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Messaggi a raffica su WhatsApp, ora è molestia, anche se tra amici e parenti: ecco la recente sentenza

Messaggi a raffica su WhatsApp, ora è molestia, anche se tra amici e parenti: ecco la recente sentenza
Un caso recente dimostra che inviare messaggi a raffica su WhatsApp può costare una condanna per molestie. L’episodio di cui parliamo ci ricorda che la tecnologia può amplificare conflitti che altrimenti resterebbero privati, e che la legge valuta anche la modalità di comunicazione, non solo il contenuto. Ecco i dettagli della sentenza del Tribunale di Torre Annunziata
La vicenda nasce da un conflitto apparentemente banale, legato all'utilizzo di una casa estiva familiare. Una donna, irritata dalla violazione di un accordo sulla turnazione dell'immobile, ha deciso di inviare una raffica di 70 messaggi vocali in poco più di mezz'ora. La destinataria, la cognata, ha percepito questa condotta come un attacco opprimente e molesto, e ha scelto di sporgere denuncia. Il giudice ha sottolineato come la frequenza e l'insistenza dei messaggi possano creare uno stato di disagio significativo, equiparabile a molestie anche se il contenuto non è offensivo.
Il caso evidenzia altresì un fenomeno sempre più comune: i conflitti familiari, se gestiti attraverso i mezzi digitali, possono degenerare rapidamente. La rapidità con cui si possono inviare messaggi e notifiche rende facile perdersi nel bombardamento comunicativo, causando stress e disagio psicologico alla persona offesa.
Perché i messaggi a raffica diventano reato
Il Tribunale di Torre Annunziata, con la con la sentenza numero 385 del 3 marzo 2025, ha qualificato l'invio massiccio di messaggi come reato di molestie, secondo l'art. 660 del c.p.. Il ragionamento del giudice si basa sul concetto di petulanza: non conta solo ciò che si scrive o si registra, ma anche come e quanto frequentemente si inviano le comunicazioni. I 70 vocali, inviati in tempi ristretti, sono stati considerati un atto deliberato per disturbare la serenità della vittima, trasformando un dissidio familiare in un illecito penale. Ogni notifica arrivata sul telefono della vittima diventava un ulteriore elemento di pressione psicologica, sufficiente a configurare la molestia.
Non c'è bisogno che i messaggi contengano minacce esplicite o offese per costituire reato. La semplice insistenza, se prolungata nel tempo e percepita come opprimente, può essere sufficiente. La legge guarda quindi anche alla modalità di comunicazione e al suo impatto sulla vittima, considerando l'aggressione digitale alla stregua di comportamenti persecutori nel mondo reale.
Il movente dietro l'invio ossessivo dei messaggi
Il comportamento della donna non era casuale, ma legato a motivazioni ben precise. L'origine del conflitto era la gestione della casa estiva: il fratello della vittima aveva violato l'accordo familiare sulla turnazione, occupando l'immobile nel periodo destinato alla sorella. La frustrazione accumulata si è trasformata in un bombardamento digitale, una strategia aggressiva per imporre la propria rabbia. La sentenza evidenzia come l'astio personale possa diventare un fattore aggravante quando si utilizzano strumenti tecnologici per esercitare pressione o intimidazione.
Oltre alla motivazione personale, la vicenda mostra come i conflitti familiari spesso si amplifichino a causa della scarsa gestione dei rapporti interpersonali e della facilità con cui la tecnologia permette di intensificare discussioni e incomprensioni. La rapidità e la quantità dei messaggi possono far crescere il conflitto, trasformando una semplice lite in un episodio di molestie perseguibile per legge.
Le conseguenze legali e il messaggio della sentenza
La decisione del Tribunale di Torre Annunziata manda un messaggio chiaro: WhatsApp e le piattaforme di messaggistica non sono spazi senza regole. Non conta solo il contenuto dei messaggi, ma anche la quantità e la frequenza, che possono avere rilevanza penale. Per chi subisce molestie digitali, la denuncia diventa uno strumento fondamentale per tutelare la propria tranquillità. Questa pronuncia serve da monito: le liti familiari, se gestite con aggressività e insistenza tramite la tecnologia, possono trasformarsi rapidamente in procedimenti penali, con tutte le conseguenze legali e psicologiche del caso.
In pratica, la sentenza ricorda che ogni azione digitale ha un peso e che il rispetto dei confini altrui è imprescindibile anche nelle comunicazioni online. Chi subisce molestie ha diritto a protezione, mentre chi eccede con la petulanza e l'insistenza può trovarsi ad affrontare conseguenze penali importanti. Questo caso, inoltre, sottolinea quanto sia fondamentale educare all'uso responsabile della tecnologia, sia in ambito familiare sia nella vita quotidiana.


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