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Bullismo: condannati dei ragazzini per "atti persecutori"

Bullismo: condannati dei ragazzini per "atti persecutori"
La Cassazione ha ritenuto di dover confermare la condanna di alcuni ragazzini che avevano tenuto dei comportamenti persecutori nei confronti di un altro ragazzino, il quale, dopo un tentativo di ribellione, si era visto costretto ad accettare tali condotte, "per evitare altre botte".
E’ dell’8 giugno 2017 un’interessante sentenza della Corte di Cassazione in tema di “bullismo” (Cass. civ., sentenza n. 28623 dell’8 giugno 2017).

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Napoli, sezione per i minorenni, aveva confermato la decisione di primo grado che aveva condannato alcuni ragazzini del reato di cui all’art. 612 bis cod. pen. (atti persecutori), commesso in danno di un altro ragazzino.

Nell’interesse degli imputati veniva, dunque, proposto ricorso per Cassazione, al fine di ottenere l’annullamento della sentenza loro sfavorevole.

Secondo i ricorrenti, infatti, la Corte d’appello avrebbe fondato la pronuncia di condanna solo ed esclusivamente sulla base delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, che erano state generiche e che non erano state confermate dai testimoni sentiti in corso di causa e dalla documentazione prodotta.

A detta dei ricorrenti, inoltre, non era nemmeno stata dimostrata la “serialità delle condotte” richiesta dalla norma incriminatrice.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione ai ricorrenti, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.

Osservava la Cassazione, infatti, che, ai fini della contestazione del delitto di cui all’art. 612 bis c.p., non è necessario che la persona offesa indichi precisamente il luogo e la data di verificazione di ogni singolo episodio persecutorio, essendo sufficiente che l’accusa contenga la descrizione di una serie di comportamenti tenuti in sequenza, indicando una collocazione temporale di massima.

Evidenziava la Cassazione, inoltre, che, le dichiarazioni rese dalla persona offesa, “possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato”, purchè sia verificata, in modo rigoroso, la credibilità del dichiarante e l’attendibilità del racconto.

Quanto, invece, alla presunta “genericità delle dichiarazioni della persona offesa”, la Cassazione osservava come questa rappresentasse una semplice affermazione difensiva degli imputati, che andava contro, tuttavia, alle puntuali osservazioni contenute nella sentenza impugnata, dalle quali si poteva rilevare “lo sviluppo temporale e soggettivo della vicenda”.

Per quanto riguardava poi, il verificarsi dell’evento di reato, la Cassazione rilevava che al fine di provare che la persona offesa ha subito “un grave e perdurante stato di ansia o di paura” è necessario dare atto del turbamento psicologico della vittima, che può desumersi dalle sue stesse dichiarazioni o “dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente”.

Pertanto, nel caso in esame, la Corte d’appello aveva correttamente ritenuto integrato il reato contestato, dal momento che la persona offesa aveva riferito che “ormai succube della violenza, dopo un’iniziale tentativo di ribellione, aveva dovuto accettare condotte di sopraffazione ‘per evitare altre botte’”.

Ciò considerato, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dai ricorrenti, confermando integralmente la sentenza di condanna emessa dalla Corte d’appello.


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