempio, da Sez. Un. c.d. Lucci n. 31617/2015) la confisca del prezzo o del profitto accrescitivo derivanti da reato e costituiti da denaro va qualificata sempre come diretta, in virtù della fungibilità del bene;
  2. per altra parte della giurisprudenza, invece, il nesso di pertinenzialità va interpretato in modo più stringente sicchè, in tutti i casi in cui non sussista, la confisca si deve considerare per equivalente. Secondo tale tesi, dunque, non è possibile procedere alla confisca con riferimento alle somme non ancora confluite nel conto corrente al momento della commissione del fatto o dell’accertamento del reato.
Sul punto, la Cattedra nomofilattica ha sposato il primo orientamento, affermando che, in tutti i casi in cui il prezzo o il profitto del reato sia pecuniario, la confisca viene eseguita sul denaro, comunque rinvenuto nel patrimonio dell’agente, che rappresenti l’effettivo accrescimento patrimoniale monetario da questo conseguito per effetto dell’azione criminosa.
Tale confisca, pertanto, deve sempre qualificarsi come diretta e non per equivalente. Le Sezioni Unite, in conformità a quanto già affermato nella citata sentenza c.d. Lucci, ritengono infatti che, ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa si confonda automaticamente con le altre disponibilità economiche del reo e perda qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica, per il fatto stesso di essere divenuta una appartenenza del reo.

Con la recente pronuncia, le Sezioni Unite hanno inoltre affrontato la questione se la prova in giudizio dell’origine lecita delle particolari somme in concreto confiscate possa o meno considerarsi ostativa all’adozione della confisca diretta.
Anche questa questione, infatti, era stata oggetto di dibattito.
L’ordinanza di rimessione, segnatamente, pur sposando la tesi della confisca sempre diretta, aveva condiviso un orientamento dottrinale e giurisprudenziale favorevole a dar rilievo alla prova della provenienza lecita del denaro: secondo tale indirizzo, se la parte interessata prova che il profitto illecito non si è confuso con le somme aventi sicura provenienza lecita (e dunque dimostra così l’insussistenza del nesso di pertinenzialità tra reato e denaro vincolato), la confisca di quest’ultimo non può qualificarsi come diretta bensì deve considerarsi per equivalente.
Le Sezioni Unite, tuttavia, ripudiano tale impostazione.

Tanto il Collegio afferma in virtù della speciale natura intrinseca del denaro, che è "bene numerario fungibile": la somma di denaro che ha costituito il pretium delicti, infatti, non va considerata nella sua consistenza fisica ma nella sua “essenza ontologica di bene fungibile e paradigma di valore.
Per tale ragione, per la confisca del prezzo o del profitto consistente in una somma di denaro, è irrilevante che il numerario (cioè le stesse banconote, la stessa moneta fisica) conseguito dall’autore in conseguenza del reato sia materialmente corrispondente a quello sottoposto a confisca e, parimenti, a nulla rileva l’eventuale prova del fatto che il denaro fisicamente confiscato sia in realtà di provenienza lecita. La funzione della misura, infatti, non è quella di ritrovare sul conto corrente del reo le stesse banconote ab origine costituenti il prezzo o profitto del reato ma è quella di realizzare l’ablazione della somma già entrata nel suo patrimonio a causa della commissione dell’illecito e ivi ancora rinvenibile.


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