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Licenziamento: è ritorsione se manca la prova del giustificato motivo oggettivo

Lavoro - -
Licenziamento: è ritorsione se manca la prova del giustificato motivo oggettivo
Confermata dalla Cassazione la sentenza di secondo grado, che aveva ritenuto non dimostrate le “ragioni organizzative” del datore di lavoro.

Con la sentenza n. 11352/2019, la Sezione Lavoro della Cassazione si è espressa in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Questa la vicenda processuale.
Il Tribunale di Roma, adito per l'impugnativa di licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad un dipendente, dichiarava illegittimo il recesso datoriale e, in applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, comma 5, dichiarato risolto il rapporto alla data del licenziamento, condannava parte resistente al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a 22 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori.
In parziale riforma del provvedimento di primo grado, la Corte d'Appello dichiarava nullo il licenziamento perché ritorsivo ed applicava la tutela di cui al comma 1 dell'art. 18 St. Lav.
In particolare, i giudici di secondo grado escludevano la sussistenza del giustificato motivo oggettivo, addotto dal datore di lavoro (presunta soppressione del posto di lavoro), osservando come la riorganizzazione aziendale fosse stata solo programmata e delineata, ma non realmente attuata, come dimostrava il lasso temporale intercorso tra la comunicazione formale della soppressione della posizione in questione e il provvedimento di licenziamento (circa quattro anni).
Inoltre, la Corte d’Appello rilevava come, dopo il licenziamento, la funzione svolta dal lavoratore licenziato venisse assegnata ad altro lavoratore, e ciò a conferma dell'insussistenza della ragione organizzativa posta a base del recesso.
Invece, l'intento ritorsivo - sempre secondo la Corte territoriale - sarebbe stato dimostrato, tra l'altro, dalla cadenza temporale degli eventi rilevanti nella vicenda in esame, fra i quali la richiesta da parte del dipendente di rivendicazioni economiche connesse ad un diverso inquadramento e la manifestata volontà di usufruire di un periodo di malattia, che precedevano la determinazione di recesso.
La Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, sotto diversi profili.
Secondo la Suprema Corte, le censure sollevate dalla ricorrente non investono in alcun modo il significato e la portata applicativa delle norme citate, ma sono integralmente volte a criticare la ricostruzione della fattispecie concreta operata dalla Corte territoriale, laddove ha ritenuto, in primo luogo, insussistente la ragione organizzativa posta a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, accertato, sulla base di ulteriori elementi di giudizio, un "quid pluris" ovvero l'intento ritorsivo, sotteso alla decisione datoriale di espulsione del lavoratore.
Ora, precisano i giudici di legittimità, spetta al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento ed, in proposito, valutare le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.
L'omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l'omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.
Nel caso di specie, la sentenza impugnata aveva ritenuto insussistente la ragione organizzativa posta a base del licenziamento, giudicando superflua la necessità di valutare altri profili dedotti dalla società datrice di lavoro. Nel fare questo, la Corte d’Appello avrebbe semplicemente fatto applicazione della regola c.d. dell’assorbimento (su cui v. tra le altre, Cass. 28663/2013: la figura dell’assorbimento esclude il vizio di omessa pronuncia e ricorre, in senso proprio, quando la decisione sulla domanda cd. assorbita diviene superflua, per sopravvenuto difetto di interesse della parte, che con la pronuncia sulla domanda cd. assorbente ha conseguito la tutela richiesta nel modo più pieno, e, in senso improprio, quando la decisione cd. assorbente esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto di altre domande).


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