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Articolo 591 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 27/03/2024]

Casi d'incapacità

Dispositivo dell'art. 591 Codice Civile

(1)Possono disporre per testamento tutti coloro che non sono dichiarati incapaci dalla legge [32 c.c.].

Sono incapaci di testare(2):

  1. 1) coloro che non hanno compiuto la maggiore età(3) [2 1 c.c.];
  2. 2) gli interdetti per infermità di mente(4) [414 ss. c.c.];
  3. 3) quelli che, sebbene non interdetti, si provi essere stati, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapaci di intendere e di volere nel momento in cui fecero testamento(5) [428 c.c.].

Nei casi d'incapacità preveduti dal presente articolo il testamento può essere impugnato da chiunque vi ha interesse(6). L'azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie(7).

Note

(1) La capacità di testare è la capacità di disporre validamente dei propri beni per il tempo in cui si avrà cessato di vivere.
(2) La cause di incapacità sono tassative e dunque non suscettibili di interpretazione estensiva. Spetta a chi invoca l'incapacità provarne la sussistenza.
(3) La maggior età si acquista con il compimento del diciottesimo anno di età.
(4) Dal giorno della pubblicazione della sentenza per l'interdetto non è più possibile disporre validamente per testamento.
(5) Si ha incapacità di intendere e volere quando vi sono condizioni intellettive tali da escludere la permanenza di qualsiasi forma di discernimento o la possibilità di potersi determinare liberamente e autonomamente nelle proprie scelte.
(6) Sono legittimati a far valere la causa di incapacità gli eredi legittimi, quelli testamentari in base ad un testamento precedente e i legittimari. Si tratta, infatti, di un'ipotesi di annullabilita assoluta.
(7) Il termine decorre non dall'accettazione dell'eredità ma da quando l'erede entra nel possesso dei beni ereditari.

Ratio Legis

La norma mira ad assicurare che chi disponga per testamento sia idoneo a manifestare la propria volontà al fine di disporre dei propri beni mortis causa.

Brocardi

In eo qui testatur, eius temporis qua testamentum facit, integritas mentis, non corporis sanitas, exigenda est
Is, cui lege bonis interdictum est, testamentum facere non potest
Testamenti factio
Testamenti factio concessa pupillis non est

Spiegazione dell'art. 591 Codice Civile

Come per qualsiasi altro negozio giuridico, così per il testamento, la capacità è la regola, la incapacità l’eccezione.
L’incapacità può derivare:
a) da età;
b) da interdizione giudiziale;
c) da incapacità di intendere e di volere, anche transitoria, esistente al momento della redazione del testamento;
Ci occuperemo di ciascuna di esse:
a) Incapacità per età. Diversi sono stati, e sono, i criteri seguiti dalle varie legislazioni in ordine all’età minima per fare testamento.
Per il diritto romano, bastava che si fosse raggiunta la pubertà, cioè 14 anni per i maschi, 12 per la donna nel diritto giustinianeo, che accolse la teoria dei Proculiani.
Nelle legislazioni moderne, generalmente, si richiede l’età di 14 a 18 o a 21 anni. Il codice napoleonico fissò la capacità di testare a 16 anni compiuti, ma non per oltre la metà delle sostanze. Lo stesso criterio fu seguito dal codice delle due Sicilie, mentre il codice parmense e il codice albertino stabilirono l’età di 16 anni, senza alcuna limitazione; il codice estense fissò l’età di 14 anni, richiedendo, però, nell’intervallo fra i 14 e i 18 anni, l’intervento di un giudice.
Delle legislazioni di tipo germanico, il codice prussiano stabiliva che chi avesse raggiunto i 14 anni poteva far testamento, ma a voce in un protocollo giudiziario; all’età di 18 anni si raggiungeva la completa capacità, potendosi far testamento in tutte le forme prescritte dalla legge
Disposizioni analoghe conteneva il codice austriaco, mentre il codice sassone fissò l’età di 14 anni senza alcuna limitazione; il codice per l’impero germanico stabilì l’età di 16 anni con la limitazione che il testamento fatto da chi è minorenne (cioè da chi non ha compiuto i 21 anni) dev’essere fatto innanzi ad un notaio o al giudice e oralmente ed è vietato il testamento olografo.
Per il diritto inglese la capacità di testare si acquista solo a 21 anni compiuti. II codice spagnolo fissava l’età di 15 anni. Le leggi sovietiche, a differenza di quanto stabiliva la legge zarista, per cui i minori di 21 anni non avevano la capacità di fare testamento, stabilivano l’età di 14 anni, con la limitazione, nell’intervallo fra i 14 e i 18 anni, che il testamento dovesse esser fatto con l’autorizzazione del rappresentante legale.
Il nostro codice del 1865 stabilì l’età di 18 anni compiuti (art. #763#). Nei lavori preparatori si proposero alcune limitazioni, ma il Pisanelli osservò che, riconosciuta nel minore la facoltà di disporre dei suoi beni per testamento, la si doveva accettare in tutte le sue conseguenze.
Nell’attuale codice si è mantenuta l’età di 18 anni compiuti, perché si suppone che a tale età si è raggiunta una maturità di pensiero che possa liberamente far disporre dei propri beni, tanto più che, trattandosi di un atto che dovrà avere efficacia dopo la morte del testatore, questi non potrà esserne danneggiato; egli potrà sempre revocarlo, in seguito a un più maturo consiglio, non essendo, perciò, necessario quel maggiore sviluppo di intelligenza, esperienza e pratica della vita che la legge reputa conveniente possegga la persona la quale compie atti giuridici tra vivi, dei quali, in seguito, avrebbe inutilmente a pentirsi. D’altra parte, la legge stessa provvede alla tutela dei suoi più stretti congiunti (discendenti, ascendenti e coniuge) ai quali essa stessa riserva una porzione, che si chiama, perciò, legittima.
I 18 anni devono essere compiuti, il che significa che non trova qui applicazione il principio “annus incoeptus pro completo habetur”: occorre che sia scaduto l’ultimo momento del diciottesimo anno. Qui sorge la questione: il compimento del diciottesimo anno si deve calcolare seguendo la computazione naturale o la computazione civile?
È noto che, con la prima, si muove dall’ora, dal momento matematico corrispondente all’ultimo giorno (a momento ad momentum). Così: A, nato alle ore 10 del 2 gennaio 1970, avrebbe compiuto l’età di 18 anni soltanto allo scoccare delle ore 10 del 2 gennaio 1988.
Con l’altra, invece, il tempo si calcola a giorni interi (ad dies) non tenendosi conto della frazione dell’ora, del momento matematico così del primo giorno come dell’ultimo. Sicché: A, nato alle ore 10 del 2 gennaio 1970, avrebbe compiuto l’età di 18 anni soltanto allo scoccare della mezzanotte tra il 2 e il 3 gennaio 1988, o tra l’1 e il 2 gennaio 1988, se si volesse applicare il principio dies coeptus pro completo habetur.
In passato, l’opinione prevalente era che vi fossero dei casi eccezionali nei quali doveva prevalere la computazione naturale, e cioè quelli nei quali, trattandosi di avvenimenti, come le nascite e le morti, constatate in modo solenne e formale nei registri dello stato civile, non solo riguardo al giorno ma anche riguardo all’ora in cui si sono prodotti, il tempo prende inizio dalla nascita o dalla morte di una persona. Tuttavia, attualmente, l’opinione prevalente è quella che vede operare la computazione civile.
È, poi, indifferente che il minore, il quale abbia compiuti i 18 anni, sia tuttora sottoposto alla patria potestà del genitore o sia in stato di tutela; com’è indifferente che il minore, che non ha compiuto 18 anni, si trovi già emancipato per effetto del matrimonio, nemmeno in questo caso potendo egli far testamento per il difetto di età che è l’unico elemento a tale oggetto considerato dalla legge.
b) Incapacità per interdizione giudiziale. Qui si deve notare, innanzitutto, che, a differenza di quanto è stabilito per gli atti tra vivi, l’incapacità di testare è stabilita solo per gli interdetti giudiziali, non pure per gli interdetti legali, cioè quelli che sono tali in seguito a condanne penali.
La ragione per cui la legge toglie agli interdetti giudiziali la capacità di testare sta nel presupposto che l’infermità di mente, di cui quella è stato l’effetto, impedisce la piena libertà e coscienza della disposizione. S’intende, però, che, esistendo l’interdizione, questa è la causa immediata dell’incapacità a far testamento, la quale dura sinché l’interdizione non è stata revocata. Non sarebbe, perciò, ammessa la prova che una persona, sebbene interdetta, avesse completa e piena coscienza dei propri atti al momento in cui fece testamento (c.d. lucido intervallo); una tale prova sarebbe irrilevante giacché frustra probatur quod probatum non relevat. D’altra parte, però, l’interdizione giudiziale produce il suo effetto solo dal giorno in cui la sentenza fu pronunciata, non potendo avere effetto retroattivo.
Sotto l’impero del codice del 1865 alcuni scrittori, e, fra essi, il Gianturco, ritenevano che dovesse ritenersi incapace a far testamento anche colui al quale, durante il procedimento d’interdizione, fosse stato nominato l’amministratore provvisionale, deducendolo dall'art. #335# di quel codice che, regolando gli effetti dell’interdizione, diceva che sono nulli di diritto gli atti fatti dopo la sentenza d’interdizione ed anche dopo la nomina dell’amministratore provvisionale, e, poiché la legge parla di atti in generale, sarebbe illogica e contraria alla legge la distinzione tra atti tra vivi e atti mortis causa. Tale opinione non era accettabile nel sistema di quel codice perché per gli atti a titolo gratuito si ammetteva la possibilità di impugnarli provando che fossero stati compiuti in uno stato d’infermità mentale, anche transitoria, ma è certamente da respingere nel sistema del codice attuale il quale, all’art. 427, ha disposto che gli atti compiuti dall’interdetto dopo la nomina dell'amministratore provvisorio possono essere annullati solo quando alla nomina segue la sentenza d’interdizione.

c) Incapacità d'intendere e di volere. Già nel codice del 1865 la c.d. incapacità naturale era stata ammessa come causa d’incapacità a far testamento (art. #763#) e donazione (art. #1052#) quando si fosse provato che era anteriore al tempo in cui fu fatto il testamento.
Nell’attuale codice civile l’incapacità naturale è stata ammessa anche per tutti i negozi giuridici tra vivi, a titolo gratuito o oneroso (art. 428), e si è mantenuta per il testamento, precisandosi, però, che l’incapacità deve esistere nel momento in cui questo si è fatto. Ciò vuol dire che, fatto il testamento da persona capace d'intendere e di volere, esso resta valido anche se sopraggiunga l’interdizione e questa perduri sino alla morte, anche se la causa d’interdizione preesisteva, ma non si possa provare che al momento in cui fece il testamento il testatore non era capace.
L’incapacità di cui si occupa il n. 3 dell’art. 591 può essere di natura permanente o anche temporanea, transitoria, quale quella derivante da ubriachezza, da delirio febbrile, da sonnambulismo, da suggestione, da ira, da paura, da epilessia, ma dev’essere sempre tale da togliere (non diminuire soltanto) la coscienza e la libertà dei propri atti: tale, cioè, che, se permanente, avrebbe potuto dar luogo all’interdizione.
La prova dell’incapacità dev'essere data da chi impugna il testamento, e può essere data con tutti i mezzi, sia, cioè, con perizie e testimoni, sia con le stesse inconcludenze e stranezze della disposizione testamentaria. Di nessun ostacolo alla prova dell'incapacità del testatore possono essere le contrarie attestazioni del notaio che ha ricevuto il testamento e che, con clausola d’uso, di stile, avesse dichiarato il testatore capace d’intendere e di volere, non avendo egli competenza ed autorità per imprimere fede a tutte quelle affermazioni che non riguardano la sostanza dell’atto e le solennità che l’accompagnano.
Tutte queste cause d’incapacità producono soltanto l’annullabilità.
Il testamento può essere impugnato da chi vi ha interesse, e soltanto nel termine di cinque anni dal giorno in cui si è data esecuzione alla disposizione testamentaria, e si noti che qui, a differenza di quanto è stabilito nell’art. 590, non occorre nemmeno che l’esecuzione sia stata volontaria, cioè con la coscienza di sanare un vizio di sostanza o di forma; basta che vi sia stata data esecuzione, e che da questa sia trascorso il termine di cinque anni, il quale è un termine di prescrizione e, come tale, soggetto alle cause di sospensione.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

Massime relative all'art. 591 Codice Civile

Cass. civ. n. 4449/2020

Il "dies a quo" di decorso del termine di prescrizione quinquennale dell'azione di annullamento del testamento olografo per incapacità del testatore, ex art. 591 c.c., va individuato in quello di compimento di un'attività diretta alla concreta realizzazione della volontà del "de cuius" - come la consegna o l'impossessamento dei beni ereditati o la proposizione delle azioni giudiziarie occorrenti a tale scopo - anche da parte di uno solo dei chiamati all'eredità e senza che sia necessario eseguire tutte le disposizioni del testatore. Ne consegue che, in caso di istituzione di un erede universale, non occorre che questi dimostri, al fine predetto, di aver disposto a titolo esclusivo dei beni costituenti l'intero "universum ius defuncti". (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso che integrasse gli estremi di una condotta esecutrice, sia pure parzialmente, delle disposizioni testamentarie, quella con la quale l'erede aveva continuato a percepire, dopo la morte della "de cuius", il canone di locazione di un immobile commerciale facente parte del compendio ereditario). (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO PALERMO, 08/02/2017).

Cass. civ. n. 26062/2018

Poiché al fine di giustificare l'interesse ad agire per far accertare l'invalidità di una disposizione testamentaria occorre che si possa vantare un diritto successorio in dipendenza dell'accertata invalidità della stessa disposizione, tale posizione non è riconoscibile in capo a chi, potenziale successibile "ex lege", sia stato validamente escluso, per diseredazione, dalla successione, atteso che la invalidità colpisce, di regola, uno o più singole disposizioni testamentarie, lasciando valide le altre, inclusa quella di esclusione. (In applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte di merito, una volta dichiarata la validità della disposizione testamentaria di diseredazione in danno di tutta la stirpe dei fratelli, non aveva riconosciuto il difetto di interesse di questi ultimi all'impugnativa delle singole disposizioni). (Cassa con rinvio, CORTE D'APPELLO MESSINA, 11/07/2013).

Cass. civ. n. 25053/2018

In tema di annullamento del testamento, nel caso di infermità tipica, permanente ed abituale, l'incapacità del testatore si presume e l'onere della prova che il testamento sia stato redatto in un momento di lucido intervallo spetta a chi ne afferma la validità; qualora, invece, detta infermità sia intermittente o ricorrente, poiché si alternano periodi di capacità e di incapacità, non sussiste tale presunzione e, quindi, la prova dell'incapacità deve essere data da chi impugna il testamento.

Cass. civ. n. 17392/2017

Il chiamato all'eredità è legittimato ad impugnare, ex art. 591 c.c., il testamento che lo ha nominato quando il suo annullamento gli consenta di accedere, anche solo per motivi di interesse morale, ad una diversa delazione, legittima o testamentaria, la cui maggiore o minore convenienza non è sindacabile dal giudice.

Cass. civ. n. 27351/2014

In tema di annullamento del testamento, l'incapacità naturale del testatore postula la esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del "de cuius", bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell'atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi; peraltro, poiché lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l'eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo.

Cass. civ. n. 230/2011

Ai fini dell'accertamento sulla sussistenza o meno della capacità di intendere e di volere del "de cuius" al momento della redazione del testamento, il giudice del merito non può ignorare il contenuto del testamento medesimo e gli elementi di valutazione da esso desumibili, in relazione alla serietà, normalità e coerenza delle relative disposizioni, nonché ai sentimenti ed ai fini che risultano averle ispirate.

Cass. civ. n. 3323/2001

In tema d'impugnazione del testamento per incapacità d'intendere e di volere del testatore, il legatario, che abbia partecipato al giudizio di primo grado, assume nella fase di appello la qualità quantomeno di litisconsorte necessario processuale, non essendo concepibile che, all'esito dello stesso processo, un testamento possa essere ritenuto valido (o invalido) nei confronti dell'erede istituito e invalido (o valido) nei confronti del legatario. Nel caso di legato di usufrutto, che abbia prodotto i suoi effetti, la morte del legatario avvenuta nel corso del giudizio di primo grado, non rende superflua la partecipazione dei suoi eredi al giudizio di appello. L'eventuale annullamento del testamento porrebbe nel nulla, con efficacia retroattiva, gli effetti prodotti dal legato prima della morte del legatario e le conseguenze del godimento di fatto esercitato dall'usufruttuario sarebbero destinate a ripercuotersi sui suoi eredi (è sufficiente fare riferimento all'obbligo di restituzione dei frutti).

Cass. civ. n. 12291/1998

È inammissibile (per difetto di interesse) l'impugnazione del testamento per incapacità del testatore proposta, ex art. 591 c.c., da eredi legittimi (nella specie, cugini del de cuius) esclusi dall'ordine della successione legittima in conseguenza della esistenza in vita di altri eredi legittimi di grado poziore (nella specie, le sorelle del testatore) che non abbiano, invece, impugnato la scheda testamentaria, poiché nessun concreto vantaggio potrebbe loro derivare dall'eventuale accoglimento dell'azione cosi proposta, essendo l'eredità destinata a devolversi, in tal caso, ai detti eredi di grado poziore.

Cass. civ. n. 10571/1998

L'annullamento di un testamento per incapacità naturale del testatore postula l'esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, cagione di un'infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell'atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi. L'onere della prova di tale condizione grava sul soggetto che impugna la scheda testamentaria, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso è compito di chi vuole avvalersi del testamento dimostrare che esso fu redatto in un momento di lucido intervallo.

Cass. civ. n. 5620/1995

L'incapacità naturale del disponente che ai sensi dell'art. 591 c.c. determina l'invalidità dei testamento non si identifica in una genetica alterazione del normale processo di formazione ed estrinsecazione della volontà ma richiede che, a causa dell'infermità, il soggetto, al momento della redazione del testamento, sia assolutamente privo della coscienza del significato dei propri atti e della capacità di autodeterminarsi, così da versare in condizioni analoghe a quelle che, con il concorso dell'abitualità, legittimano la pronuncia di interdizione. Ai fini del relativo giudizio il giudice di merito, in particolare, non può ignorare il contenuto dell'atto di ultima volontà e gli elementi di valutazione da esso desumibili, in relazione alla serietà, normalità e coerenza dalle disposizioni nonché ai sentimenti ed ai fini che risultano averle ispirate. (Nella specie la S.C. ha annullato la sentenza impugnata, rilevando. che in essa si era fatto riferimento ad elementi indiziari che di per sè erano rappresentativi di una generica riduzione della capacità di intendere e di volere, senza effettivamente valutare — sulla base di adeguata e specifica disamina della portata dei dati clinici, di quelli inerenti agli effetti dei farmaci antidolorifici assunti dal soggetto e di quelli offerti dalla grafica e dal contenuto della scheda testamentaria — se poteva dedursene anche la più specifica prova della incapacità rilevante ai fini in esame).

Cass. civ. n. 652/1991

In tema di impugnazione del testamento le manifestazioni morbose a carattere intermittente e ricorrente che, pur potendo escludere la capacità di intendere e di volere, qualora la volontà testamentaria sia stata manifestata nel corso di tali episodi, lasciano integre negli intervalli le facoltà psichiche del soggetto, non sono assimilabili alle infermità permanenti ed abituali che diano luogo a momenti di lucido intervallo. Tale diversità di situazioni si ripercuote sull'onere della prova, in quanto mentre nella seconda ipotesi, qualora l'attore in impugnazione abbia fornito la prova di una infermità mentale permanente, è a carico di chi afferma la validità del testamento la dimostrazione che lo stesso fu posto in essere in un momento di lucido intervallo — in quanto la normalità presunta è l'incapacità — nella prima ipotesi, invece, quando cioè si tratta di malattia la quale nei periodi di intervallo consente la reintegrazione del soggetto nella normalità della sua capacità intellettiva, l'accertamento di fenomeni patologici anteriori all'atto di cui si controverte non è sufficiente ad integrare la prova rigorosa della sussistenza della incapacità nel momento in cui l'atto stesso è stato compiuto.

Cass. civ. n. 2074/1985

Per aversi incapacità naturale del testatore non è sufficiente che il normale processo di formazione ed estrinsecazione della volontà sia in qualunque modo alterato o turbato — come frequentemente avviene nel caso di grave malattia — ma è necessario che lo stato psicofisico del soggetto sia in quel momento tale da sopprimere l'attitudine a determinarsi coscientemente e liberamente, essendo regola la capacità di agire del soggetto e dovendo, pertanto, la sua incapacità — che costituisce un'eccezione — essere provata in modo serio e rigoroso.

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Consulenze legali
relative all'articolo 591 Codice Civile

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L. C. chiede
giovedì 12/01/2023 - Abruzzo
“Buongiorno,
volevo esporre un paio di quesiti relativi rispettivamente alla successione testamentaria per conto di una persona interdetta e alla successione nell'ambito della convivenza di fatto.

Mia madre è interdetta dal 2010 a causa di un'emorragia cerebrale che ne ha causato il ricovero permanente presso una struttura e uno stato vegetativo dal quale non si è mai ripresa.
Non è dunque capace né di intendere né di volere e non ha alcuna coscienza dell'ambiente che la circonda.
Sono il suo amministratore di sostegno dal 2017, ho assorbito la carica da mio padre, venuto a mancare nel 2016.
Mio padre aprì nel 2011 un conto bancario intestato a mia madre nel quale è confluita prima la sua pensione di invalidità, poi la pensione di invalidità unitamente alla pensione di reversibilità di mio padre.
Il conto serve principalmente come contenitore dal quale attingere eventuali spese sanitarie per mia madre, spese per viaggi autostradali per raggiungere la clinica nella quale è ricoverata ecc...
Ad oggi il suddetto conto è arrivato a contenere una somma molto consistente dal momento che ho deciso di sostenere le spese di mia madre con il mio stipendio personale.
So che in caso di decesso di mia madre la somma contenuta nel suo conto andrebbe interamente a me per eredità, essendo figlio unico.
Qui il primo quesito: dal momento che sono intercorse delle fratture familiari con i miei zii, rispettivamente fratello e sorella di mia madre, nel caso in cui io venga a mancare per qualsiasi motivo, non essendo sposato ma solamente convivente con la mia compagna, la somma del conto andrebbe a finire in mano loro, essendo i parenti più prossimi a mia madre dopo di me (i genitori di mia madre sono deceduti entrambi).
Dal momento che non voglio che la somma finisca in mano loro, è possibile effettuare un testamento per conto di mia madre (interdetta) da parte mia (amministratore di sostegno) che disponga che quella somma in caso di mio decesso vada a un'altra persona?

Da qui il secondo quesito collegato al primo: tenendo sempre di riferimento la frattura avuta con i miei zii, la somma del conto di mia madre e aggiungendo una eventuale impossibilità nel percorrere la strada descritta nel primo quesito (testamento per conto di mia madre), occorre ricorrere obbligatoriamente al matrimonio per far sì che in caso di mio decesso la somma del conto vada interamente alla mia compagna?
In una eventuale convivenza di fatto invece, è possibile fare testamento in favore della mia compagna per lasciarle in eredità l'intera somma del conto?
Oppure procedendo in questo senso (convivenza di fatto), i miei zii potrebbero impugnare il testamento e ricevere le loro quote di legittima non intercorrendo un matrimonio vero e proprio?

Dunque ricapitolando vorrei sapere:

1) Se è possibile fare testamento per conto di mia madre interdetta per evitare che la somma del conto bancario a lei intestato vada a finire nelle mani dei miei zii in caso di mio decesso.

2) Se è possibile, in una convivenza di fatto, in caso di mio decesso, fare testamento e lasciare l'intera somma del conto di mia madre alla mia compagna senza il pericolo che i miei zii impugnino il testamento per riscuotere le loro quote.

3) Se è obbligatorio un vincolo matrimoniale vero e proprio per far sì che, in caso di mio decesso, la somma del conto di mia madre vada interamente alla mia compagna.


Grazie in anticipo per le risposte che saprete dare ai miei dubbi, purtroppo online non sono riuscito a trovare delle risposte chiare e semplici a questi tempi abbastanza complessi.”
Consulenza legale i 19/01/2023
L’art. 591 c.c. è abbastanza chiaro e tassativo in ordine alla determinazione dei casi di incapacità di disporre per testamento, stabilendo espressamente al n. 2 del secondo comma che non godono di tale capacità “gli interdetti per infermità di mente”, estendendo peraltro tale incapacità anche a coloro che, seppure non ancora formalmente interdetti, “si provi essere stati, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapaci di intendere e di volere nel momento in cui fecero testamento”.

Pertanto, a meno che l’interdetto non abbia redatto testamento prima del provvedimento giudiziale che abbia accertato il suo stato di incapacità, non vi è modo per aggirare quanto disposto dalla norma sopra citata.
Né, del resto, può pensarsi che possa essere l’amministratore di sostegno a redigere testamento per l’interdetto, essendo il testamento un atto personalissimo, il quale non può essere in alcun modo redatto per mezzo di rappresentante (neppure il giudice può autorizzare il compimento di tale atto).

Stando così le cose, occorre cercare altrove la soluzione al problema che viene prospettato, in quanto è certo che se le somme di denaro di cui si discute continueranno a restare sul conto dell’interdetto, senza che venga dettata alcuna specifica disposizione circa la loro destinazione al momento della morte di colei che ne è titolare, nel caso in cui l’unico figlio dovesse morire prima dell’interdetto, a beneficiare di quelle somme sarebbero indubbiamente i parenti più prossimi, ovvero gli zii.
Nulla può essere trasmesso alla convivente del figlio, trattandosi di soggetto che non ha alcun rapporto di parentela o affinità né con il compagno né con i suoi parenti.

La Legge n. 76/2016, c.d. legge Cirinnà, prevede al comma 42 dell’art. 1, un solo beneficio in favore del convivente, disponendo che nel caso in cui si verifichi la morte del proprietario della casa di comune residenza, sussiste il diritto del superstite di continuare ad abitare in quella casa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni (ciò vale a prescindere dal fatto che i conviventi abbiano stipulato un contratto di convivenza ovvero che abbiano registrato la propria unione presso il Comune di residenza).

Quanto appena detto consente, dunque, di rispondere alla terza domanda che viene posta, ovvero se è indispensabile consacrare con l’atto di matrimonio, sia esso solo civile o religioso, il vincolo che unisce i due conviventi, per far sì che del saldo attivo del conto corrente intestato alla madre interdetta possa beneficiare l’attuale compagna del figlio: la risposta è senza alcun dubbio positiva.
Occorre a questo proposito aggiungere un’altra considerazione: anche se gli attuali conviventi dovessero contrarre matrimonio, in assenza di testamento il vincolo coniugale non attribuirebbe al coniuge alcun diritto sul patrimonio del genitore dell’altro coniuge.
Infatti, a meno che la morte del coniuge non avvenga subito dopo la morte del genitore, ma prima di aver manifestato la volontà di accettare (nel qual caso potrà operare l’istituto giuridico della trasmissione del diritto di accettazione in favore dell’altro coniuge), in caso di premorienza non potranno trovare applicazione le norme che il codice civile detta in tema di rappresentazione, in quanto il coniuge superstite non rientra nella categoria dei c.d. rappresentati di cui all’art. 468 del c.c. (possono essere tali soltanto i figli, nella linea retta, ed i fratelli e le sorelle nella linea collaterale).

Risposta negativa va data alla domanda n. 2, relativa alla possibilità giuridica di disporre per testamento in favore della compagna del saldo attivo del conto corrente di cui è titolare la propria madre.
Una tale disposizione, infatti, si porrebbe in contrasto con il divieto dei patti successori di cui all’art. 458 del c.c., nella parte in cui sancisce la nullità di qualunque atto in forza del quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta (si tratterebbe, infatti, di disporre di beni facenti parte del patrimonio ereditario di un soggetto, la propria madre, non ancora deceduto).

Non essendo giuridicamente attuabile alcuna delle ipotesi prospettate nel quesito, si può pensare ad una diversa soluzione, e precisamente: richiedere al giudice tutelare, ex art. 374 del c.c., l’autorizzazione a sottoscrivere in nome e per conto dell’incapace una polizza vita, nella quale versare buona parte delle somme giacenti sul conto intestato alla madre (fatte salve quelle indispensabili per le spese correnti ordinarie), indicando quale beneficiario il figlio amministratore di sostegno.
Per effetto della designazione del beneficiario, il diritto di credito esce dal patrimonio del contraente ed entra a far parte del patrimonio del beneficiario, che lo acquista infatti iure proprio.
A quel punto l’unica facoltà che rimane al contraente è quella della revoca della designazione, possibile anche se il terzo ha dichiarato di volerne profittare, ma la revoca dovrà avvenire in modo preciso e puntuale.
Il beneficiario, di contro, acquistando sin dal momento della designazione un diritto di credito pieno, potrà liberamente disporre di tale diritto in favore di chiunque voglia, anche per testamento (pertanto, sarà possibile per il figlio designare, quale erede di quel diritto di credito, l’attuale compagna).

Anche la Corte di Cassazione si è pronunciata in favore della ammissibilità di una soluzione come quella sopra proposta, risolvendo il tema della eventuale premorienza del beneficiario con l’applicazione analogica della disciplina del contratto in favore di terzo ed in particolare del secondo comma dell’art. 1412 del c.c., il quale prevede appunto l’eseguibilità della prestazione in favore degli eredi del terzo in caso di premorienza di quest’ultimo, a meno che il beneficio non sia stato revocato o lo stipulante non abbia disposto diversamente (ipotesi, quest’ultima, alquanto improbabile nel caso in esame).

Sulle somme versate in unica soluzione per stipulare il contratto di polizza vita gli altri eredi legittimi (ossia gli zii) non potranno avanzare alcuna pretesa, non rientrando nella categoria dei legittimari di cui all’art. 536 del c.c. a cui la legge riserva una quota di eredità.
Altra soluzione, molto più semplicistica e meno elaborata, è ovviamente quella di cominciare ad impiegare per le spese della persona interdetta le somme di cui la medesima dispone, preservando il patrimonio del figlio.

R. S. chiede
venerdì 28/10/2022 - Emilia-Romagna
“Buongiorno, pongo il seguente quesito in relazione ad un atto di citazione volto ad annullare un testamento pubblico.
Il de cuius era una Signora vedova che non aveva figli, né fratelli, né sorelle.
Al momento del decesso i parenti più prossimi erano alcuni cugini di quarto grado.
La Signora, con TESTAMENTO PUBBLICO, ha lasciato i suoi averi ad alcuni istituti benefici e ad alcuni amici oltre a due cugini di quarto grado ma questi in qualità di legatari.
Tutti gli altri possibili eredi legittimi non sono stati citati nel testamento.
Uno dei cugini esclusi è deceduto due anni dopo l’apertura del testamento e i figli di detto cugino, subito dopo la morte del proprio genitore, promuovono un’azione legale per chiedere l’annullamento del testamento in quanto ritengono che il de cuius non fosse in grado di intendere e di volere al momento della redazione del testamento stesso.
Nell’atto di citazione affermano che, in quanto figli di erede legittimo, subentrano al proprio genitore, PER RAPPRESENTAZIONE, con lo stesso grado di parentela che aveva il genitore e cioè quarto grado.
1. E’ legalmente ammesso che possano promuovere questa azione?
2. Dato che il loro genitore non ha promosso alcuna azione nei due anni successivi all’apertura del testamento possono farlo loro?
3. La legge dice che la nullità o l’annullabilità del testamento può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse; si intende chiunque in senso lato o chiunque abbia i requisiti legali per farlo?”
Consulenza legale i 04/11/2022
L’elemento principale del caso che si chiede di prendere in esame va individuato nella circostanza che la de cuius, della cui successione si tratta, al momento della morte era vedova e non lascia figli, né fratelli, né sorelle.
Ciò comporta che non vi è alcun soggetto che possa vantare il diritto ad una quota di riserva del patrimonio ereditario, considerato che, ex art. 536 del c.c., tale diritto compete a coniuge, figli e ascendenti.

Pertanto, del tutto valida, almeno sotto il profilo oggettivo, deve reputarsi la volontà manifestata dalla de cuius nel testamento dalla medesima redatto, in forza del quale ha inteso disporre di tutti i suoi beni in favore di determinati soggetti, escludendo alcuni di coloro che sarebbero stati chiamati alla successione nella qualità di eredi legittimi (ovvero, alcuni cugini, parenti in linea collaterale di quarto grado).

Ulteriore elemento della fattispecie da prendere in esame è quello relativo alla morte di uno dei cugini esclusi dalla successione, morte avvenuta due anni dopo l’apertura della successione della de cuius.
Tale evento avrebbe determinato, secondo la tesi sostenuta dai rispettivi figli, l’insorgere del loro diritto di succedere per rappresentazione, istituto giuridico disciplinato dagli artt. 467 e ss. c.c.
Tra tali norme, quella che occorre prendere in particolare considerazione è l’art. 468 del c.c., ove vengono espressamente individuati i soggetti in favore dei quali può operare il diritto di rappresentazione.
Dalla lettura del suo primo comma è possibile agevolmente desumere che soggetti c.c. “rappresentati” possono essere soltanto:
a) i figli, anche adottivi, del de cuius per la linea retta;
b) i fratelli e le sorelle del de cuius per la linea collaterale.

Come può notarsi, la norma fa espresso riferimento al de cuius originario (la signora vedova del caso di specie), il che induce a dover escludere l’operatività, nella fattispecie in esame, dell’istituto giuridico della rappresentazione, considerato che il cugino, che dovrebbe assumere la posizione di rappresentato, non rientra tra quei soggetti a cui l’art. 468 c.c. attribuisce detta qualità.
Esclusa la sussistenza del presupposto soggettivo del diritto di rappresentazione, deve anche escludersi la sussistenza di quello oggettivo, a cui fa riferimento l’art. 467 del c.c..

Dispone il primo comma di quest’ultima norma, infatti, che il diritto di rappresentazione sorge nel momento in cui l’ascendente (rappresentato) non può o non vuole accettare l’eredità o il legato.
Come può notarsi, presupposto essenziale è la sussistenza di una chiamata ereditaria in favore del rappresentato (sia essa a titolo universale o particolare che in forza di legge o di testamento), presupposto che nel caso di specie difetta, considerato che il cugino, successivamente defunto, non era stato contemplato tra i beneficiari istituiti per testamento, né si era aperta in suo favore la successione legittima.

Esclusa l’ammissibilità di una successione per rappresentazione in favore di coloro che adesso agiscono in giudizio per far valere la loro pretesa posizione di rappresentanti, occorre occuparsi della sussistenza o meno in loro favore di una legittimazione attiva all’esercizio dell’azione proposta, volta a far valere l’annullamento del testamento.
Due sono le azioni che il codice civile consente di esercitare per far valere l’invalidità di una scheda testamentaria, e precisamente:
1. l’azione di nullità, esperibile quando il testamento presenta dei vizi che lo rendono contrario a norme di legge (tra cui contrarietà a norme imperative, illiceità del motivo che ha indotto il testatore a redigere la disposizione, ecc.);
2. l’azione di annullamento, esperibile nel caso in cui il testamento presenti irregolarità che lo rendano invalido, quali i vizi del consenso o l’incapacità dello stesso testatore, sia essa legale che naturale.

Dispone al riguardo l’ultimo comma dell’art. 591 c.c. che nei casi di incapacità “….ll testamento può essere impugnato da chiunque vi abbia interesse…”, aggiungendo che “L’azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie”.
Ora, l’espressione usata dal legislatore (“chiunque vi abbia interesse”) deve essere intesa nel senso che deve trattarsi di un interesse diretto ed attuale, e non potenziale e futuro, nel senso che chi agisce deve ottenere un vantaggio immediato dalla pronuncia giudiziaria di inefficacia dell’atto.
Pertanto, solo i familiari e parenti che dall’impugnazione del testamento ricaverebbero un’utilità possono contestarlo per vizi di forma o di sostanza o per qualunque altro motivo di nullità o annullabilità, mentre colui o coloro che rimarrebbero comunque estranei alla successione sarebbero legittimati all’impugnazione soltanto se contestualmente intendano, ad esempio, far valere la validità di altra scheda testamentaria ove risultano designati quali beneficiari.

Nel caso in esame, a parte la necessità di verificare il rispetto del termine prescrizionale di cinque anni (elemento a cui non si fa alcun cenno nel quesito), si deve escludere ogni legittimazione all’esercizio dell’azione di annullamento da parte dei figli del cugino del de cuius, in quanto una eventuale sentenza che disponga l’annullamento della scheda testamentaria non sarebbe capace di produrre alcun effetto costitutivo favorevole nei loro confronti, e ciò per le seguenti ragioni:
a) va escluso il loro diritto di succedere per rappresentazione, in quanto il padre defunto non rientra tra coloro che possono essere rappresentati;
b) sarebbero comunque esclusi dalla successione legittima, trattandosi di parenti in linea collaterale di quinto grado e dovendosi la successione legittima aprire, ex art. 572 del c.c., in favore dei parenti più prossimi, ossia i cugini di quarto grado ancora viventi (tra i quali l’eredità verrebbe divisa in parti eguali).