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Offendere il datore di lavoro tramite Facebook č reato di diffamazione

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Offendere il datore di lavoro tramite Facebook č reato di diffamazione
La Corte di Cassazione ha confermato la condanna di un lavoratore per diffamazione del proprio capo area, avendo offeso il suo onore e decoro mediante la diffusione di messaggi su Facebook a contenuto offensivo.
La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 49506 del 27 ottobre 2017, si è occupata di un interessante caso di “diffamazione”, commesso da un lavoratore dipendente nei confronti del proprio superiore.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, la Corte d’appello di Lecce aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale di Taranto aveva condannato un imputato per il reato di “diffamazione” (art. 595 c.p.), in quanto questi avrebbe “offeso l'onore ed il decoro” del capo area dell’azienda presso cui era impiegato, “mediante la diffusione, via internet, attraverso il social network "Facebook", di messaggi, contenenti riferimenti ad atteggiamenti autoritari del medesimo”, nei confronti degli operai dell'area lavorativa di cui era responsabile.

Secondo la Corte d’appello, in particolare, i messaggi oggetto di contestazione erano certamente riconducibili all’imputato, dal momento che questi non aveva denunciato eventuali “furti di account Facebook” e che la sua immagine compariva nella foto della pagina Facebook.

La Corte d’appello, inoltre, aveva rilevato come le affermazioni, contenute nei messaggi, fossero “chiaramente offensive” e come le stesse non potessero essere ricondotte alla causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. (particolare tenuità del fatto).

L’imputato, ritenendo la decisione ingiusta, aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione, nella speranza di ottenere l’annullamento della sentenza sfavorevole.

La Corte di Cassazione, tuttavia, non riteneva di poter dar ragione all’imputato, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.

Osservava la Cassazione, infatti, le frasi oggetto di contestazione facevano un chiaro riferimento al ruolo del capo area diffamato, “con un contenuto immediatamente offensivo, in quanto evocativo di una gestione autoritaria, ironicamente portata alle estreme conseguenze, in un apparente gioco delle parti”.

Di conseguenza, secondo la Cassazione, la Corte d’appello aveva, del tutto adeguatamente, ritenuto che le frasi in questione integrassero il reato di “diffamazione”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dall’imputato, confermando integralmente la sentenza impugnata e condannando il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.


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