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Dare dell'omosessuale non è reato di diffamazione

Dare dell'omosessuale non è reato di diffamazione
Non commette il reato di diffamazione chi dà dell'omosessuale ad un'altra persona.
La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 50659 del 29 novembre 2016, si è occupata di un interessante caso di “diffamazione”, reato previsto e disciplinato dall’art. 595 cod. pen.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, il Giudice di Pace di Trieste aveva condannato alla sola pena pecuniaria un imputato per il reato di cui sopra, commesso nei confronti di un altro soggetto, il quale era stato identificato “nell’ambito di una querela proposta nei confronti di altra persona come ‘omosessuale”.

Giunti dinanzi la Corte di Cassazione, l’imputato eccepiva come il Giudice di Pace non avesse adeguatamente valutato il contesto in cui era stato utilizzato il termine imputato, il quale appariva del tutto privo di carattere lesivo e offensivo, dal momento che “il suo intrinseco significato” non può costituire un insulto.

La Corte di Cassazione riteneva, in effetti, di dover aderire alle argomentazioni svolte dal ricorrente, accogliendo il relativo ricorso.

Evidenziava la Cassazione, in particolare, come “oggetto di tutela nel delitto di diffamazione è l’onore in senso oggettivo o esterno e cioè la reputazione del soggetto passivo del reato, da intendersi come il senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico”.

Dunque, secondo la Cassazione, ai fini della configurabilità del reato di diffamazione è necessario che si concretizzi una “offesa della reputazione”, essendo necessario “nel caso della comunicazione scritta od orale, che i termini dispiegati od il concetto veicolato attraverso di essi siano oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo”.

Nel caso di specie, secondo la Corte, doveva escludersiche il termine “omosessuale”utilizzato dall’imputato abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo come, forse, poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto”.

Infatti, “a differenza di altri appellativi che veicolano il medesimo concetto con chiaro intento denigratorio secondo i canoni del linguaggio corrente (…), il termine in questione assume infatti un carattere di per sè neutro, limitandosi ad attribuire una qualità personale al soggetto evocato ed è in tal senso entrato nell’uso comune”.

Inoltre, doveva escludersi anche “che la mera attribuzione della suddetta qualità – attinente alle preferenze sessuali dell’individuo – abbia di per sé un carattere lesivo della reputazione del soggetto passivo e ciò tenendo conto dell’evoluzione della percezione della circostanza da parte della collettività”.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte di Cassazione riteneva di dover accogliere il ricorso proposto dall’imputato, annullando la sentenza impugnata, “perché il fatto non sussiste”.


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