Questo adempimento fiscale è un appuntamento dovuto per i proprietari di seconde case o di abitazioni principali qualificate catastalmente come case di lusso, oltre che per i proprietari di terreni agricoli.
Il panorama dell’IMU 2025 conferma l’esistenza di forti disuguaglianze fiscali, legate alla classificazione catastale degli immobili.
In Italia, infatti, la categoria catastale a cui è assegnata un’abitazione può determinare in maniera significativa l’importo della tassa da pagare, trasformando l’IMU in una vera e propria “lotteria fiscale”.
All’orizzonte si profila una possibile revisione del sistema. Il decreto delegato sui tributi locali, atteso per il 2026, potrebbe, invero, introdurre importanti novità, tra cui una semplificazione delle dichiarazioni IMU e nuove agevolazioni per gli affitti a canone concordato. Resta, tuttavia, da capire quale sarà l’impatto reale di queste misure su un sistema che, al momento, continua a generare profonde disuguaglianze.
A Milano, ad esempio, i proprietari di abitazioni classificate come A/2 (abitazioni di tipo civile) si trovano a versare un acconto IMU pari a 2.628 euro, quasi il doppio rispetto ai 1.221 euro richiesti per le case di categoria A/3 (abitazioni economiche). Disparità simili emergono anche in altri grandi centri urbani: a Napoli, il passaggio da A/3 ad A/2 comporta un aumento dell’IMU da 898 a 1.641 euro; a Firenze, sebbene con minore intensità, l’imposta cresce comunque da 1.270 a 1.598 euro.
A Bologna, dove le abitazioni A/2 sono meno numerose rispetto alle A/3, la loro rendita catastale media si attesta a 1.487,90 euro, contribuendo così a un’imposizione fiscale più elevata.
Queste differenze spesso non corrispondono a reali differenze qualitative tra gli immobili. Capita frequentemente che abitazioni con caratteristiche simili vengano inquadrate in categorie catastali diverse, generando iniquità evidenti. Inoltre, molti immobili ristrutturati non vengono riclassificati, mantenendo una rendita catastale inadeguata rispetto al loro reale valore, perpetuando così uno squilibrio nel carico fiscale.
Un’ulteriore fonte di disparità riguarda la tassazione delle seconde case. In 25 delle 30 città analizzate, l’aliquota IMU è identica sia per gli immobili sfitti che per quelli affittati a canone libero. Solo poche città – tra cui Milano, Modena e Ravenna – prevedono riduzioni, ma si tratta di sconti minimi, spesso limitati all’1 per mille.
Le agevolazioni più significative si registrano per gli affitti a canone concordato, con riduzioni dell’aliquota IMU che possono arrivare fino a 4 punti percentuali. Tuttavia, queste misure restano un’eccezione piuttosto che la norma.
Le abitazioni popolari, classificate come A/4, costituiscono ancora il 13,8% del patrimonio abitativo nei capoluoghi di provincia. Esse beneficiano di un’IMU generalmente più contenuta rispetto alle abitazioni civili. Tuttavia, il loro numero è in calo, anche a causa dei progetti di riqualificazione urbana che stanno trasformando queste strutture, spesso comportando un aumento della rendita catastale e, quindi, dell’IMU dovuta.
Il panorama dell’IMU 2025 conferma l’esistenza di forti disuguaglianze fiscali, legate alla classificazione catastale degli immobili.
In Italia, infatti, la categoria catastale a cui è assegnata un’abitazione può determinare in maniera significativa l’importo della tassa da pagare, trasformando l’IMU in una vera e propria “lotteria fiscale”.
All’orizzonte si profila una possibile revisione del sistema. Il decreto delegato sui tributi locali, atteso per il 2026, potrebbe, invero, introdurre importanti novità, tra cui una semplificazione delle dichiarazioni IMU e nuove agevolazioni per gli affitti a canone concordato. Resta, tuttavia, da capire quale sarà l’impatto reale di queste misure su un sistema che, al momento, continua a generare profonde disuguaglianze.
A Milano, ad esempio, i proprietari di abitazioni classificate come A/2 (abitazioni di tipo civile) si trovano a versare un acconto IMU pari a 2.628 euro, quasi il doppio rispetto ai 1.221 euro richiesti per le case di categoria A/3 (abitazioni economiche). Disparità simili emergono anche in altri grandi centri urbani: a Napoli, il passaggio da A/3 ad A/2 comporta un aumento dell’IMU da 898 a 1.641 euro; a Firenze, sebbene con minore intensità, l’imposta cresce comunque da 1.270 a 1.598 euro.
A Bologna, dove le abitazioni A/2 sono meno numerose rispetto alle A/3, la loro rendita catastale media si attesta a 1.487,90 euro, contribuendo così a un’imposizione fiscale più elevata.
Queste differenze spesso non corrispondono a reali differenze qualitative tra gli immobili. Capita frequentemente che abitazioni con caratteristiche simili vengano inquadrate in categorie catastali diverse, generando iniquità evidenti. Inoltre, molti immobili ristrutturati non vengono riclassificati, mantenendo una rendita catastale inadeguata rispetto al loro reale valore, perpetuando così uno squilibrio nel carico fiscale.
Un’ulteriore fonte di disparità riguarda la tassazione delle seconde case. In 25 delle 30 città analizzate, l’aliquota IMU è identica sia per gli immobili sfitti che per quelli affittati a canone libero. Solo poche città – tra cui Milano, Modena e Ravenna – prevedono riduzioni, ma si tratta di sconti minimi, spesso limitati all’1 per mille.
Le agevolazioni più significative si registrano per gli affitti a canone concordato, con riduzioni dell’aliquota IMU che possono arrivare fino a 4 punti percentuali. Tuttavia, queste misure restano un’eccezione piuttosto che la norma.
Le abitazioni popolari, classificate come A/4, costituiscono ancora il 13,8% del patrimonio abitativo nei capoluoghi di provincia. Esse beneficiano di un’IMU generalmente più contenuta rispetto alle abitazioni civili. Tuttavia, il loro numero è in calo, anche a causa dei progetti di riqualificazione urbana che stanno trasformando queste strutture, spesso comportando un aumento della rendita catastale e, quindi, dell’IMU dovuta.