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Articolo 43 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 31/01/2024]

Domicilio e residenza

Dispositivo dell'art. 43 Codice Civile

Il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi [14 Cost., artt. 45 e 46 c.c.].

La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale [144].

Ratio Legis

Le persone devono poter essere rintracciate, per i più disparati motivi, e rilevano quindi i luoghi ove esse si trovano.
I criteri di collegamento tra persone e luoghi sono tre, e comprendono domicilio, residenza e dimora. La norma va letta in relazione con l'art. 14 Cost. che sancisce, tra le libertà fondamentali, la libertà di domicilio da intendersi in senso lato quale abitazione (residenza), ma anche luogo dove il soggetto ha la sede dei suoi affari ed interessi, come l'attività lavorativa (domicilio in senso stretto) e quale dimora occasionale (ove il soggetto permane in modo non abituale).

Brocardi

Domicilium est ubi quis degit rerumque suarum summam constituit eo consilio, ut ibi maneat
Nihil est impedimento quominus quis ubi velit, habeat domicilium, quod ei interdictum non sit
Sola domus possessio, quae in aliena civitate comparatur, domicilium non facit

Spiegazione dell'art. 43 Codice Civile

Il domicilio, situato nel luogo ove la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi, secondo l'insegnamento classico consta di due elementi: quello oggettivo, in riferimento ai rapporti economici, morali, sociali e familiari; quello soggettivo, derivante dall'intenzione del soggetto stesso di fissare in un determinato luogo il centro dei propri affari o interessi. In alcuni casi il domicilio è conseguenza della legge (nel caso del minore, generalmente domiciliato presso i genitori esercenti la potestà, v. 47).

La residenza coincide con la dimora abituale del soggetto in un dato luogo, ed è anch'essa connotata dai suddetti requisiti oggettivo e soggettivo. Può quindi essere diversa dal luogo eletto quale domicilio, poiché sovente capita (es. lavoratori autonomi/professionisti) che come domicilio venga scelto lo studio professionale, mantenendo la residenza presso la casa familiare.

La dimora, invece, coincide con il luogo in cui la persona abita o permane, in un dato momento ed in modo non abituale. Ha scarso rilievo giuridico, ed emerge solo allorquando non sia nota la residenza (come nel caso di cui all'art. 139 c.p.c.).

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

Massime relative all'art. 43 Codice Civile

Cass. civ. n. 37833/2022

In tema di sottrazione internazionale di minori, quando venga allegata la ricorrenza di una forma di violenza che rientra nel campo di applicazione della Convenzione di Istanbul, il giudice, ove accertata, deve verificare in che misura la stessa sia tale da incidere sulla complessiva situazione dei fatti rilevanti ai fini dell'adozione del provvedimento di rientro del minore e, con riferimento all'art. 13, lett. b) della Convenzione dell'Aja del 1980, è tenuto a valutare la possibilità della sussistenza di un fondato rischio, per il minore, di trovarsi in una situazione intollerabile o di essere esposto, per il suo ritorno, a pericoli fisici e psichici in relazione alle violenze accertate.

Cass. civ. n. 29635/2022

In tema d'imposte sui redditi, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 T.U.I.R. e 43 c.c., deve considerarsi soggetto passivo il cittadino italiano che, pur risiedendo all'estero, stabilisca in Italia, per la maggior parte del periodo d'imposta, il suo domicilio, inteso come la sede principale degli affari ed interessi economici nonché delle relazioni personali, come desumibile da elementi presuntivi ed a prescindere dalla sua iscrizione all'AIRE. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, sulla base di elementi di fatto, quali l'uso di tariffe telefoniche a consumo e la presenza in Italia per vincoli familiari ed incarichi di docenza, aveva escluso la residenza fiscale italiana del contribuente, senza accertare se il domicilio estero fosse il luogo di gestione abituale degli interessi, riconoscibile dai terzi).

Cass. civ. n. 18009/2022

La disposizione dell'art. 2 T.U.I.R. prevede che soggetti passivi dell'imposta sono le persone fisiche, residenti e non residenti nel territorio dello Stato e che ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile. Nel caso in cui il ricorrente risiede all'estero ed è iscritto all'Anagrafe dei residenti all'estero, il criterio di attribuzione della residenza fiscale in Italia è rappresentato dal domicilio, intendendo per esso la sede principale degli affari ed interessi economici nonché delle relazioni personali, come desumibile da elementi presuntivi. Il concetto di domicilio va valutato cioè in relazione al luogo in cui la persona intrattiene sia i rapporti personali che quelli economici dovendo intendersi il concetto di interessi, in contrapposizione a quello di affari, comprensivo anche degli interessi personali.

In tema di accertamento fiscale, il concetto di domicilio va valutato in relazione al luogo in cui la persona intrattiene sia i rapporti personali sia quelli economici, dovendo il concetto di interessi, in contrapposizione a quello di affari, intendersi comprensivo anche degli interessi personali.

Cass. civ. n. 14151/2022

In materia di revoca dell'assegno divorzile disposta per l'instaurazione da parte dell'ex coniuge beneficiario di una convivenza more uxorio con un terzo, il giudice deve procedere al relativo accertamento tenendo conto, quale elemento indiziario, della eventuale coabitazione di essi, in ogni caso valutando non atomisticamente ma nel loro complesso l'insieme dei fatti secondari noti, acquisiti al giudizio nei modi ammessi dalla legge processuale, nonché gli ulteriori eventuali argomenti di prova, rilevanti per il giudizio inferenziale in ordine alla sussistenza della detta convivenza, intesa quale legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale i conviventi si siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale.

Cass. civ. n. 8286/2022

Ai sensi del combinato disposto dell'art. 2 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 e dell'art. 43 cod. civ., deve considerarsi soggetto passivo il cittadino italiano che, pur risiedendo all'estero, stabilisca in Italia, per la maggior parte del periodo d'imposta, il suo domicilio, inteso come la sede principale degli affari ed interessi economici nonché delle relazioni personali, come emergenti da elementi presuntivi. Ciò accade soprattutto in presenza di elementi significativi, quali l'acquisto di beni immobili, la gestione di affari in contesti societari, la disponibilità di almeno un'abitazione nella quale trascorrere diversi periodi dell'anno, e ciò a prescindere anche dall'iscrizione del soggetto nell'AIRE.

Deve considerarsi soggetto d'imposta il cittadino italiano che, pur risiedendo all'estero, stabilisca in Italia, per la maggior parte del periodo d'imposta, il suo domicilio, inteso come la sede principale degli affari ed interessi economici nonché delle relazioni personali, come emergenti da elementi presuntivi.

Cass. civ. n. 20140/2021

In tema d'imposte sui redditi, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 T.U.I.R. e 43 c.c., deve considerarsi soggetto passivo il cittadino italiano che, pur risiedendo all'estero, stabilisca in Italia, per la maggior parte del periodo d'imposta, il suo domicilio, inteso come la sede principale degli affari ed interessi economici nonché delle relazioni personali, come desumibile da elementi presuntivi ed a prescindere dalla sua iscrizione nell'AIRE.

Cass. civ. n. 15835/2021

In materia di esercizio della responsabilità genitoriale sui figli nati fuori dal matrimonio, il giudice territorialmente competente ad adottare i provvedimenti di cui all'art. 337 bis e ss., c.c., è quello del luogo in cui il minore ha la "residenza abituale" al momento della domanda, al cui accertamento concorrono una pluralità di indicatori da valutarsi anche in chiave prognostica, al fine di individuare, insieme al luogo idoneo a costituire uno stabile centro di vita ed interessi del minore, il giudice che, alle condizioni in essere al momento della domanda, possa dare migliore risposta alle correlate esigenze, ferme quelle di certezza e garanzia di effettività della tutela giurisdizionale che nella regola sulla competenza trovano espressione.

Cass. civ. n. 3841/2021

La residenza della persona ex art. 43 c.c. è determinata dall'abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, caratterizzata dalla permanenza per un periodo apprezzabile e dall'intenzione di abitarvi in modo stabile, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali, familiari ed affettive. La verifica di tali requisiti, ai sensi dell'art. 19 d.P.R. n. 223 del 1989, deve avvenire da parte degli organi preposti con modalità che si concilino con l'esigenza di ogni cittadino di poter attendere alle proprie occupazioni, in virtù del principio di leale collaborazione, con l'onere a carico del richiedente di indicare, fornendone adeguata motivazione, i periodi in cui sarà certa la sua assenza dall'abitazione, sì da consentire al comune di concentrare e programmare i propri controlli in quelli restanti.

La nozione di residenza di una persona, ai sensi dell'art. 43 c.c., è determinata dall'abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, che si caratterizza per la permanenza in tale luogo per un periodo prolungato apprezzabile, anche se non necessariamente prevalente sotto un profilo quantitativo e dall'intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali, familiari, affettive. Tale stabile permanenza sussiste anche quando una persona lavori o svolga altra attività fuori del Comune di residenza, purché torni presso la propria abitazione abitualmente, in modo sistematico, una volta assolti i propri impegni e sempre che mantenga ivi il centro delle proprie relazioni familiari e sociali.

Cass. civ. n. 9389/2013

In tema di amministrazione di sostegno, la competenza territoriale si radica con riferimento alla dimora abituale del beneficiario e non alla sua residenza, in considerazione della necessità che egli interloquisca con il giudice tutelare, il quale deve tener conto, nella maniera più efficace e diretta, dei suoi bisogni e richieste, anche successivamente alla nomina dell'amministratore; né opera, in tal caso, il principio della "perpetuatio iurisdictionis", trattandosi di giurisdizione volontaria non contenziosa, onde rileva la competenza del giudice nel momento in cui debbono essere adottati determinati provvedimenti sulla base di una serie di sopravvenienze.

Cass. civ. n. 6880/2012

In tema di nomina dell'amministratore di sostegno, ai sensi dell'art. 404 cod. civ., la competenza per territorio spetta al giudice tutelare del luogo in cui la persona interessata abbia stabile residenza o domicilio; pertanto, in caso di collocamento del beneficiario in una casa di riposo, qualora venga meno il carattere trasitorio della sua permanenza, sull'istanza di sostituzione dell'amministratore è competente il giudice nel cui territorio si trovi detta struttura di assistenza. (Regola competenza)

Cass. civ. n. 403/2012

Ai fini della competenza territoriale per le controversie di lavoro parasubordinato, la disposizione dell'art. 413, quarto comma, cod. proc. civ. fa riferimento al domicilio ex art. 43 cod. civ., quale sede principale degli affari ed interessi, che si presume coincidente con la residenza, non potendosi ritenere, di norma, che il domicilio si trovi nel luogo cui la persona si rapporta nei limiti della prestazione lavorativa, anche se resa con funzioni di massima responsabilità. (Nella specie, concernente l'impugnativa della revoca dell'incarico di direttore generale presso una ASL, la S.C., in base all'affermato principio, ha dichiarato la competenza del giudice del luogo in cui il prestatore d'opera aveva conservato la residenza anagrafica e mantenuto la famiglia, tornandovi anche nel corso della settimana lavorativa e limitandosi a dimorare nel luogo della sede di lavoro con discontinui pernottamenti d'albergo). (Regola competenza)

Cass. civ. n. 25726/2011

La residenza di una persona, secondo la previsione dell'art. 43 c.c., è determinata dall'abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, che si caratterizza per l'elemento oggettivo della permanenza e per l'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali. (In applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha confermato l'insussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo per qualificare stabile ed abituale la permanenza nella dimora, desunti dal giudice di merito dalla mancanza di somministrazione dell'energia elettrica e dalla ripetuta assenza del ricorrente in occasione degli accessi dei vigili urbani).

Cass. civ. n. 19544/2003

In tema di sottrazione internazionale del minore da parte di uno dei genitori, il procedimento monitorio previsto dalla Convenzione de L'Aja, ratificata con la legge n. 64 del 1994, per il ritorno del minorenne presso l'affidatario al quale è stato sottratto, la nozione di «residenza abituale» posta dalla succitata Convenzione non coincide con quella di «domicilio» (art. 43, primo comma, c.c.), nè con quella, di carattere formale, di residenza scelta d'accordo tra coniugi (art. 144, c.c.), in quanto corrisponde ad una situazione di fatto, dovendo per essa intendersi il luogo in cui il minore, in virtù di una durevole e stabile permanenza, anche di fatto, ha il centro dei propri legami affettivi, non solo parentali, derivanti dallo svolgersi in detta località la sua quotidiana vita di relazione, il cui accertamento è riservato all'apprezzamento del giudice del merito, incensurabile in sede di legittimità, se congruamente e logicamente motivato.

Cass. civ. n. 8554/1996

La presunzione di corrispondenza delle risultanze anagrafiche alla realtà effettiva riguardo alla residenza di una persona fisica (luogo in cui essa ha la dimora abituale), basandosi sul particolare meccanismo approntato dal legislatore al fine di garantire che il dato reale continui a corrispondere a quello formale (artt. 43, 44 c.c. e 31 disp. att.; artt. 2 e 11 L. 24 dicembre 1954, n. 1228; artt. 5, 11 e 13 D.P.R. 31 gennaio 1958, n. 136; D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223), benché non abbia valore assoluto (iuris et de iure), deve considerarsi munita di una particolare resistenza, nel senso che, nel caso in cui ai fini del suo superamento non si adducano prove tipiche, di tenore univocamente concludente, ma elementi a loro volta presuntivi, i requisiti di gravità, precisione e concordanza di questi ultimi vanno apprezzati dal giudice del merito con particolare rigore. (Nella specie la S.C. ha annullato la sentenza impugnata che, ai fini della verifica del rispetto delle regole di cui all'art. 139 c.p.c., aveva disatteso le risultanze anagrafiche sulla base di elementi indiziari non univocamente concludenti — quali la positiva esecuzione di talune notifiche in un certo luogo, in realtà compatibile con l'ipotesi della occasionale dimora nello stesso — trascurando la valutazione di elementi di segno contrario, potenzialmente decisivi, e l'ammissione di specifica prova orale).

Cass. civ. n. 6078/1987

La dichiarazione di residenza anagrafica in una certa abitazione, nello stesso od in un diverso comune, fa piena prova, ai fini della effettività della residenza, contro il dichiarante, sicché il giudice non può non tenerne conto, salvo che il dichiarante stesso non fornisca la prova della non rispondenza al vero della dichiarazione da lui fatta al funzionario comunale.

Cass. civ. n. 1738/1986

La residenza di una persona è determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, cioè dall'elemento obiettivo della permanenza in tale luogo e dall'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali. Questa stabile permanenza sussiste anche quando la persona si rechi a lavorare o a svolgere altra attività fuori del comune di residenza, sempre che conservi in esso l'abitazione, vi ritorni quando possibile e vi mantenga il centro delle proprie relazioni familiari e sociali.

Cass. civ. n. 8205/1974

Allorquando un soggetto, contratto matrimonio, va ad abitare in un luogo diverso da quello in cui si trovava con la famiglia di origine, pur se omette di segnalare all'ufficio anagrafico il cambiamento di abitazione, è nel luogo prescelto che stabilisce il proprio domicilio reale.

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Consulenze legali
relative all'articolo 43 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

G. D. P. . chiede
domenica 28/01/2024
“Buongiorno, sono un pensionato che ha un problema con il suo stato di famiglia.
i spiego: ho avuto una relazione sentimentale e convivenza con una donna straniera dal 2011 al 2017. Si trattava di convivenza semplice, senza nessuna certificazione o unione civile. Dopo la fine della relazione la signora ha continuato a vivere a casa mia ospitata per un altro anno circa da separati in casa, per poi fare ritorno in Russia nel 2019. La signora non si è mai preoccupata di aggiornare la sua residenza in Russia né di cancellarsi dall'anagrafe del mio comune.
Inizialmente la cosa non mi creava problemi e ero accondiscendente perché una volta all'anno lei torna dalla Russia per ritirare la pensione di reversibilità che riceve sul suo conto corrente postale qui nel mio paese in provincia di Udine. Adesso però vorrei che lei si cancellasse dal mio stato di famiglia per poter ufficializzare la mia nuova relazione sentimentale con un'altra donna. La signora rifiuta di cancellarsi portando la sua residenza nel luogo dove abita ora. All'ufficio anagrafe dicono che io non posso cancellare una persona che è nel mio stato di famiglia, deve farlo lei stessa... Non esiste un modo per richiedere la cancellazione? Non c'è nessun tipo di legame tra me e la signora, anche se nello stato di famiglia risultiamo conviventi in una relazione sentimentale. Avrei veramente bisogno di poter ufficializzare la mia nuova convivenza, così da poter richiedere un regolare permesso di soggiorno per la mia attuale compagna straniera. Spero di aver descritto esaurientemente la mia situazione e rimango a disposizione per ogni ulteriore informazione o chiarimento.
Grazie in anticipo”
Consulenza legale i 02/02/2024
Le informazioni date dal Comune non appaiono corrette.
Infatti, si chiarisce che è lo stesso interessato ad avere l’onere di procedere all’aggiornamento delle iscrizioni anagrafiche che lo riguardino, in modo da adeguare la situazione che risulta al Comune nei registri anagrafici alla situazione di fatto.
In ogni caso, anche quando l’interessato non provveda, è prevista la possibilità di chiedere la cancellazione anagrafica nei seguenti casi:
a) per morte, compresa la morte presunta giudizialmente dichiarata;
b) per trasferimento all'estero dello straniero;
c) per irreperibilità accertata a seguito delle risultanze delle operazioni del censimento generale della popolazione, ovvero, quando, a seguito di ripetuti accertamenti opportunamente intervallati, la persona sia risultata irreperibile, nonché, per i cittadini stranieri per irreperibilità accertata, ovvero per effetto del mancato rinnovo della dichiarazione di cui all'articolo 7, comma 3, trascorsi sei mesi dalla scadenza del permesso di soggiorno o della carta di soggiorno, previo avviso da parte dell'ufficio, con invito a provvedere nei successivi 30 giorni (art. 11, D.P.R. n. 223/1989).

La richiesta di cancellazione può essere presentata anche da un terzo interessato, che segnali al Comune che un soggetto non si risiede più nell’immobile risultante dai registri comunali perché trasferito in altro luogo.

Nel caso non sia noto il nuovo indirizzo, si ricade nell’ipotesi di cancellazione per irreperibilità di cui sopra.

Molti Comuni pubblicano appositi moduli per “cancellazione anagrafica da parte di terzi” da utilizzare ai fini dell’aggiornamento dei registri anagrafici, fermo restando che il Comune, prima di disporre la cancellazione, può svolgere tutti i controlli del caso.
Si consiglia, quindi, di far presente quanto sopra al Comune, insistendo nella richiesta, in quanto il rifiuto opposto non appare giustificato.

M. R. chiede
martedì 16/01/2024
“Dunque, per ragioni strettamente personali, pur essendo coniugato (almeno ancora per il momento), non ho mai preso la residenza nel comune dove ci siamo trasferiti, mia moglie si, ho mantenuto la residenza nel comune di provenienza, in vista della scadenza della carta d'identità e dato che i rapporti con il coniuge non sono buoni, ho affittato un locale commerciale nel comune di XXX.
A 100 euro al mese che è il massimo che posso permettermi come pensionato con un isee molto basso, percepisco di pensione circa 600 euro avendo ceduto il quinto. L'anagrafe di XXX, dove ho appena chiesto la residenza, ha constato che risulto cancellato dal precedente comune YYY, e all'anagrafe nazionale, ha proceduto comunque a fare una nuova iscrizione. L'impiegata dei servizi rifiuti e acqua ha bloccato la mia richiesta dicendomi che i vigili non mi daranno, a priori, la residenza in un locale commerciale e quindi non ha proceduto. Stamani si svolgeva tutto questo. Ora, non avendo le capacità economiche di arredare a dovere il locale mi sorge il dubbio che i vigili negheranno il consenso, spiegherò che mi sto organizzando, che ho bisogno di tempo, che pago regolarmente l'affitto, ho messo la cassetta della posta e un campanello e una targhetta con il mio numero di cellulare rendendomi cosi reperibile per chiunque in mia assenza. È una situazione difficile, devo assolutamente venire via da casa di mia moglie (è sua soltanto), cosa altro deve fare una persona per non finire nel degrado totale?
Grazie per quanto potrete indicare a un cittadino che non ha più diritti pur non avendo ucciso, rubato, scippato, mendicato.
Distinti saluti”
Consulenza legale i 22/01/2024
Al fine di rispondere al suo quesito occorre preliminarmente soffermarsi su due concetti ossia quello della residenza e quello dell’agibilità – o abitabilità – dell’immobile.

La residenza, com’è noto, costituisce "il luogo in cui la persona ha dimora abituale", cioè il luogo in cui il soggetto vive abitualmente e in cui ha l'indirizzo della sua abitazione principale (art. 43, comma 2 c.c.). Secondo la giurisprudenza, la residenza costituisce un vero e proprio diritto: in ragione di ciò il cambio di residenza non può essere negato salvo che, all’esito degli accertamenti effettuati dal Comune emerga che non vi siano elementi che provino che la persona risieda effettivamente dove ha dichiarato di abitare. Infatti, la condizione in sé sufficiente per il cambio di residenza è che il soggetto dimori abitualmente nel luogo dichiarato.

Diverso dalla residenza è, invece, il concetto di agibilità dell’immobile: da quanto ci è stato riferito, infatti, l’indirizzo da lei comunicato corrisponde ad un immobile a destinazione commerciale che parrebbe non avere i requisiti di abitabilità (ci è stato riferito, infatti, che non avrebbe disponibilità economiche per arredarlo “a dovere”) e che, quindi, potrebbe essere dichiarato inagibile all’esito del sopralluogo dei Vigili del Fuoco.
Per agibilità, infatti, si intende il possesso dei requisiti richiesti dalla legge per far sì che l'immobile sia destinato al suo uso proprio ossia, nel caso di destinazione residenziale, che sia idoneo alla permanenza di persone.

Si precisa, però, fin da subito che il Comune non può negare il cambio di residenza a fronte della sua richiesta di trasferimento presso un immobile che potrebbe non avere i requisiti di agibilità previsti dalla Legge, ma potrà, una volta eventualmente accertata l’inagibilità dell’immobile, sanzionarlo e revocarle la residenza

Per questo le consigliamo di regolarizzare la situazione dell’immobile, anche coinvolgendo il locatore, al fine di evitare che la residenza, una volta concessa, le venga revocata.
In particolare, una volta dotato l’immobile dei requisiti per la permanenza di persone occorrerà, se possibile, formalmente modificare la destinazione d’uso da “commerciale” a “residenziale”.



R. D. L. chiede
domenica 12/03/2023 - Lazio
“Ho sottoscritto in qualita di locatore un contratto di locazione ad uso abitativo ai sensi dell' art. 2,comma 3, della legge 9 dicembre 1998 n.431 e come accordo territoriale di Roma del 28 febbraio 2019 stipulato fra le associazioni di categoria e protocollo n.QC 7177 dip. Patrimonio sviluppo e valorizzazione.
Il contratto è stato registrato in data 24.02.2023 con decorrenza 1.03.2023.
Vorrei sapere se sono obbligato a procedere al cambio di residenza pur
nella consapevolezza di perdere comunque l' esenzione prima casa e procedere dal giugno prossimo al versamento dell' IMU.
Vorrei sapere inoltre, se è dovuto il cambio di residenza, il termine per effettuarlo decorre dalla registrazione del contratto ovvero dalla decorrenza del contratto di locazione. Inoltre quali sono le sanzioni amministrative e penali della omissione del
cambio di residenza ? Grazie”
Consulenza legale i 22/03/2023
Secondo la previsione dell'art. 43 c.c., la nozione di residenza di una persona è determinata dall'abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, che si caratterizza per la permanenza in tale luogo per un periodo prolungato apprezzabile, anche se non necessariamente prevalente sotto un profilo quantitativo (cd. elemento oggettivo), e dall'intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali, familiari, affettive (cd. elemento soggettivo) (Cassazione civile, sez. VI, 28 maggio 2018, n. 13241).
Recentemente, inoltre, è stato chiarito che tale stabile permanenza sussiste anche quando una persona lavori o svolga altra attività fuori del comune di residenza, purché torni presso la propria abitazione abitualmente, in modo sistematico, una volta assolti i propri impegni (lavorativi o di studi) e sempre che mantenga ivi il centro delle proprie relazioni familiari e sociali. La verifica della sussistenza del requisito della dimora abituale in capo a chi richiede l'iscrizione anagrafica in un comune, prevista dalla legge all'art. 19, D.P.R. n. 223/1989, deve avvenire, da parte degli organi a ciò preposti, con modalità concrete che, pur non previamente concordate, si concilino con l'esigenza di ogni cittadino di poter attendere quotidianamente alle proprie occupazioni, in virtù del principio di leale collaborazione tra soggetto pubblico e privato, con l'onere in capo al richiedente la residenza di indicare, fornendone adeguata motivazione, i periodi in cui sarà certa la sua assenza dalla propria abitazione, in modo tale da consentire al Comune di concentrare e programmare i propri controlli in quelli residui (Cassazione civile, sez. I, 15 febbraio 2021, n. 3841).

L’art. 13 del sopra citato D.P.R. n. 223/1989, recante “Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente”, stabilisce che le dichiarazioni anagrafiche relative, tra l’altro, al trasferimento della residenza da altro Comune o dall'estero e al cambiamento di abitazione debbano essere rese nel termine di venti giorni dalla data in cui si sono verificati i fatti.
I “fatti” a cui si riferisce la norma, dunque, si riferiscono all’integrazione dell’elemento soggettivo e oggettivo definiti dalla giurisprudenza sopra citata e non alle eventuali vicende che interessano il contratto di locazione.
In sostanza, il termine di venti giorni previsto dall’art. 13 del Regolamento decorre da quando il soggetto ha stabilito il requisito della dimora abituale nell’abitazione prescelta.

Infine, quanto alle eventuali sanzioni, si nota che la mancata tempestiva comunicazione del cambio di residenza comporta l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 11, L. n. 1228/1954, ossia l'ammenda da lire 1000 a lire 5000 (somme poi decuplicate dal D.L. n. 55/1983, convertito il L. n. 131/1983).

E. J. chiede
mercoledì 01/03/2023 - Lombardia
“Buon giorno! Voglio sapere se un provvedimento emanato da un ufficiale di stato civile può essere sindacato da altro ufficiale di stato civile o, contrariamente, deve stare a quanto fatto dal primo senza poter valutare se detto provvedimento è giusto e legittimo o meno ed eventualmente rifiutarsi di eseguirlo. Il caso è questo: Il Console d'Italia in Buenos Aires, nella sua veste di ufficiale di stato civile, nel 1980, essendo io ero residente in detta città, a mia richiesta riconosce il mio diritto alla cittadinanza italiana jus sanguinis per derivazione materna e chiede all'ufficio di stato civile della città di Cesena (ultimo luogo di residenza di mia madre) di registrare dato atto, cosa che si concreta. Ventisette anni dopo (2013), un altro Console dello stesso Consolato emana un Decreto di disconoscimento della mia cittadinanza ma il Comune di Milano, dove io sono residente dal 1990, non accoglie il provvedimento e mi riconosce cittadino. Oggi il Comune di Cesena afferma che il Comune di Milano doveva accogliere il provvedimento consolare di disconoscimento dato che non ha capacità di sindacare quanto provveduto d'altro ufficiale di stato civile e che, perciò, il riconoscimento del Comune di Milano non è valido ma è valido quello del Console. A mio avviso ci sono due problemi collegati a dirimere: chi ha giurisdizione a decidere in merito al mio status civitatis e se l'USC di Milano, valutando la legittimità del provvedimento consolare a diritto a rifiutarlo, o lo deve eseguire secondo un eventuale principio di "dovuta sudditanza/ossequio" anche di fronte a concreti elementi di illegittimità.”
Consulenza legale i 31/03/2023
Il presente quesito non è di semplice soluzione, sia per l’oggettiva complessità della vicenda, sia perché non è stato possibile visionare i documenti citati e necessari a effettuare una precisa ricostruzione dei fatti.
In ogni caso, sembrano potersi individuare i seguenti punti fermi:
a) vi è stato un primo provvedimento di riconoscimento di cittadinanza italiana per ius sanguinis per discendenza materna da parte di un Consolato italiano all’estero, registrato presso il Comune A, di ultima residenza della madre del richiedente;
b) vi è stato n provvedimento di un Tribunale che nel 2008 ha dichiarato che la cittadinanza della madre del richiedente è venuta meno a seguito di matrimonio nel 1978, cioè dopo la nascita del richiedente, ma non è chiaro quale fosse l’esatto oggetto della causa e da chi sia stata instaurata;
c) un nuovo provvedimento del Consolato italiano all’estero ha disconosciuto la cittadinanza del richiedente nel 2013, per ragioni legate alla presunta perdita di cittadinanza della madre per matrimonio;
d) il Comune B di attuale residenza del richiedente nel 2013 non ha trascritto nei propri registri il provvedimento di disconoscimento, ritenendo che il Consolato non fosse competente;
e) il Comune A, che non è chiaro a quale titolo sia stato interpellato, ritiene invece efficace il decreto di disconoscimento.
In primo luogo, va chiarito che l’accertamento della perdita o meno della cittadinanza italiana in capo alla madre è soltanto una questione rilevante in via incidentale ai fini dell’attribuzione della cittadinanza del soggetto che richiede il parere e non una questione autonoma (soprattutto se ella non è più in vita).
Pertanto, la competenza a svolgere i relativi accertamenti è attribuita all’autorità che effettua l’istruttoria sulla richiesta di riconoscimento di cittadinanza iure sanguinis, posto che si tratta di una questione di fondamentale importanza ai fini della emissione del provvedimento finale, alla luce del fatto che prima dell’anno di entrata in vigore della Costituzione (1948) le donne non trasmettevano ai figli la propria cittadinanza e la perdevano per matrimonio con un cittadino straniero.
In secondo luogo, si nota che l’attribuzione della cittadinanza in via amministrativa avviene a seguito di domanda dell’interessato da presentare all’Autorità consolare, se il richiedente risiede all’estero, o al Sindaco del Comune di residenza, se il richiedente risiede in Italia; gli stessi organi sono competenti a svolgere l’istruttoria e a decidere sulla richiesta (art. 13, D.P.R. n. 572/1993).
L’art. 25, D.P.R. n. 396/2000, stabilisce tra l’altro che vengano registrati in apposito archivio informatico i decreti di concessione della cittadinanza italiana e quelli che ne dispongano la perdita; le comunicazioni del sindaco, del Ministero dell'interno e dell'autorità diplomatica o consolare sull'esito degli accertamenti e le attestazioni del sindaco e dell'autorità diplomatica o consolare relative all'acquisto e alla perdita della cittadinanza italiana; le sentenze che accertano l'acquisto, la perdita o il riacquisto della cittadinanza italiana.
Infine, va ricordato che l’art. 9, D.P.R. n. 396/2000, attribuisce al prefetto la vigilanza sugli uffici dello stato civile e che è comunque sempre ammesso il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis per via giudiziaria, cioè davanti a un Tribunale, che peraltro è l’unico mezzo che è possibile utilizzare in caso di cittadinanza trasmessa per linea materna ai nati prima del 1948.
Alla luce di quanto sopra scritto, si può concludere che il fatto di cambiare comune di residenza non comporta una nuova rivalutazione della sussistenza o meno della cittadinanza, che viene accertata dall’Autorità competente sopra indicata (Autorità consolare per residenti all’estero e Sindaco del proprio Comune per i residenti in Italia).
Gli ufficiali dello stato civile che non sono competenti a adottare il provvedimento sull’acquisto o la perdita della cittadinanza hanno, invece, il compito di trascrivere i provvedimenti adottati dagli organi competenti, senza che questo comporti un potere di riesame della legittimità di tale atto.
La possibilità di accertare in modo univoco la ricorrenza di tali presupposti nel caso di specie, tuttavia, dipende necessariamente dal contenuto dei vari provvedimenti e dalla chiara individuazione dei presupposti di fatto e diritto che hanno portato il Consolato a rivalutare la propria precedente decisione, che però non è stato possibile visionare.
Pertanto, vista la complessità della questione e i diversi indirizzi espressi da vari ufficiali dello stato civile a vario titolo coinvolti, sarebbe forse opportuno interpellare il Prefetto, che è appunto titolare di specifiche funzioni di vigilanza in materia, oppure di rivolgersi direttamente al Giudice affinché metta una definitiva parola fine sull’avvenuto acquisto o meno della cittadinanza italiana.

M. C. chiede
lunedì 24/10/2022 - Sicilia
“In relazione al quesito n° Q202231894 desideravo chiedervi: qual è secondo voi la durata di soggiorno massimo all'estero superata la quale s'interromperebbe la continuità residenziale di fatto in Italia d'un cittadino irreperibile anagraficamente (come fui io) in rapporto al requisito dei due anni di continuità residenziale di fatto in Italia voluto dal Reddito di cittadinanza?
Un giorno od un mese passati all'estero non credo contino, allora quanti giorni ci vogliono?


Consulenza legale i 31/10/2022
La residenza, secondo la definizione che ne dà il codice civile, è il luogo nel quale una persona ha deciso di fissare la propria dimora abituale, che si caratterizza per la permanenza in tale luogo per un periodo prolungato apprezzabile, anche se non necessariamente prevalente sotto un profilo quantitativo (cd. elemento oggettivo), e dall'intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali, familiari, affettive (cd. elemento soggettivo). Tale stabile permanenza sussiste anche quando una persona lavori o svolga altra attività fuori del comune di residenza, purché torni presso la propria abitazione abitualmente, in modo sistematico, una volta assolti i propri impegni (lavorativi o di studi) e sempre che mantenga ivi il centro delle proprie relazioni familiari e sociali (ex multis, Cassazione civile, sez. I, 15 febbraio 2021, n. 3841).
L’art. 3, comma 2, D.P.R. n. 223/1989, inoltre, prevede che non cessano di appartenere alla popolazione residente le persone temporaneamente dimoranti in altri comuni o all'estero per l'esercizio di occupazioni stagionali o per causa di durata limitata.

Né nella definizione civilistica (e relativa giurisprudenza), né nel regolamento di attuazione della Legge anagrafica, dunque, si menziona un periodo minimo di allontanamento dalla propria residenza idoneo a interrompere il requisito della continuità, dovendo avere riguardo piuttosto alla situazione di fatto del soggetto e alla sua volontà di trasferire altrove la propria dimora abituale.
Un aiuto, però, viene dalla circolare ISTAT risalente al 1992 (Anagrafe della popolazione, Avvertenze, Note illustrative e Normativa AIRE), che nell’interpretare l’art. 3 sopra ricordato chiarisce che vi rientrano le persone che si recano all’estero per un periodo inferiore ad un anno o anche ogni anno per i soli periodi relativi all’esercizio di occupazioni occasionali.

In ogni caso, si precisa che l’irreperibilità ricorre quando il Comune abbia cancellato il cittadino dall’anagrafe della popolazione residente dopo aver esperito il procedimento stabilito all’art. 11, D.P.R. n. 223/1989 (per quanto qui ci occupa: “quando, a seguito di ripetuti accertamenti, opportunamente intervallati, la persona sia risultata irreperibile…”).
Tanto non si può dire quando il soggetto si sia semplicemente trasferito all’estero, perché in tal caso la detta circolare prevede la cancellazione dall'anagrafe appunto per trasferimento all’estero (e non per irreperibilità) e il contestuale avvio della procedura di iscrizione all’AIRE.

L. B. chiede
venerdì 14/10/2022 - Toscana
“mio figlio vorrebbe vendere a me (padre) il suo appartamento e comprarne uno in montagna e prenderci la residenza.
E' una operazione che si può fare ? Il fisco avrà da obiettare ?
L'acquisto della casa in montagna e relativa IMU comporta una grossa spesa mentre l'IMU nel Comune di XXX è molto più bassa anche perchè i mq sono la metà di quelli che si andrebbe ad acquistare.”
Consulenza legale i 19/10/2022
Si premette che nel nostro ordinamento non esiste nessuna norma che impedisca ad un genitore di vendere un immobile ad un figlio. Chiaramente quello che rileva è che la vendita non sia fittizia e che non nasconda intenti fraudolenti. Sarà necessario stipulare un atto notarile e, nella misura in cui, avvenga il passaggio di denaro a una cifra di mercato e non simbolica, cioè nella misura in cui l’immobile venga pagato dal padre al figlio così come fossero controparti indipendenti, la vendita non può essere considerata fittizia dal fisco. È inoltre importante, affinchè nessuno possa contestare la bontà dell’atto, che il denaro versato dal padre acquirente, non sia successivamente restituito al figlio per diverso titolo.
In ogni caso, laddove la vendita avvenga per sole ragioni legate al risparmio di Imu, si ricorda che qualora il figlio prendesse la residenza nella casa in montagna e la stessa diventasse per lui l’abitazione principale, l’immobile sito in montagna non sarebbe assoggettato all’imposta, con il risultato che l’unico immobile su cui il figlio si troverebbe a pagare l’Imu sarebbe la seconda casa nel Comune xxx.
Si ricorda infatti che ai sensi dell'art. 1 co. 740 della L. 160/2019 l'immobile adibito ad abitazione principale (o assimilato) non costituisce presupposto dell'imposta, salvo sia accatastata nelle categorie A/1, A/8 o A/9. Si precisa che si definisce abitazione principale l’unità immobiliare in cui il soggetto passivo e i componenti del suo nucleo familiare risiedono anagraficamente e dimorano abitualmente (art. 1 co. 741 lett. b) L. 160/2019).

M. C. chiede
domenica 02/10/2022 - Sicilia
“Buongiorno studio Brocardi.
L'articolo 2, comma primo, lettera "a)" punto 2, del decreto-legge n° 4 del 2019, convertito con modifiche in legge n° 26/2019, attuativo del Reddito di cittadinanza prevede il requisito di due anni di residenza continuativa in Italia precedenti la data d'istanza onde beneficiare di detto Reddito.
Allorquando non si disponga di residenza anagrafica (irreperibilità anagrafica) o non aggiornata dall'utente, il Ministero del Lavoro in sua nota ufficiale del 19 febbraio 2020, m_lps.41 (?), a pagina 3 secondo capoverso dice che è sufficiente la residenza effettiva in Italia dell'istante constatata presso le sue frequentazioni sociali abituali od altri elementi oggettivi di prova, purché non si sia trasferito/a all'estero. Tuttavia non viene specificato per quanto tempo l'istante debba aver soggiornato all'estero per desumere un "trasferimento" e dunque una rottura di residenza effettiva in Italia, atteso ch'un giorno, una settimana od un mese non sono certo sufficienti a rompere il concetto d'una continuità di permanenza abituale/principale.
Io ho di fatto soggiornato all'estero (solo in Francia) durante 5 mesi nei due anni precedenti l'istanza, gli altri 19 in Italia; mentre la situazione teorica anagrafica presso gli uffici era incorretta su circa 23 dei 24 mesi previsti, in particolare era situata all'estero non aggiornata (perché ero in Italia) per circa i primi 4 mesi, poi colpita da irreperibilità per gli altri 19 (l'ultimo mese essendo regolarmente in Italia).
Il mio quesito è: l'articolo 118 bis comma 2 del Codice della strada, ch'è una norma dell'Unione europea, quando definisce la "residenza normale" sul territorio nazionale quella il cui soggiorno in esso sia durato per almeno 185 giorni, può esser impiegato in altri contesti diversi da quello meramente stradale?
In particolare: può tale definizione di "residenza normale" applicarsi per districarsi sui requisiti di residenza per l'erogazione del Reddito di cittadinanza, quando incerti o lacunosi?
Distinti saluti”
Consulenza legale i 20/10/2022
Per quanto riguarda l’art. art. 118 bis del Codice della strada, va subito notato che la definizione di “residenza normale” è dettata “ai fini del rilascio di una patente di guida o di una delle abilitazioni professionali di cui all'articolo 116, nonché dell'applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 126…” dello stesso Codice.
Non sembra corretto, dunque, a livello interpretativo, riferirsi a tale concetto - che ha per stessa previsione normativa un campo di applicazione limitato – per ottenere benefici economici che nulla hanno a che vedere con il concetto di residenza utilizzato nel Codice della strada.
La nota ministeriale citata nel quesito, inoltre, sembra riferirsi ai casi di cittadini cancellati per irreperibilità anagrafica, ad esempio perché senza fissa dimora.
Si tratta, perciò, di una fattispecie sostanzialmente diversa dalla presente, in cui, perlomeno da quanto è possibile apprendere dalla ricostruzione dei fatti contenuta nel quesito, il cittadino non era irreperibile, bensì risultava regolarmente iscritto all’anagrafe come residente all’estero.
Non si vede, quindi, un possibile rimedio alla situazione, posto che l’aggiornamento della residenza deve essere fatto a cura del cittadino ogniqualvolta si verifichi un mutamento della situazione di fatto e che non pare potersi ammettere una modifica “retroattiva” al solo fine di ottenere un beneficio economico.

V. M. chiede
martedì 07/06/2022 - Sicilia
“Separato da oltre un decennio, risulto tuttora residente (come singolo capo famiglia) in un comune, pur non abitandoci più. Per motivi di vicendevole necessità economica ho da poco stabilito di fatto il mio domicilio presso la attuale residenza della mia consorte separata. Mantenendo il regime di separazione consensuale e relativo versamento dello assegno di mantenimento deciso in sede processuale.
Mia moglie risulta anagraficamente capo famiglia ed il nucleo familiare è composto dai nostri due figli e da una nipotina a suo carico.
Qualora pure io trasferissi la mia residenza nella stessa abitazione, sempre mantenendo il regime di separazione, quali conseguenze legali potrebbero subire la capofamiglia e gli altri componenti dalla mia presenza ? Specie mia figlia che è titolare della proprietà della abitazione. Tutto stante la mia posizione debitoria nei confronti di diverse società finanziarie. Potrebbero avanzare pretese o procedere a sequestri di beni mobili ed immobili dei miei familiari ? Spero di essere stato sufficientemente chiaro nella esposizione.
Attendo riscontro, grazie”
Consulenza legale i 14/06/2022
Da un punto di vista sostanziale, stabilire la residenza nello stesso immobile non rende i familiari conviventi responsabili per i debiti del congiunto.
Un discorso a parte va fatto, eventualmente, per la moglie. Non conosciamo quale fosse il regime patrimoniale della famiglia antecedente alla separazione: ora, se si tratta di comunione legale, l’art. 189 c.c., comma 2 stabilisce che i creditori particolari di uno dei coniugi, anche se il credito è sorto anteriormente al matrimonio, possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione, ma comunque fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato.
Tuttavia, la separazione personale dei coniugi costituisce, ai sensi dell’art. 191 c.c., causa di scioglimento della comunione legale.
Da un punto di vista procedurale, tuttavia, i creditori possono ricercare il debitore solo nel luogo di residenza, il che comporta che tutti i beni mobili che si trovano all'interno dell'abitazione possono essere assoggettati a pignoramento, in quanto si presumono comuni a coloro che vi risiedono. L'unico modo per evitarlo è quello di munirsi di fatture di acquisto relative a quei beni, intestate al coniuge non debitore oppure, come molti fanno, esibire all'ufficiale giudiziario un contratto di comodato regolarmente registrato, da cui far risultare che i beni appartengono ad un terzo, preferibilmente estraneo al gruppo familiare. Occorre anche che nel contratto di comodato i beni vengano analiticamente descritti.

E. G. chiede
venerdì 13/05/2022 - Estero
“Mia mamma, di anni 86, è ricovera in una RSA a XXX dal 2017, nello stesso comune nel quale è stata residente dal 1981.
La casa di proprietà dei miei genitori è stata venduta in data 29 Aprile u.s. ed adesso si pone il problema di far risultare mia mamma residente presso un altro indirizzo. Abbiamo delle altre pratiche notarili in corso e dobbiamo ovviamente garantire al notaio la veridicità delle dichiarazioni e del documento di riconoscimento. Attualmente la residenza nella carta d'identita' non corrisponde al vero.
Il comune di XXX si rifiuta di accettare di collocare mia mamma presso la residenza collettiva della RSA, nonostante la Direzione della RSA sia d'accordo ed abbia rilasciato un Certificato di degenza che attesta che mia madre è stata ricoverata in XXX dal 12/01/2017 al 26/03/2020 e dal 11/05/2022 e tuttora degente.
(da notare che dal 26/03/2020 al 11/05/2022, a causa Emergenza COVID, mia mamma è stara trasferita in 3 altre RSA della regione).
Io vivo in Australia, ma ho due fratelli, un fratello residente a YYY ed una sorella a XXX. Entrambi potrebbero prendere mia mamma nel loro stato di famiglia, ma siamo consapevoli che ci saranno dei costi aggiuntivi per tasse che si vorrebbe evitare e comunque la dichiarazione di residenza in casa dei miei fratelli sarebbe un illecito in quanto mia mamma è effettivamente ricoverata in una casa di cura a causa di gravi disabilita' con nessuna possibilità di recupero fisico.
Il Comune si è barricato dietro una fantomatica legge che prevede che un ricoverato in RSA possa essere registrato come residente presso la struttura RSA solo se è ricoverato da più' di due anni.
Vorremmo sapere se è vero che esiste una legge in tal senso o se invece esista una legge superiore che obbliga l'amministrazione comunale a registrare un degente presso una struttura RSA quando non più in possesso di una abitazione propria e quando non ci siano possibilità di recuperare le proprie funzioni di autonomia personale e fisica
Faccio presente che mia mamma paga la retta intera senza contributi comunali dal 2017
grazie”
Consulenza legale i 19/05/2022
Per prima cosa è opportuno sgombrare il campo dai timori circa la paventata “falsità” della residenza indicata sul documento.
Come già a suo tempo chiarito dal Ministero dell’Interno con la circolare 31 dicembre 1992 n. 24, infatti, l’unica funzione della carta di identità è quella di identificare un soggetto e tale funzione non dipende da dati contingenti quali appunto la residenza, lo stato civile e la professione.
Di conseguenza, la modifica di tali dati non rende necessario il rinnovo del documento, che può dunque essere validamente esibito ed utilizzato anche quando riporti un indirizzo di residenza non aggiornato.

Nel caso specifico, però, quanto sopra scritto non è di per sé risolutivo, perché rimane comunque l’esigenza di stabilire la residenza in un luogo diverso dall’abitazione di famiglia, la cui proprietà è stata nel frattempo ceduta.
In proposito, si nota che il Comune probabilmente fa riferimento o all’art. 8, D.P.R. n. 223/1989 (che però è rimasto in vigore solo fino all’istituzione dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente, ai sensi degli artt. 2 e 3 , D.P.R. n. 126/2015) o all’art. 10 bis dello stesso Decreto introdotto dal D.P.R. n. 126/2015.
Tali articoli vietano, sia d'ufficio, sia a richiesta dell'interessato, l'iscrizione o la mutazione anagrafica per trasferimento di residenza dei ricoverati in istituti di cura, di qualsiasi natura, purché la permanenza nel Comune non superi i due anni, da calcolare a decorrere dal giorno dell'allontanamento dal comune di iscrizione anagrafica.

Tale divieto, però, non deve essere inteso in senso assoluto, come chiarito nelle “Avvertenze, note illustrative e normativa AIRE” dell’ISTAT, che -pur pubblicate nel 1992- possono essere utilizzate come guida per l’interpretazione di entrambi i suddetti articoli, in quanto essi presentano un contenuto sostanzialmente coincidente.

Sul punto, in particolare, nel citato documento ISTAT si legge: “Le categorie di persone contemplate nell’art. 8 - vadano esse a far parte o meno di una convivenza anagrafica- possono rimanere iscritte nell’anagrafe del Comune dal quale provengono finché non sia maturato il periodo di tempo previsto nell’articolo stesso; periodo che decorre dal giorno dell’allontanamento dal Comune d’iscrizione anagrafica.
Tale eccezione trova fondamento nella presunzione che, una volta esauritisi nei tempi previsti i motivi che hanno determinato l’assenza dal Comune di residenza, tali categorie di persone fanno ivi ritorno.
Tale presunzione viene meno quando l’interessato manifesta, prima della scadenza dei termini previsti, l’intenzione di iscriversi nell’anagrafe del Comune nel quale si trova di fatto e, nel contempo, dimostra, con fatti concreti, che la dimora si protrarrà oltre i termini previsti dall’art 8.
Possono essere considerate prove dell’intenzione di stabilire la dimora abituale nel nuovo Comune il trasferimento o la formazione di famiglia ed il corrispondente effettivo abbandono nel precedente Comune della propria abitazione.
L’impossibilità di attenersi in modo assoluto al divieto posto dall’art. 8 è manifesta quando nel Comune d’iscrizione anagrafica il soggetto non abbia altri familiari né la disponibilità dell’abitazione per vari motivi ed abbia espresso la volontà di risiedere nel nuovo Comune”.

Sulla base di quanto sopra e vista la data del primo ricovero e la dichiarazione resa dalla casa di riposo, quindi, il rifiuto dell’Ente di procedere all’iscrizione anagrafica non pare sorretto da solide motivazioni.
Peraltro, nel caso di specie si tratterebbe non di un trasferimento da un Comune ad un altro, ma di un semplice cambio di indirizzo all’interno dello stesso territorio comunale, nel quale l’interessata è residente addirittura dagli anni ‘80.
Si consiglia, quindi, di insistere con l’ufficio facendo presente le considerazioni sopra illustrate e coinvolgendo per conoscenza anche il Prefetto competente per territorio, che è soggetto pubblico deputato proprio alla vigilanza sulla corretta tenuta delle anagrafi (art. 52, D.P.R. n. 223/1989).

Va segnalato, comunque, che dal 27 aprile scorso tutti i cittadini possono richiedere online il cambio di residenza o di dimora da un Comune all’altro, nonché il cambio di abitazione nell’ambito di un qualsiasi Comune mediante il sito web https://www.anagrafenazionale.interno.it/

A. C. chiede
martedì 18/01/2022 - Friuli-Venezia
“mia moglie è residente e domiciliata in una casa di sua proprietà donatale dai suoi genitori nel comune di X, prima casa per lei.
Io, marito sono residente e domiciliato in un'altra casa di mia proprietà nel comune di Y, prima casa.
Siamo sposati.
La casa abituale dove viviamo tutto l'anno è quella di Y dove io marito sono residente e domiciliato, mia moglie vorrebbe mantere la residenza nella sua casa di X e portare il domicilio nella casa di Y, che comunicazione devo fare al comune di Y al fine di regolarizzare questa situazione se è possibile? devo anche fare la comunicazione all'ufficio tari del comune di Y perché si aggiunge una persona in modo stabile?
grazie”
Consulenza legale i 25/01/2022
Per iniziare vanno ricordate le nozioni generali di domicilio e residenza, definite come segue dall’art. 43 c.c.: il domicilio è il luogo in cui un soggetto stabilisce la sede principale dei propri affari e interessi, mentre la residenza coincide con la dimora abituale di un soggetto.
Per individuare l’abituale e volontaria dimora in un determinato luogo bisogna avere riguardo alla situazione di fatto della permanenza in tale luogo per un periodo apprezzabile e dall'intenzione di abitarvi in modo stabile, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali, familiari ed affettive (Cassazione civile, sez. I, 15 febbraio 2021, n. 3841).

Tanto chiarito, l’anagrafe si interessa di regola delle persone che hanno fissato nel Comune la propria residenza, mentre il dato del domicilio rileva unicamente per le persone senza fissa dimora (caso del tutto diverso da quello di specie) (art. 1, D.P.R. n. 223/1989).
Infatti, la norma che si occupa delle dichiarazioni anagrafiche menziona, tra l’altro, il trasferimento di residenza da altro Comune, ma nulla dice in merito al domicilio, che non è soggetto a particolari comunicazioni all’Anagrafe e non deriva da una situazione di fatto ma semplicemente dalla volontà dell’interessato (art. 13, D.P.R. n. 223/1989).
In breve, la dichiarazione di domicilio non necessita di formalità e non deve essere rivolta all’anagrafe, ma può essere fatta di volta in volta a chi la richiede (ad esempio quando si deve scegliere il luogo ove ricevere la corrispondenza) anche mediante una autocertificazione.

Nella fattispecie, tuttavia, si nota che, se la casa di Y costituisce la dimora abituale di entrambi i coniugi, sarebbe più corretto che la moglie trasferisca in quel luogo la residenza (anche mantenendo il solo domicilio nella casa di X), in modo da far coincidere le risultanze anagrafiche con la situazione di fatto ed evitare contestazioni circa la corrispondenza al vero delle circostanze dichiarate.
Per quanto riguarda la TARI, non è possibile dare una risposta dettagliata non avendo a disposizione il relativo regolamento, ma di solito il numero di occupanti dell’immobile incide sul calcolo della tassa, con la conseguenza che pare opportuno provvedere alla relativa comunicazione.

Giuseppe G. chiede
giovedì 14/10/2021 - Lazio
“Buonasera, ho effettuato una richiesta di residenza in abitazione locata ed in altro Comune. L'Ufficiale Anagrafe non ha preso in considerazione la mia richiesta rispondendomi dopo quattro mesi con una e-mail, dicendomi che aveva esaminato la mia richiesta in ritardo e non non poteva effettuare il cambio poiché nel frattempo, avevo spostato nuovamente la mia residenza in altro indirizzo di altra circoscrizione (parliamo di ROMA che è divisa in Circoscrizioni), pertanto la mia pratica sarebbe stata archiviata senza l'iscrizione anagrafica. In effetti, dopo 50 giorni ho effettuato un nuovo cambio di residenza perché ho acquistato un immobile come prima casa, ove mi sono trasferito e pertanto ho effettuato regolare cambio di residenza. Il mio quesito è il seguente:
Ho abitato in modo continuativo in un'abitazione per 50 giorni senza che risulti la mia residenza, come posso dimostrare ciò, avendo dichiarato questa residenza in alcune pratiche personali? Ho effettuato dichiarazioni mendaci per un'inerzia del Comune? Vorrei precisare che comunque la mia richiesta era stata effettuata in modo regolare, via pec e su modulo ministeriale per cambio di residenza in tempo reale, inoltre quando ho effettuato un nuovo cambio di residenza, dopo 50 giorni, ho mandato nuovamente una comunicazione via pec avvisando il Comune del nuovo spostamento, l'unica comunicazione l'ho ricevuta dopo quattro mesi.
Grazie”
Consulenza legale i 22/10/2021
Va chiarito che la nozione di residenza si riferisce innanzitutto a una situazione di fatto, che consiste nella circostanza che una persona fisica abbia deciso di fissare la propria dimora abituale in un determinato luogo (art. 43 c.c.).
Essa si caratterizza per l'elemento oggettivo della permanenza e per l'elemento soggettivo dell'intenzione di abitare stabilmente nel luogo prescelto, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali, familiari ed affettive (ex multis; Cassazione civile, sez. I, 15 febbraio 2021, n. 3841; Cassazione civile, sez. VI, 28 maggio 2018, n. 13241).
Questa situazione di fatto viene poi “registrata” dall’anagrafe comunale, a seguito della dichiarazione dell’interessato, secondo quanto previsto dal D.P.R. n. 223/1989, recante “Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente”.

Circa gli adempimenti dell’Ufficiale d’anagrafe, tale D.P.R. stabilisce che l’iscrizione o la registrazione delle dichiarazioni anagrafiche vengano fatte entro due giorni lavorativi, con decorrenza dalla data della presentazione (art. 18, D.P.R. n. 223/1989).
L'ufficiale, entro quarantacinque giorni dalla ricezione delle dichiarazioni, accerta la effettiva sussistenza dei requisiti previsti dalla legislazione vigente per la registrazione. Se entro tale termine non viene inviato all'interessato il preavviso di diniego ex art. 10 bis, L. n. 241/1990, “quanto dichiarato si considera conforme alla situazione di fatto in essere alla data della ricezione della dichiarazione, ai sensi dell'articolo 20 della legge citata”, il quale a sua volta disciplina il silenzio assenso (art. 18 bis, D.P.R. n. 223/1989).

Nel nostro caso, dato che la permanenza stabile nell’immobile nel quale era stata stabilita la dimora abituale è durata almeno 50 giorni e che nessuna comunicazione è pervenuta in quel lasso di tempo da parte dell’anagrafe, si può concludere che si sia formato il silenzio assenso in merito (elemento che forse andrebbe fatto presente al funzionario che ha comunicato l’archiviazione dell’istanza).
In ogni caso, qualora dovesse sorgere la necessità di fornire qualche prova in merito, pare sufficiente riferirsi, oltre che ai suddetti artt. 18 bis, D.P.R. n. 223/1989 e 20, L. n. 241/1990, alle dichiarazioni anagrafiche inviate al Comune via pec ed eventualmente al contratto di locazione.

Per quanto riguarda l’accenno nel quesito a eventuali risvolti penali, infine, si nota che la giurisprudenza in genere riconosce i reati di falso in relazione alla residenza quando un soggetto dichiari falsamente, anche in un’autocertificazione, di aver trasferito in un certo luogo la dimora abituale (Cassazione penale, sez. V, 14 ottobre 2020, n. 31833; Cassazione penale, sez. V, 07 maggio 2018, n. 29469).
Nel nostro caso, invece, questa circostanza non sussiste, posto che, indipendentemente dall’inerzia del Comune nel trattare la dichiarazione anagrafica, la dimora abituale dell’interessato –secondo la definizione sopra specificata- coincideva effettivamente con il luogo indicato nei documenti personali.


Salvatore A.D. chiede
venerdì 12/02/2021 - Sardegna
“Salve,
lo scorso anno ho deciso di investire nell'acquisto di un appartamento con l'intenzione di affittarlo nel periodo estivo dopo aver ottemperato a tutte le norme vigenti. L'immobile si trova in un comune diverso da quello in cui abbiamo attualmente la residenza e anche piuttosto lontano. Non potendolo pagare completamente ho deciso di accendere un mutuo e di intestare l'immobile a mia figlia per la quale ovviamente risulta essere prima casa. Al momento della stipula del contratto la banca ci informa che occorre fare il cambio di residenza entro 12 mesi ma non ho dato peso alla cosa in quanto ero all'oscuro del fatto che per poterla ottenere fosse necessario per legge abitarvi stabilmente. Adesso ci troviamo in difficoltà perché non era previsto il trasferimento di mia figlia presso la nuova abitazione. Tra l'altro lavora nel comune di residenza attuale ed è anche diabetica e quindi necessita spesso di assistenza. Come posso risolvere la questione ?
Grazie per la Vostra cortese risposta.
Cordiali saluti”
Consulenza legale i 16/02/2021
Al fine di dare una esaustiva risposta al quesito, occorre precisare che il termine di diciotto mesi (e non dodici) per il trasferimento della residenza nell’immobile acquistato con i cosiddetti benefici “prima casa” è stato sospeso nel lasso di tempo compreso tra il 23 febbraio 2020 e il 31 dicembre 2020, ai sensi dell’art. 24, D.L. n. 23/2020, convertito in L. n. 40/2020.
Ciò significa che tale termine ha iniziato o ricominciato a decorrere a partire dal 1° gennaio 2021, senza tenere conto del suddetto periodo di sospensione (Circolare 9/E 13 Aprile 2020 dell’Agenzia delle Entrate).

Tanto premesso, si nota che la realizzazione dell'impegno di trasferire la residenza rappresenta un elemento costitutivo per il conseguimento del beneficio richiesto e provvisoriamente concesso dalla legge al momento della registrazione dell'atto e costituisce un vero e proprio obbligo del contribuente verso il fisco previsto a pena di decadenza dall’agevolazione, salvo che ricorra un'ipotesi di caso fortuito o di forza maggiore (Cassazione civile, sez. trib., 16 luglio 2020, n. 15181).
Come si vede, la giurisprudenza intende in modo molto rigoroso tale condizione, tanto che ha adottato un’interpretazione restrittiva anche delle uniche deroghe ammesse.
Infatti, viene riconosciuta la sussistenza della forza maggiore o del caso fortuito solo quando ricorra un evento non imputabile al contribuente, inevitabile ed imprevedibile (Cassazione civile, sez. VI, 12 marzo 2015, n. 5015; Cassazione civile, Sez. trib., 26 marzo 2014 n. 7067, che negano la forza maggiore anche in caso di mancata ultimazione di un appartamento in costruzione e in caso di protrazione di lavori di straordinaria manutenzione di un immobile già edificato).
Ne discende che la situazione lavorativa e di salute della proprietaria dell’immobile non integra la nozione di caso fortuito/forza maggiore, dato che si tratta di circostanze già note e pre-esistenti all’acquisto dell’appartamento (Cassazione civile, sez. VI, 12 luglio 2017, n. 17225).

Si rileva poi che, ai sensi dell’art. 43 c.c., la residenza di una persona è determinata dall'abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, che si caratterizza per l'elemento oggettivo della permanenza e per l'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali (Cassazione civile, sez. VI, 28 maggio 2018, n. 13241).
La stessa definizione viene sostanzialmente ripresa dall’art. 3, D.P.R. n. 223/1989, con la precisazione che non cessano di appartenere alla popolazione residente le persone temporaneamente dimoranti in altri Comuni o all'estero per l'esercizio di occupazioni stagionali o per causa di durata limitata.
Nel caso di specie, tuttavia, la norma da ultimo citata non pare poter essere invocata al fine di poter ottenere comunque il trasferimento della residenza, posto che la permanenza nell’attuale abitazione situata in un diverso Comune non sarebbe giustificabile adducendo esigenze lavorative stagionali o temporanee, presentando al contrario i caratteri della stabilità.
Pertanto, l’unico modo per evitare la decadenza dai benefici prima casa e di vedersi applicare le relative sanzioni è che l’intestataria dell’immobile trasferisca la propria effettiva dimora abituale nel Comune ove l'immobile si trova.

Qualora ciò non sia possibile per le ragioni indicate nel quesito, rimane soltanto la possibilità di rinunciare alle agevolazioni prima casa con una dichiarazione da rendere al Fisco prima dello spirare del termine di diciotto mesi (da calcolare come illustrato nel primo paragrafo del presente parere).
In proposito, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che l’acquirente che non intende adempiere all’impegno assunto in atto è tenuto a presentare una apposita istanza all’ufficio presso il quale l’atto è stato registrato, con la quale revoca la dichiarazione d’intenti di voler trasferire la propria residenza nel Comune nel termine di diciotto mesi dall’acquisto e richiede la riliquidazione dell’imposta assolta in sede di registrazione.
A seguito della presentazione dell’istanza, l’ufficio procederà alla riliquidazione delle imposte relative all'atto di compravendita ed alla notifica di apposito avviso di liquidazione della somma dovuta, oltre gli interessi calcolati a decorrere dalla data di stipula dell’atto, ma senza l’applicazione delle sanzioni (Agenzia delle Entrate, risoluzione 31 ottobre 2011 n. 105/E).







Eleonora M. chiede
martedì 02/02/2021 - Emilia-Romagna
“Buongiorno,
il mio quesito riguarda l'obbligatorietà o meno del cambio di residenza.
Nello specifico sono proprietaria e residente in un immobile nel quale vivono i miei genitori.
Io invece attualmente vivo nella loro casa di proprietà, dove entrambi hanno la residenza ed il mutuo prima casa.
La casa di mia proprietà è stata ereditata e lo scambio delle abitazioni con i miei genitori è avvenuto per ragioni di pura comodità.
Il Comune di residenza è il medesimo.
Vista la situazione cosa occorrerebbe/risulterebbe più conveniente fare per risultare in regola con i vari aspetti legali e fiscali?”
Consulenza legale i 17/02/2021
Ai sensi dell’art. 43 c.c. e dell’art. 3, D.P.R. n. 223/1989, recante “Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente”, la residenza di una persona è determinata dall'abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, che si caratterizza per l'elemento oggettivo della permanenza e per l'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali (Cassazione civile, sez. VI, 28 maggio 2018, n. 13241).

Ciascun componente della famiglia è responsabile per sé e per le persone sulle quali esercita la potestà o la tutela di rendere le necessarie dichiarazioni anagrafiche, tra le quali è compresa anche la comunicazione del cambiamento di abitazione all’interno dello stesso Comune, nel termine di venti giorni dalla data in cui si sono verificati i fatti (artt. 6 e 13, D.P.R. n. 223/1989).
Il mancato adempimento può essere accertato dall’Ufficiale di anagrafe, il quale invita gli interessati a rendere le prescritte dichiarazioni o –in caso di ulteriore inerzia- vi provvede d’ufficio, potendo anche applicare una (per la verità molto modesta) sanzione amministrativa (art. 15, D.P.R. n. 223/1989, art. 11, L. n. 1228/1954).
Pertanto, pare opportuno che tutti i soggetti coinvolti provvedano a comunicare al Comune l’attuale indirizzo nel quale hanno stabilito la propria dimora abituale, dato che la corrente situazione di fatto a rigore determina il rischio di vedersi contestare l’irregolarità delle iscrizioni anagrafiche.

Invece, la circostanza che il cambio di indirizzo avvenga all’interno del territorio del Comune non comporta alcun effetto negativo o conseguenza per quanto riguarda i benefici fiscali “prima casa”.
Infatti, una delle condizione per poter accedere e mantenere tali agevolazioni è semplicemente la residenza nel Comune ove si trova l’immobile, ma non necessariamente presso l’immobile medesimo (art. 1, parte I, nota II bis, D.P.R. n. 131/1986).
In sostanza, il trasferimento a un diverso indirizzo -ma nello stesso Comune- è indifferente ai fini delle agevolazioni fiscali in discorso (Cassazione civile, sez. VI, 23 gennaio 2018, n. 1588).

Per completezza, va poi ricordato che, tra gli ulteriori adempimenti connessi al cambio di abitazione, vi è anche la necessità di aggiornare i documenti di circolazione di eventuali veicoli di proprietà, pena l’applicazione delle sanzioni ex art. 94 del Codice della strada (peraltro decisamente più elevate rispetto a quelle previste dalla Legge anagrafica).
La relativa richiesta viene presentata contestualmente alla domanda di iscrizione anagrafica ed è poi il Comune ad occuparsi di comunicare la variazione al Ministero delle Infrastrutture dei Trasporti.
Infine, si precisa che –anche grazie all’ultimo D.L. “semplificazioni”- a seguito della modifica dei dati indicati sulla carta di circolazione non viene più rilasciato il tagliando adesivo da applicare sul documento, ma è sufficiente che il cittadino scarichi e stampi la relativa attestazione, da esibire in caso di necessità, attraverso il sito web istituzionale “il portale dell’automobilista”.


Tommaso Z. chiede
lunedì 07/12/2020 - Lombardia
“Buongiorno, una volta ottenuta la residenza e quindi nei 45 giorni dalla richiesta di cambio residenza le verifiche hanno dato esito positivo, il Comune può fare delle ulteriori verifiche anche a distanza di 1 anno o più?
In quanto per motivi di lavoro spesso sono fuori casa 5/6 mesi all'anno e mi sono posto il problema dell' eventualità che il Comune possa a distanza di anni revocare la residenza a seguito di ulteriori controlli.
Grazie”
Consulenza legale i 09/12/2020
Anche se la nozione di residenza è contenuta nell’art. 43, c.c., la risposta al presente quesito va ricercata nelle disposizioni del D.P.R. n. 223/1989, recante “Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente” e nelle relative circolari interpretative.
In generale, l’Ufficiale di anagrafe ha la possibilità di effettuare accertamenti d’ufficio in relazione ai fatti che comportino l'istituzione o la mutazione di posizioni anagrafiche e di provvedere, in mancanza delle dichiarazioni rese dagli interessati, ai conseguenti adempimenti (art. 15, D.P.R. n. 223/1989).

Tra le varie ipotesi di cancellazione anagrafica vi è anche quella per irreperibilità, che può essere disposta quando, a seguito di ripetuti accertamenti opportunamente intervallati, la persona sia risultata appunto irreperibile (art. 11, D.P.R. n. 223/1989).
Il D.P.R. non dà una definizione di cosa debba intendersi per irreperibilità, ma, ai fini che qui ci occupano, nella circolare ISTAT n. 70/1989 è stato chiarito che "Le cancellazioni per irreperibilità dei cittadini italiani o stranieri devono essere effettuate quando sia stata accertata l'irreperibilità al loro indirizzo da almeno un anno e non si conosca l'attuale dimora abituale".
Inoltre, ai sensi dell’art. 3, D.P.R. n. 223/1989, non cessano di appartenere alla popolazione residente le persone temporaneamente dimoranti in altri comuni o all'estero per l'esercizio di occupazioni stagionali o per causa di durata limitata.

Pertanto, la normativa di riferimento espressamente esclude che l’assenza temporanea o stagionale per ragioni lavorative possa essere qualificata come irreperibilità rilevante ai fini della cancellazione anagrafica.
Inoltre, nel caso specifico non ricorrerebbe nemmeno il requisito temporale di un anno indicato nella detta circolare dell’ISTAT, la quale -pur non avendo ovviamente valore di legge- viene utilizzata generalmente quale linea guida da parte delle Amministrazioni comunali.
In conclusione, non sembra che nella fattispecie ricorrano le condizioni, anche ammesso che il Comune prenda l’iniziativa di effettuare ulteriori controlli a distanza di tempo dall’iscrizione all’anagrafe, per poter perdere la residenza già fissata.

Paolo R. chiede
domenica 22/03/2020 - Lazio
“Salve.

Io sono residente in uno stabile a Roma, da circa un anno la mia ragazza è venuta a stare da me senza aver spostato la sua residenza, pertanto risulta residente in una casa diversa ma di fatto abita qua da me.

A seguito dei recenti decreti con le relative limitazioni di spostamento, stante il fatto che in teoria la mia compagna non potrebbe stare in questa casa, ma non può neanche ritornare nella vecchia residenza (sempre a Roma ma in un quartiere diverso e distante diversi km), mi chiedevo come sarebbe per noi possibile dimostrare che la mia compagna abita con me pur essendo sprovvisti di documenti che attestano questa situazione di fatto?

Se ad esempio durante uno degli spostamenti consentiti per legge (recarsi in farmacia) la mia compagna dovesse essere sottoposta a controlli che dovremmo fare?

Grazie mille”
Consulenza legale i 28/03/2020
L’art. 1 del D.P.C.M. 9 marzo 2020 ha esteso a tutto il territorio nazionale le misure di contenimento del contagio da COVID-19, già previste dall’art. 1 D.P.C.M. 8 marzo 2020 in relazione a talune zone espressamente individuate.
In particolare, per quanto attiene specificamente all’oggetto del presente quesito, sono vietati gli spostamenti che non siano motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero motivi di salute.
Quello che a livello normativo è stato definito come divieto di spostamento, a livello pratico si è tradotto nell’imperativo “restare a casa”, sbandierato come slogan sugli stessi siti istituzionali.
Ma quale luogo può considerarsi “casa”?
Nel silenzio delle norme, un aiuto può venire dall’esame dei modelli di autocertificazione che è necessario compilare per giustificare eventuali spostamenti. Va precisato che, com’è noto, il modello di autocertificazione ha subito, finora, diverse variazioni; in ogni caso, nel momento in cui scriviamo, il facsimile disponibile sul sito del Ministero dell’Interno prevede l’indicazione non solo della residenza (che è appunto la residenza anagrafica), ma altresì del domicilio.
Ricordiamo che, ai sensi dell’art. 43 del c.c., il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi.
Va considerato anche che, allo stato attuale, rientrare presso la residenza anagrafica risulterebbe contrario non solo alla raccomandazione di non lasciare la propria abitazione, ma anche alle norme emanate a seguito dell’emergenza: infatti il D.P.C.M. del 22 marzo 2020 ha eliminato dall’art. 1 del D.P.C.M. 8 marzo 2020 le parole “è consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza”.
Pertanto, l’unica soluzione percorribile è dichiarare sul modulo di autocertificazione, in caso di controllo da parte delle forze dell’ordine, l’indirizzo di domicilio, aggiungendo “presso [nominativo del soggetto residente nell’appartamento]”.

Aldo G. chiede
lunedì 16/03/2020 - Toscana
“Risiedo anagraficamente nel Comune "A" dove svolgo la mia attività lavorativa.
Nel Comune confinante "B" risiede, in immobile di proprietà dei genitori in uso gratuito, la madre delle mie figlie da me riconosciute ed in tale immobile praticamente anche io vivo abitualmente (soggiorno, mangio e dormo).
Per ragioni varie non posso variare, almeno momentaneamente, la mia residenza anagrafica.
Posso sostenere, a tutti gli effetti di legge, di avere residenza anagrafica nel Comune "A" e dimora nel Comune "B"?
E' dovuta alcuna forma di informazione e se si a quale Ente ed in che modalità?”
Consulenza legale i 23/03/2020
Il codice civile non definisce espressamente la dimora, ma soltanto il domicilio e la residenza.
In proposito, per l’art. 43 del c.c. domicilio è il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei propri affari e interessi; invece la residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale.
Se ne ricava che la dimora è il luogo in cui la persona abita.
L’art. 2 della legge n. 1228/1954, “Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente”, stabilisce l’obbligo di chiedere, per sé e per le persone sulle quali eventualmente si esercita la responsabilità genitoriale o la tutela, l’iscrizione nell'anagrafe del comune di dimora abituale.
Anche la giurisprudenza esclude che si possa legittimamente “scollegare” la residenza dalla dimora abituale.
Per citare alcune pronunce recenti, si veda Cons. Stato, Sez. V, n. 2802/2017: “ai sensi dell’art. 43 c.c. la nozione di residenza coincide con quella di dimora abituale”.
Ed ancora, secondo i giudici di merito: Tribunale Treviso Sez. I, 09/06/2016: “ai sensi dell'art. 43 c.c., la residenza è definita come il luogo in cui la persona dimora abitualmente; essa va individuata, in ragione della sua abituale e volontaria dimora in un posto determinato e dunque, in ragione dell'elemento oggettivo della permanenza in tale luogo e dell'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi in maniera stabile in base alle abitudini di vita”; Corte d'Appello Potenza, 26/05/2015: “la residenza di una persona, sulla scorta di quanto statuisce l'art. 43 del codice civile, verrà determinata dalla dimora abituale e volontaria del soggetto in un determinato posto e caratterizzata dalla permanenza quale elemento soggettivo e dall'intento di abitarvi stabilmente quale elemento soggettivo connesso alle abitudini di vita e allo svolgimento delle normali relazioni sociali” (si tratta del medesimo principio già ribadito dalla Corte di Cassazione, Sez. I, n. 25726/2011).
Non è ammissibile, pertanto, la dichiarazione di risiedere in un dato luogo e dimorare abitualmente in un altro, anche perché costituirebbe una evidente contraddizione.

S. P. chiede
mercoledì 11/03/2020 - Veneto
“Buongiorno,

- Ho residenza in un comune in provincia di Treviso, dove lavoro come dipendente ma, di fatto, vivo con mia moglie in un comune in provincia di Ferrara, in affitto
- Non cambio residenza, poiché, oltre al fatto che non potrei più scaricare gli interessi del mutuo del mio appartamento di Treviso, non potrei nemmeno avere un medico a Treviso e anche altre attività che, per me, è più comodo svolgere comunque a Treviso, dove sto per almeno 14/15 ore al giorno

Come posso fare, per poter risultare domiciliato a Treviso, anche se 6 giorni su 7 dormo a Ferrara?

Grazie,

PS: faccio questa domanda anche per ciò che accade nell'ultimo periodo (coronavirus), dove potrei dichiarare alle forze dell'ordine, come dimora temporanea, Ferrara. Ma passata la crisi, come posso revocarla?”
Consulenza legale i 14/03/2020
Occorre preliminarmente distinguere tra domicilio e residenza.
La differenza tra i due concetti si desume dall’art. 43 del codice civile.
Il domicilio viene definito come la “sede principale dei propri affari o interessi”; mentre la residenza è il luogo dove la persona ha la propria dimora abituale.
Come ha evidenziato autorevole dottrina, la nozione di domicilio è caratterizzata da un elemento oggettivo che consiste appunto nel riferimento al luogo in cui si concentrano gli interessi e da uno soggettivo, costituito dalla volontà della persona, anche per fatti concludenti, di scegliere proprio quel luogo quale centro dei propri interessi.
Il giurista C.M. Bianca ha evidenziato altresì che “la semplice dichiarazione di volontà di un soggetto non è di per sé sufficiente a creare il suo domicilio, non avendo alcuna natura negoziale: la fissazione del domicilio generale è un atto giuridico in senso stretto” (Bianca, Diritto civile, II, Milano, 1981).
Diciamo che esistono vari tipi di domicilio: ad esempio, un tipo particolare è quello legale che viene dichiarato in relazione a un procedimento giudiziale (si pensi al domicilio eletto presso lo studio del proprio avvocato). Un altro, è il domicilio del minore e così via.

Quanto alla residenza di una persona, come ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n.25726/2011, essa “è determinata dall'abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, che si caratterizza per l'elemento oggettivo della permanenza e per l'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali.”.

Circa poi la vita coniugale, l’art. 45 del codice civile stabilisce espressamente che: “Ciascuno dei coniugi ha il proprio domicilio nel luogo in cui ha stabilito la sede principale dei propri affari o interessi".
Pertanto, pur avendo una residenza comune, i coniugi sono liberi di avere ciascuno un proprio domicilio.

Ciò brevemente premesso, passando allo specifico del quesito in esame si osserva quanto segue.

Ai fini del domicilio generale (non uno di quelli “particolari” come negli esempi sopra specificati), come sopra evidenziato, non occorre alcuna dichiarazione formale come accade invece per la residenza.
Infatti, mentre per quest’ultima esiste un certificato che viene rilasciato dalla pubblica amministrazione; per il domicilio non esiste un certificato in tal senso.
Tra l’altro, in base all’art. 44 del codice civile si desume che domicilio e residenza viaggino insieme.
Pertanto, in risposta alla domanda contenuta nel quesito, considerato che Lei ha già la residenza a Treviso si desume che lì abbia anche il domicilio (oltretutto svolgendo ivi anche attività lavorativa).
Non appare dunque necessaria alcuna dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà relativa al domicilio dal momento che, appunto, già coincide con la residenza formale.

Ps. non vediamo la ragione per cui dovrebbe dichiarare Ferrara come dimora temporanea...

LUIGI T. chiede
mercoledì 11/12/2019 - Puglia
“Buongiorno, ho un contratto di locazione ad uso diverso dall'abitazione, ho intestato il contratto alla mia società e ho trasferito in questo ufficio anche la mia abitazione.
Come posso fare per ottenere il mio indirizzo domiciliare con il nucleo familiare ? È possibile fare questo?
Che possibilità ho per restare dentro ? Faccio presente che lo stabile è ad uso uffici composto da 38 abitazioni e non da uffici.
Grazie”
Consulenza legale i 17/12/2019
La risposta che va data al quesito posto non può che essere negativa, almeno sotto un profilo prettamente giuridico, e se ne illustreranno qui di seguito le ragioni.

Come si ritiene possa essere ben noto, la residenza di una persona è una situazione di fatto, alla quale tuttavia si ricollegano una serie di effetti giuridici, volti a regolamentare la relazione che ogni soggetto intrattiene con il proprio territorio.
Essa viene fatta coincidere con quel luogo in cui l’individuo vive con una certa stabilità e nel quale ha intenzione di stabilire la propria abitazione; nella determinazione di tale luogo, l’individuo gode di ampia libertà, potendo stabilire la propria residenza dove ritiene più opportuno, fatte salve le particolari limitazioni previste per determinate categorie di soggetti (quali, ad esempio, i minori).
Ciò significa che, almeno sotto un profilo prettamente fattuale, ciascuna persona può arbitrariamente decidere di vivere ovunque in maniera stabile (ciò che determina la sua residenza di fatto), ma la stessa cosa non vale nel caso in cui si voglia formalizzare quel luogo come residenza anagrafica propria e della propria famiglia, chiedendone l’iscrizione all’anagrafe del comune interessato.

L’iscrizione anagrafica e lo status di residenza che ne consegue costituisce senza dubbio sia un diritto che un dovere per ogni persona presente sul territorio dello Stato italiano e determina, a sua volta, il godimento effettivo di altri diritti che la Costituzione italiana elenca tra i diritti fondamentali.
Il diritto alla residenza si configura come un diritto soggettivo perfetto, disciplinato da tutta una serie di norme, tra cui la Costituzione (artt. 2,3,14,16), il codice civile (artt. 43 e ss), la Legge n. 1128/1954 e il D.P.R. n. 223/1989, nonché da ultimo il d.l. 9 febbraio 2012 n. 5, convertito nella Legge n. 35/2012.

Il fatto che si tratti di un diritto soggettivo perfetto comporta che chiunque, una volta fissata la propria dimora abituale in un determinato luogo, può presentare al Comune competente la richiesta di iscrizione anagrafica (secondo la modulistica conforme a quella pubblicata sul sito internet del Ministero dell’interno), a seguito della quale l’ufficiale d’anagrafe, nei due giorni successivi, è tenuto ad eseguire la relativa registrazione, fermo restando che gli effetti giuridici dell’iscrizione nei registri anagrafici decorrono sin dalla data di presentazione della suddetta modulistica.

Soltanto in seguito, e precisamente nei 45 giorni successivi alla data di presentazione delle relative dichiarazioni, le autorità competenti svolgono gli accertamenti su quanto dichiarato, ma tali controlli in realtà si limitano a verificare una mera situazione di fatto, ossia l’effettiva ed ordinaria presenza del soggetto che richiede l’iscrizione anagrafica sul territorio del Comune, mediante l’accertamento da parte degli Ufficiali dell’Anagrafe della c.d. dimora abituale.
Il carattere meramente accertativo di tale controllo lo si deduce anche da quanto espresso al secondo comma dell’art. 19 del DPR n. 223/1989, in cui si ribadisce che le verifiche di competenza dell’ufficiale di anagrafe riguardano esclusivamente la sussistenza della abitualità della dimora del richiedente e nient’altro.
Oltretutto, decorsi i 45 giorni di tempo per effettuare gli accertamenti relativi alla dimora abituale, in assenza di comunicazioni da parte delle autorità competenti, si applica il silenzio assenso previsto dall’art. 20 della Legge n. 241/1990 e, pertanto, l’iscrizione anagrafica richiesta produce definitivamente ogni effetto.

Fin qui si potrebbe dire che non vi è alcun ostacolo a far coincidere la propria residenza anagrafica con l’immobile sede della società di cui si è titolari, detenuto in forza di contratto di locazione che ha come conduttrice la stessa società, in quanto ciò che si andrà ad accertare è soltanto la presenza in quell’immobile di colui che richiede l’iscrizione e del proprio nucleo familiare.

Tuttavia, il procedimento di iscrizione potrebbe non finire qui, in quanto la Legge n. 94/2009 (Pacchetto sicurezza 2009), ha introdotto, ai sensi del D.lgs. n. 30/2007 (come modificato dall’art. 1 del D.lgs. n. 32/2008), la possibilità per i competenti uffici comunali (il riferimento è alla c.d. polizia edilizia) di verificare, al momento della richiesta di iscrizione o variazione anagrafica di ogni persona “le condizioni igienico-sanitarie dell’immobile in cui il richiedente intende fissare la propria residenza, ai sensi delle vigenti norme sanitarie”.
Si tratta di una semplice facoltà, e non di obbligo, ma, se esercitata, gli uffici comunali andranno ad accertare l’adeguatezza dell’immobile ad una serie di parametri igienico-sanitari che valgono a conferire idoneità abitativa all’immobile stesso.

Va precisato che tale tipo di accertamento non può comunque condizionare il procedimento di iscrizione anagrafica, ancorato soltanto al presupposto della dimora abituale, con la conseguenza che lo stesso dovrà avere esito positivo anche nel caso in cui l’alloggio risulti eventualmente inidoneo; tuttavia, non è da escludere che la certificazione di un alloggio come inadeguato potrebbe anche diventare presupposto di un provvedimento di sgombero, il che comporterebbe la perdita della dimora abituale da parte degli occupanti e, di conseguenza, il venir meno del presupposto per l’iscrizione anagrafica.

Non può neppure trascurarsi un altro aspetto potenzialmente negativo di una decisione di tale tipo: il rischio che tale situazione venga alla luce può avere anche dei risvolti sul piano dei rapporti contrattuali con il locatore per violazione del n. 1 dell’art. 1587 del c.c., nella parte in cui viene detto che costituisce obbligazione principale del conduttore quella di servirsi della cosa locata per l’uso determinato nel contratto.
Ciò legittimerebbe il locatore a chiedere la risoluzione del contratto per grave inadempimento colpevole del conduttore, sul presupposto, ovviamente, che lo stesso non sia a conoscenza di tale situazione e non abbia dato il suo consenso.

Sul piano urbanistico, poi, potrebbe anche essere contestata da parte dei competenti uffici comunali una destinazione d’uso diversa da quella risultante in catasto, considerato che, secondo quanto viene detto nel quesito, l’immobile ha una destinazione ad uso ufficio, e dunque non rientra tra quelle categorie catastali che la legge destina ad abitazione (A1, A2, A3, A4, A5, A6, A7, A8, A9, A11).

In conclusione, dunque, come è stato anticipato all’inizio di questa consulenza, si sconsiglia di presentare richiesta per fissare la propria residenza anagrafica in un immobile detenuto in forza di un contratto di locazione ad uso diverso da abitazione e con diversa destinazione catastale.


Antonio D. F. chiede
domenica 27/10/2019 - Molise
“Salve. Siamo in 10 figli e due mie sorelle da testamento diventeranno proprietarie della casa paterna a morte di mia madre che ad oggi ha 82 anni che ha l'usufrutto. Le due sorelle hanno lì residenza e le utenze intestate ma per un forte litigio familiare sono dovute andare via. Nessuno ha lì la residenza tranne mia madre che adesso ha fatto la richiesta al comune di far cambiare la residenza alle due sorelle. Loro non vogliono cambiarla: come possono difendersi con il comune?”
Consulenza legale i 04/11/2019
Il caso che viene prospettato è solo uno di quei tanti casi in cui un soggetto si attiva per far cambiare la residenza a terze persone.
Un problema di questo tipo nasce, ad esempio, nel caso di coniugi che si separano dopo aver vissuto e trasferito la residenza nell’abitazione dei genitori di uno di essi: il coniuge che si allontana, molto spesso, continua a mantenere in quel luogo la sua residenza.
Altro caso, molto frequente, è quello dell’inquilino che lascia l’abitazione condotta in affitto, ma non provvede a cancellare la residenza dall’indirizzo di quella casa.

In casi come questi, se colui il quale si trasferisce in un luogo diverso da quello in cui aveva la residenza, non adempie all’obbligo, su di lui gravante, di richiedere agli uffici comunali competenti il cambio di residenza, comunicando il suo nuovo indirizzo, è ben possibile che un soggetto terzo si adoperi per far cancellare la residenza di quella persona, trovando tale diritto il suo fondamento legislativo nell’art. 11 del DPR 30/05/1989 n. 223.

Perché ci si possa avvalere di tale facoltà, però, è necessario che ricorra una condizione ben precisa, ossia: chi presenta l’istanza di cancellazione anagrafica di terzi, deve essere direttamente interessato, ovvero avere uno specifico interesse a tale cancellazione.
E’ facile ravvisare un interesse di questo tipo in capo al proprietario dell’immobile che voglia far cancellare la residenza dell’inquilino che è andato via o che è stato sfrattato, ovvero in capo ad uno dei membri dello stesso stato di famiglia (è il caso dei figli che lasciano l’abitazione dei genitori perché si sposano o perché vanno a convivere con il proprio compagno o la propria compagna in una diversa abitazione).

Più difficile, invece, sarà rinvenire un concreto interesse in un caso come quello qui descritto, in cui l’allontanamento da quella che può considerarsi come casa familiare è legato esclusivamente a dissidi familiari, che rendono intollerabile la convivenza tra genitori e figli in un preciso momento o, probabilmente, solo per un limitato periodo di tempo.

Ebbene, la normativa sopra richiamata richiede, al fine di ottenere la cancellazione anagrafica di una determinata persona dal luogo in cui risulta avere la residenza anagrafica, la presentazione di una specifica richiesta, a seguito della quale l’Ufficiale d’anagrafe sarà tenuto ad effettuare i dovuti controlli tramite il locale Comando della Polizia municipale; qualora, poi, a seguito di tali controlli, la persona o le persone non vengano effettivamente reperite all’indirizzo di residenza, l’Ufficiale d’anagrafe avvia il procedimento di cancellazione per irreperibilità, procedimento che avrà una durata di circa un anno.

Nel corso di esso, e prima di poter definitivamente procedere alla cancellazione anagrafica per irreperibilità delle persone interessate, dovranno essere effettuati più accertamenti da parte della Polizia municipale.

E’ questo, a tutti gli effetti, un ordinario procedimento amministrativo, per il quale troverà applicazione la normativa dettata dalla Legge 7 agosto 1990 n. 241, in materia di procedimento amministrativo e di accesso ai documenti amministrativi.
In particolare, l’autorità amministrativa interessata (ossia l’Ufficio Anagrafe) dovrebbe dare, ex art. 7 della legge sul proc. amministrativo e art. 8 della legge sul proc. amministrativo, comunicazione dell’avvio del procedimento ai diretti interessati, per tali intendendosi coloro nei confronti dei quali il provvedimento finale (la cancellazione anagrafica) è destinato a produrre effetti.
Qualora, come si presume sia qui accaduto, non sia stata data alcuna comunicazione formale di avvio del procedimento, ciò che si consiglia è di avanzare, ex art. 9 della legge sul proc. amministrativo, formale istanza di intervento allo stesso procedimento (del quale si darà atto di essere venuti comunque a conoscenza aliunde), presentando per iscritto le proprie osservazioni, corredate anche da eventuali prove e documenti e chiedendo che non si proceda a cancellazione della propria residenza da quell’abitazione.

Costituirà valida prova in proprio favore il fatto che le utenze di quell’abitazione risultano intestate a coloro a cui si vorrebbe negare la residenza, così come potrebbe essere utile richiedere l’ acquisizione dello stato di famiglia, se le figlie si trovano regolarmente inserite nello stesso stato di famiglia della madre.

A tale richiesta di intervento si potrà anche aggiungere, ex art. 10 della legge sul proc. amministrativo, una contestuale richiesta di voler prendere visione degli atti del procedimento, ed in particolare del contenuto dell’istanza, al fine di verificare sulla base di quale motivazione la madre sta chiedendo la cancellazione della residenza delle figlie (si tenga presente che detta istanza dovrà necessariamente contenere l’indicazione dei motivi per cui è stata presentata).

Ciò che non si consiglia, invece, è di attendere l’adozione del provvedimento conclusivo, nell’intento poi di far valere la mancata comunicazione del suo avvio; infatti, si tenga conto che l'art. 21 octies della legge sul proc. amministrativo, dispone che il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile se l’amministrazione riesce a dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
A ciò si aggiunga che, secondo consolidata giurisprudenza amministrativa, non ci si potrebbe limitare a denunciare la mancata o incompleta comunicazione e la conseguente lesione della propria pretesa partecipativa, ma sarà in ogni caso necessario indicare o allegare gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale del provvedimento (Cons. Stato, Sez. IV, 9/12/2015, n. 5577; 15/7/2013, n. 3861, 20/2/2013, n. 1056, 16 febbraio 2012, n. 823 e 28/1/2011, n. 679; Sez. V, 20/8/2013, n. 4192).

Altro strumento di cui ci si può avvalere è quello di richiedere, sempre in sede di intervento, che venga data applicazione al disposto di cui all'art. 10 bis della legge sul proc. amministrativo; ciò porrà in capo al responsabile del procedimento l’obbligo, prima di adottare un formale provvedimento, di indicare specificamente i motivi che verranno posti alla base dell’adozione di un provvedimento positivo o negativo, avverso i quali, entro il termine di dieci giorni, gli istanti, ma anche gli intervenienti diretti interessati, avranno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni.

Tanto si ritiene che possa essere sufficiente per far sì che l’amministrazione interessata prenda consapevolezza del fatto che le persone per le quali è stata chiesta la cancellazione della residenza hanno un interesse nettamente contrario a mantenerla in quell’abitazione, ponderando così in maniera accurata il tipo di provvedimento che si andrà ad adottare.


Valentina C. chiede
mercoledì 31/07/2019 - Emilia-Romagna
“Buongiorno,
io e mio marito abbiamo da poco acquistato due immobili (uno intestato a me, l'atro a mio marito) , catastalmente indipendenti e con rendita autonoma, per poi ristrutturarli ed unirli, in modo che costituiscano un'unica abitazione per la nostra famiglia. Per ottenere i benefici prima casa li abbiamo uniti di fatto catastalmente (circolare Agenzia entrate 27/E 2016).
Il problema ora è che dobbiamo prendere la residenza in due indirizzi diversi (mio marito ad un civico ed io , coi nostri figli, all'altro), separando lo stato di famiglia , situazione che non rispecchia la nostra volontà e neanche la nostra situazione abitativa. All'anagrafe ci dicono che l'unica possibilità è questa, sebbene i due civici costituiscano un'unica abitazione.
Come è possibile avere un unico stato di famiglia e non perdere i benefici prima casa? Grazie in anticipo per la risposta.”
Consulenza legale i 06/08/2019
Il tema dell’acquisto di due immobili contigui destinati a costituire un’unica unità abitativa, in riferimento alla quale fruire dell’agevolazione “prima casa” di cui all’art.1, tariffa parte prima, nota II bis) del DPR n.131/86, è stato affrontato, per la prima volta, con la Circolare n. 38/E del 12.08.2005.
Al paragrafo 3.4 della citata Circolare viene, infatti, precisato che i benefici “prima casa” spettano anche per “l’acquisto di due appartamenti contigui destinati a costituire un’unica unità abitativa purché l’abitazione conservi, anche dopo la riunione degli immobili, le caratteristiche non di lusso” ovvero, l’immobile non rientri nelle categorie catastali escluse dai benefici, ovvero A/1, A/8 e A/9.

Con Risoluzione n. 142/E del 04.06.2009 è stato precisato che detta agevolazione può essere fruita anche in caso di acquisto di un nuovo immobile da accorpare ad uno acquistato precedentemente senza aver fruito delle agevolazioni, perché non previste dalla legge all’epoca dell’acquisto.
Con successiva Circolare n. 31/E del 7/6/2010 l’Agenzia ha esteso le agevolazioni al caso in cui “il contribuente non abbia fruito delle agevolazioni per l’acquisto dell’abitazione da ampliare” non per mancanza di una legislazione in materia, come nella fattispecie di cui alla risoluzione citata, “ma perché risultava già titolare, al momento della stipula del precedente atto di trasferimento, di altro immobile acquisito con le agevolazioni prima casa”.
La più recente Risoluzione n. 154 del 19/12/2017 fa, invece, riferimento al caso di accorpamento tra tre immobili, due già in possesso del contribuente che ha presentato l’istanza di interpello, di cui uno acquistato senza fruire di agevolazioni fiscali.
L’intenzione dell’istante era di acquistare un terzo immobile, contiguo ai primi due e, di procedere all’unificazione delle tre case in un’unica unità immobiliare.
Anche in questo caso, l’Amministrazione ha espresso parere favorevole subordinando, per altro, la fruizione dell’agevolazione alla fusione delle tre unità immobiliari ed al fatto che l'abitazione risultante dalla fusione non rientri nelle categorie A/1, A/8 o A/9.

Ciò detto si ritiene che, in generale, in base alle istruzioni di prassi prima citate, si possa legittimamente fruire dell’agevolazione “prima casa” per più immobili contigui a patto che gli stessi vengano fusi in un’unica unità immobiliare e che l’immobile risultante dalla fusione mantenga i requisiti di abitazione non di lusso.
Si aggiunga che la giurisprudenza di merito ha riconosciuto la possibilità di fruire di detta agevolazione anche nel caso in cui le schede catastali non siano state aggiornate e non riportino, dunque, perfettamente i dati della fusione delle due unità immobiliari (Ctp Milano Sentenza n. 177/21/11).
Il collegio giudicante ha, infatti, chiarito che le agevolazioni prima casa spettano a condizione che i due alloggi accorpati costituiscano un'abitazione unica rientrante nella tipologia degli alloggi non di lusso, e che ricorrano gli altri requisiti indicati nella nota II-bis, posta in calce all'articolo 1, tariffa parte prima, allegata al Dpr 131/1986.
Ai fini dell'agevolazione, dunque, è ininfluente la circostanza che, da un punto di vista catastale, non si sia provveduto ad aggiornare la relativa scheda o a rielaborarne una nuova.

È evidente che, nella misura in cui i due immobili sono stati fusi, non saremo più in presenza di due immobili, ognuno con un proprio numero civico ma, di un unico immobile che, seppure sia distribuito su più numeri civici, è comunque destinato, nella sua integrità, a residenza degli acquirenti.
Si sottolinea inoltre che, in tale situazione, il problema del trasferimento di residenza, non sussiste neanche dal momento che, sotto il profilo fiscale, ai fini dell’agevolazione in commento assume rilievo solo la residenza nel medesimo Comune in cui si trovano gli immobili e non anche l’indirizzo civico.
Va, infatti, evidenziato, che i requisiti richiesti, in termini di residenza anagrafica, per l’agevolazione “prima casa” di cui alla citata normativa del Testo Unico dell’Imposta di Registro, sono diversi da quelli richiesti per le agevolazioni in tema di “abitazione principale” che assume rilievo ai fini delle deduzioni riconosciute in materia di imposte dirette sui redditi e di tributi locali collegati alla proprietà immobiliare (per intenderci, IMU e TASI).

Per “abitazione principale” si intende, infatti, l’immobile nel quale il possessore e il suo nucleo familiare non solo risiedono anagraficamente ma anche dimorano abitualmente. Pertanto, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze si applicano per un solo immobile e, quindi, possono essere godute solo in riferimento all’immobile destinato a residenza e dimora abituale del nucleo familiare.
Ai fini di queste agevolazioni assume, quindi, rilievo anche il numero civico in cui si dimora abitualmente, oltre che il Comune in cui si risiede.
Ai fini dell’agevolazione “prima casa”, invece, assume rilievo esclusivamente il Comune di residenza e non anche il numero civico. Ne è prova il fatto che l’agevolazione può essere mantenuta anche nel caso in cui l’immobile acquistato con l’agevolazione prima casa sia dato in locazione e il contribuente dimori in altro immobile, a patto che, ovviamente mantenga la residenza all’interno del medesimo Comune.

L’intera costruzione teorica sin qui svolta si fonda sulla considerazione che i due immobili possano essere “fusi” catastalmente in un’unica unità immobiliare.
Va, tuttavia, rilevato che, come precisato nella nota prot. n. 15232 del 21.02.2002 dell’Agenzia del Territorio, Direzione Centrale Cartografia, Catasto e Pubblicità Immobiliare, Area Servizi catastali, Ufficio metodologie operative catastali, la normativa catastale prescrive che la fusione tra porzioni di immobili possa avvenire solo qualora i diritti reali di possesso siano omogenei (cioè solo se tutti i beni da fondere appartengano alla stessa ditta e vi sia quindi coincidenza di soggetti, titoli e quote).
Pertanto, in presenza di disomogeneità di diritti reali, come nel caso di specie, la fusione catastale non è più possibile.
I beni, pertanto, mantengono ciascuno i propri identificativi che ne hanno consentito l’individuazione e la successiva iscrizione in atti, con le titolarità di competenza.

Diviene, invece, possibile la fusione fiscale.
A tal fine, per procedere alla fusione fiscale dei due beni, che di fatto, dopo i necessari lavori di adeguamento, costituiscono una nuova ed unica unità immobiliare, il professionista incaricato deve redigere due dichiarazioni di variazione distinte, con causale “5-altre”, in luogo della fusione, così come espressamente indicato anche nella Circolare n. 27/E 2016, citata nel quesito.
Mediante ciascuna dichiarazione di variazione ogni porzione è iscritta autonomamente in banca dati con causale di presentazione “5 - Altre”, nel cui campo descrittivo è riportata la dizione “DICHIARAZIONE DI PORZIONE DI U. I.”. Ai fini del classamento, ad entrambi i beni è attribuita la categoria e classe più appropriata, considerando le caratteristiche proprie dell’unità immobiliare intesa nel suo complesso (cioè derivante dalla fusione di fatto delle due porzioni), mentre la rendita di competenza viene associata a ciascuna di dette porzioni, in ragione della relativa consistenza. Nel riquadro “Note relative al documento” è posta la dizione “Porzione di u. i. u. unita di fatto con quella di Foglio xxx Part. yyy Sub. zzzz. rendita attribuita alla porzione di u.i.u. ai fini fiscali”.
L’Ufficio, immediatamente dopo l'inserimento agli atti delle dichiarazioni, provvede – mediante l’applicazione interna “Funzioni d’ausilio” - ad inserire, come annotazione relativa alla U.I.U., la citata dizione “Porzione di u. i. u. unita di fatto con quella di Foglio xxx Part. yyy Sub. zzzz. Rendita attribuita alla porzione di u.i.u. ai fini fiscali”, per ogni porzione di immobile iscritta autonomamente in atti.
Quindi, l’unità immobiliare X si unisce ai fini fiscali all’unità immobiliare Y, e può non essere soggetta all'IMU/TASI nel caso che sia l'abitazione principale e fruire dell’agevolazione “prima casa” se l’immobile risultante dall’unione di fatto non sia delle categorie catastali A/1, A/8 o A/9.
L’unione ai fini fiscali rende, quindi, possibile fruire delle agevolazioni fiscali di cui si è detto anche in assenza di una fusione catastale degli immobili.
È evidente, invece, che la stessa non è sufficiente ai fini delle iscrizioni anagrafiche, posto che l’unione ha effetto solo ai fini fiscali e la fusione catastale vera e propria non è possibile per effetto della disomogeneità dei diritti reali sugli stessi gravanti.

Si ritiene, quindi, che l’indicazione data dall’Ufficio Anagrafe del Comune trovi il proprio fondamento in queste considerazioni e che, proprio per questo, sia stata suggerita l’unione di fatto dei due immobili al fine di poter fruire delle agevolazioni fiscali di cui si è detto, ferma restando la disomogeneità dei diritti reali che, impedisce l’effettiva fusione catastale degli immobili e, quindi, l’individuazione di un’unica residenza anagrafica del nucleo familiare.
Il problema potrebbe, tuttavia, essere risolto creando una situazione di contitolarità sui due immobili e, a tal fine, potrebbe essere opportuno avvalersi di una donazione reciproca della metà di ciascun immobile o di un negozio di permuta senza conguagli.
In questo modo, infatti, si verrebbe a determinare una situazione di contitolarità per entrambi gli immobili, derivante dal fatto che i coniugi possiedono il 50 per cento delle due unità immobiliari per effetto dell’acquisto originario ed, il restante 50 per effetto dell’atto successivo (donazione o permuta).
La situazione di contitolarità permetterebbe di richiedere la fusione catastale dei due immobili e, a quel punto, l’individuazione di un’unica residenza anagrafica del nucleo familiare.


MASSIMO B. chiede
sabato 27/07/2019 - Calabria
“Salve,
vorrei porvi un quesito circa un cambio di abitazione che dovrei affrontare a breve. Temo ci siano conseguenze penali, amministrative e tributarie a mio carico e vorrei sapere da voi se c'è qualche strada per poterne uscire. Vi racconto i fatti. il nel 2008 chiedo residenza da un comune della provincia di ...omissis.... a un comune della provincia di ...omissis.... Mi trasferisco infatti in un'abitazione in cui dimoro abusivamente. A suo tempo la toponomastica era tale che la via del comune di immigrazione era senza numero civico (ancora oggi talune abitazioni della stessa via sono ancora prive di numero civico, anche se la maggior parte sono state rinominate e numerate). Molto probabilmente non vengono inviati i vigili urbani e il trasferimento di residenza va in porto (allora la legge era molto più permissiva). Nel 2009 firmo un contratto di affitto regolarmente registrato per la stessa abitazione in cui mi ero trasferito abusivamente. Ma recedo dal contratto (affitto 4+4) nell'ottobre/novembre 2010. In un articolo del contratto si fa riferimento al fatto che debba pagare la tassa dei rifiuti (credo allora si chiamasse TARSU). In realtà non comunico nulla al comune cosentino che neppure avvia accertamenti in tal senso. Nel corso degli anni mi trasferisco sempre abusivamente presso altre abitazioni situate lungo la stessa via, sempre priva di numero civico. Non comunico questi cambi di residenza al comune né faccio iscrizioni a ruolo per alcun tipo di tassa comunale (dal momento che mi trovo in una condizione abusiva). La mia residenza rimane comunque nel comune alla via a suo tempo indicata e non vengo cancellato neppure dopo il 2014 dopo l'entrata in vigore del piano casa. Tanto è vero che quest'anno alle elezioni europee posso votare e risulto regolarmente presente nelle liste elettorali del comune. Quest'anno acquisto una prima casa, ubicata nel comune cosentino, fruendo così dei vantaggi fiscali in termini di iva e di imposta di registro.
I problemi sorgono nel momento in cui devo fare il cambio di abitazione. L'ufficio tributi chiede un titolo che attesti la mia residenza precedente (titolo che non possiedo ovviamente) e in caso contrario avvierà accertamenti a mio carico.
Quali rischi corro? Come posso rimediare alla situazione?
Grazie infinite per la risposta che potrete darmi. Resto a disposizione per l'invio di eventuale documentazione.”
Consulenza legale i 01/08/2019
Il D.L. n. 47 del 28 marzo 2014, convertito in Legge n. 80 del 23 maggio 2014, ha introdotto il cosiddetto “Piano Casa per l’emergenza abitativa”, i cui obiettivi principali erano:
  • il sostegno all’affitto a canone concordato;
  • l’ampliamento dell’offerta di alloggi popolari;
  • lo sviluppo dell’edilizia residenziale sociale.
L’art. 5 del citato decreto dispone che “Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza ne' l'allacciamento a pubblici servizi in relazione all'immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge”.
In base al testo della norma la possibilità di chiedere e ottenere la residenza (e finanche l’allacciamento alle relative utenze) è collegata non più soltanto ad una res facti (accertamento della dimora abituale nel luogo dichiarato), ma anche alla non abusiva occupazione dell’immobile in cui si dichiara di avere la residenza, stabilendo “che gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge”.

Il quesito, tuttavia, pone specificamente il tema della insussistenza ab origine di un titolo legittimo di detenzione dell’immobile in cui si risulta residenti o della sopravvenuta mancanza dello stesso successivamente all’attribuzione della residenza, per altro in un contesto in cui non era ancora entrata in vigore la nuova disciplina di cui si è detto.
Al riguardo occorre rilevare che, prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina, rilevava esclusivamente la “situazione di fatto” e, pertanto, ai fini dell’attribuzione della residenza, venivano effettuati degli accertamenti fattuali finalizzati a constatare esclusivamente l’effettiva dimora abituale nel luogo dichiarato.
Per altro, in talune situazioni, questo accertamento, rimesso alle forze di polizia municipale, veniva eseguito esclusivamente sulla base di informazioni acquisite presso vicini o conoscenti.
La nuova previsione normativa, invece, non ha più soltanto lo scopo di appurare l’effettiva presenza di un soggetto ma la legittimità della stessa in riferimento al titolo che giustifica l’occupazione dell’alloggio nel quale dice di risiedere.
La funzione anagrafica deve, quindi, essere contemperata con altri interessi, ritenuti meritevoli di uguale tutela normativa, quali quello della non abusiva occupazione degli immobili da parte di chi non disponga di un titolo idoneo.

La norma, tuttavia, prende in considerazione soltanto l’ipotesi di occupazione abusiva senza titolo al momento della richiesta iniziale della residenza, effettuata successivamente alla data di entrata in vigore della stessa.
Ne deriva, quindi, che per le richieste di attribuzione della residenza anagrafica, presentate successivamente alla data di entrata in vigore della norma, occorrerà necessariamente dimostrare l’effettiva sussistenza del titolo che giustifica l’occupazione dell’immobile all’interno del quale si dichiara di risiedere.
Nulla viene precisato, invece, in riferimento alle richieste effettuate precedentemente all’entrata in vigore della norma o a casi, come quello di specie, in cui l’occupazione abusiva, senza titolo, si è realizzata antecedentemente alla data di entrata in vigore della norma e successivamente al momento in cui il soggetto aveva comunque ottenuto l’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente in un dato comune.

Ne deriva che, per la dottrina, il legislatore del 2014 ha inteso sanzionare con la “nullità” le sole istanze anagrafiche di attribuzione della residenza, riguardanti le occupazioni sine titulo degli immobili, successive all’introduzione della norma; non anche i casi di sopravvenuta mancanza del titolo, posto che in tale ipotesi, la sanzione della nullità andrebbe a travolgere anche il periodo di tempo in cui l’interessato ha chiesto ed ottenuto l’iscrizione anagrafica in base a una occupazione di fatto dell’alloggio, posto che non era richiesto alcun titolo legittimo di detenzione dello stesso.
In questi casi, l’amministrazione potrà, quindi, avviare degli accertamenti ma, poiché l’attribuzione della residenza è avvenuta in data antecedente all’entrata in vigore del D.L. n. 47/2014, non potrà sanzionare con la nullità la residenza anagrafica in precedenza attribuita in immobile detenuto sine titulo, dato che il problema della legittima detenzione dell’immobile si è posto solo successivamente all’entrata in vigore della citata disposizione.

Per altro, se anche ciò accadesse, così come precisato dalla Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Avellino con nota Prot. n. 4032-4035/13-13/Area II del 23 febbraio 2015 ed anche dalla Risoluzione del Ministero dell’Interno n. 633 del 24 febbraio 2015, agli abusivi spetta l’iscrizione anagrafica, in base al criterio residuale del domicilio, nel registro delle persone senza fissa dimora abituale, ovvero, laddove possibile, il ripristino della precedente posizione anagrafica dell’interessato nel Comune di provenienza.
Si suggerisce, quindi, di far rilevare al responsabile dell’Ufficio Tributi, che la precedenza residenza era stata correttamente attribuita dal medesimo Comune all’indirizzo risultante anche dalla tessera elettorale sulla base di una constatazione de facto, dal momento che, sebbene si trattasse di un immobile detenuto abusivamente, in quel periodo non era stata ancora introdotta la norma di legge che esigeva la sussistenza di un legittimo titolo di detenzione dell’immobile in cui si dimorava, evidenziando, inoltre, che la stessa legge ha disposto solo in riferimento alle fattispecie successive all’introduzione della stessa e non anche per il pregresso, nel rispetto del principio di irretroattività delle norme posto dal comma 1 dell'art. 11 delle preleggi, secondo il quale la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo.

Resta il fatto che, entro i limiti di decadenza dell’azione di accertamento, potrebbe essere richiesto il pagamento di alcuni tributi (TARSU) che si rendono dovuti indipendentemente dalla legittimità del titolo di possesso dell’immobile.


Sara C. chiede
giovedì 01/03/2018 - Umbria
“Buongiorno
Scrivo perché ho bisogno di chiarimenti rispetto alla mia attuale situazione anagrafica.
Sono sposata dal 2013 in regime di separazione dei beni. Mio marito ha la residenza presso la casa di proprietà dei suoi genitori nel comune di Roma (lui non è proprietario di nessun immobile né in Italia né all’estero). Io ho la residenza presso la casa di proprietà dei miei genitori nel comune di Amelia (Umbria) sin dalla nascita. Dopo il matrimonio non ho spostato la residenza presso la residenza di mio marito benché viviamo per motivi lavorativi metà del tempo presso la sua residenza e metà del tempo presso la mia. Nel 2014 è nata nostra figlia che ha seguito la mia residenza presso la casa dei miei genitori nel comune di Amelia.
A dicembre 2017 ho acquistato la mia prima casa presso il mio comune di residenza con i benefici fiscali prima casa. Non ho ancora trasferito la mia residenza presso la nuova abitazione in quanto è stata aperta una procedura di S.C.I.A. per lavori di ristrutturazione. Ci trasferiremo tutti a vivere li non appena pronta (speriamo inizi 2019 – ditta permettendo!).
In questi anni la bambina ha frequentato asilo nido e un anno di materna privati nel comune di Roma: abbiamo sempre fatto la domanda per le strutture pubbliche ma vista la penuria di posti non è mai rientrata (se fosse rientrata avremmo trasferito subito la residenza mia e sua a Roma presso la residenza di mio marito).
Quest’anno, compiendo 4 anni rientrerà sicuramente. Noi speravamo di trasferirci nella nuova casa nel comune di Amelia prima dell’inizio della scuola a settembre 2018 e mandarla a scuola ad Amelia ma non ce la faremo e quindi abbiamo deciso di farle frequentare una materna pubblica per l’anno scolastico 2018/19 a Roma e poi trasferirci ad Amelia per l’anno scolastico successivo. Vista la situazione, lo spostamento della residenza è ormai perentorio.
Vengo quindi a tutti i miei dubbi e domande a cui fino ad ora ho avuto risposte vaghe dai vari ufficiali anagrafe:
1- Posso spostare la sola residenza della bambina presso la residenza del papà e io rimanere residente nel comune di Amelia (in attesa che anche figlia e papà mi “raggiungano” tra un anno circa)?
2- Nel caso io debba necessariamente spostare anche la mia residenza nel comune di Roma insieme a quella della bambina, ovviamente perderò i benefici IMU-TASI-TARI sulla prima casa per il tempo in cui saremo residenti a Roma, corretto?
3- Per quanto riguarda i benefici acquisto prima casa (aliquota al 2% invece che 9% sulle tasse di acquisto) perdo anche quelli se sposto la residenza a Roma e quindi sarò costretta a pagare un salasso in tasse oppure li mantengo visto che al momento del rogito io ero residente (da 33 anni) nel comune in cui ho acquistato l’immobile?
Come mi consigliate di procedere?

Sperando di essere stata esaustiva, vi ringrazio in anticipo”
Consulenza legale i 07/03/2018
L’art. 43, 2° comma del codice civile definisce la residenza come il luogo in cui la persona ha la dimora abituale.
La residenza di una persona è determinata dall’abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, che si caratterizza per l’elemento oggettivo della permanenza e per l’elemento soggettivo dell’intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali.
Il codice civile, pur stabilendo l’obbligo di coabitazione dei coniugi, non esclude che essi possano risiedere in Comuni diversi, soprattutto per motivi di lavoro.
Premessi brevi cenni al concetto di residenza , veniamo al caso concreto.

In merito alla prima domanda, se è possibile spostare la residenza della bambina presso la residenza del papà, si espone quanto segue.

Ai sensi dell’art. 7 del Regolamento anagrafico della popolazione residente ( decreto 50 maggio 1989 n. 223), “l’iscrizione nell’anagrafe viene effettuata per nascita presso il Comune di residenza dei genitori o presso il Comune di residenza della madre qualora i genitori risultino residenti in Comuni diversi”.
La residenza, pertanto, alla nascita del figlio non può che essere quella della madre.
Tuttavia, se in un momento successivo alla nascita, il figlio vive effettivamente con il padre, è ammissibile il trasferimento della residenza del minore nel luogo in cui effettivamente il figlio vive in termini di abitualità in quanto assume rilievo unicamente la situazione di fatto.
La normativa prevede che, al momento della nascita, se i genitori hanno residenza diversa, il figlio prende la residenza della mamma, ma nulla dispone, invece, per il periodo successivo alla nascita.
Sul punto il Ministero dell’Interno ha emesso la circolare n. 8 del 29 maggio 1995 con la quale ha affermato che “ La richiesta di iscrizione anagrafica, che costituisce un diritto soggettivo del cittadino, non appare vincolata ad alcuna condizione in quanto in tal modo si verrebbe a limitare la libertà di spostamento e di stabilimento dei cittadini sul territorio nazionale ,in palese violazione dell’art. 16 della Costituzione”.

Pertanto, nel caso in esame, correttamente, alla nascita, la bambina ha preso la residenza della madre.
Adesso potrebbe spostare la residenza della bambina presso quella paterna se la bambina vive effettivamente ove suo marito ha la residenza.
A nostro avviso non è necessario che anche Lei sposti la sua residenza, soprattutto se, di fatto, la bambina va a scuola nello stesso comune in cui il padre risiede e se vi è l’accordo di entrambi i genitori.

Quanto alla seconda ed alla terza domanda, precisiamo quanto segue.

Con la definizione “ prima casa” si fa riferimento al primo immobile di proprietà, acquistato da una persona fisica, destinato ad abitazione.
Perché una prima casa possa usufruire di agevolazioni fiscali, occorre la compresenza di determinati requisiti:
- l'immobile, oggetto di compravendita, deve essere un’abitazione residenziale e non di lusso;
- l'immobile deve essere ubicato nel Comune in cui l’acquirente ha già la sua residenza, o nel quale egli stabilirà la propria residenza entro 18 mesi dalla data del rogito, oppure nel Comune in cui l’acquirente lavora o studia o in cui ha sede il suo datore di lavoro.

I benefici ottenuti per la prima cada possono essere revocati qualora si riscontrino delle irregolarità:
- false dichiarazioni;
- non possedere la residenza nel comune della prima casa entro i 18 mesi previsti;
- vendere o donare l’immobile entro i 5 anni dall’acquisto e non riacquistare un’altra prima casa entro un anno.

Ai fini Imu-Tasi-Tari , per essere considerata abitazione principale è necessario il doppio requisito della “residenza anagrafica” e della “dimora abituale”. In assenza di questi requisiti, anche se l’abitazione costituisce l’unico immobile di proprietà, si dovrà pagare l’Imu e la Tasi con l’aliquota prevista dal Comune e non si potrà beneficiare più dell’esenzione prevista dal Legislatore per la c.d. prima casa.
Anche tutti gli altri benefici legati alla prima casa, si perdono in caso di cambio residenza e, quindi, quando l’immobile non viene più utilizzato come abitazione principale.

In conclusione, suggeriamo di spostare solo la residenza della bambina presso quella del padre. Riteniamo che nulla potrà essere eccepito dal Comune interessato sia in virtù della citata normativa, sia in virtù del fatto che la bambina va a scuola nello stesso Comune in cui si chiede la residenza.
In ogni caso lo spostamento della sua residenza comporterà la perdita di tutti i benefici concessi in merito alla prima casa, a nulla valendo quanto da Lei affermato, ossia che “era residente in quel Comune da 33 anni al momento del rogito”.


Antonio D. chiede
venerdì 15/12/2017 - Trentino-Alto Adige
“Gentile Avvocato
Il mio comune di residenza ha riscontrato che non vivo più a R. in Provincia di T. ed ha avviato la pratica di cancellazione dal comune
Ho inoltrato la pratica per la nuova residenza nel vecchio comune dove vive ancora mia mamma ma l'hanno respinta perché io non sono in Italia fino a febbraio.
Io sono un marittimo e per mesi rimango fuori dal paese quindi non sempre sono disponibile anagrafe del comune parla di dimora abituale quindi non possono accettare la domanda
Mia moglie e mio figlio sono iscritti all Aire e sono residenti in Marocco.
Il consolato italiano per lo stesso motivo non mi riconosce l'iscrizione. Che fare?”
Consulenza legale i 22/12/2017
L'ufficiale di stato civile è tenuto a verificare la veridicità della dichiarazione di residenza e la permanenza delle condizioni che legittimano l'iscrizione anagrafica in un determinato Comune.
Probabilmente a causa della sua protratta assenza, è risultato irreperibile durante uno o più controlli ed è stata perciò correttamente appurata la discontinuità abitativa che rende legittima la cancellazione dall'anagrafe della popolazione residente.
Ebbene, allo scopo è utile precisare che ai sensi dell'articolo 43 c. c. la residenza è il "luogo in cui la persona ha dimora abituale" e dunque se trascorre molti mesi in mare, senza fare rientro, e non si tratta di un evento episodico - seppur lungo - e stagionale, non le sarà possibile rimaner iscritto all'anagrafe della popolazione residente del Comune ove precedentemente abitava.
Tuttavia, tale condizione non è causa di alcun pregiudizio poiché potrà sempre eleggere domicilio presso un luogo dove dichiara che hanno sede principale i suoi affari ed interessi. L'art.2 della L. 1228/54 prevede che "La persona che non ha fissa dimora si considera residente nel Comune ove ha il domicilio e, in mancanza di questo, nel Comune di nascita". Quindi potrà legittimamente esercitare i diritti connessi allo status di residente nel territorio nazionale, pur non avendo fissa dimora, eleggendo un domicilio presso il luogo ove dichiara avere i propri interessi. In alternativa potrebbe esercitare i diritti connessi alla residenza presso il Comune di nascita (es. diritto di voto e diritto all'assistenza sanitaria).

Luciana V. chiede
lunedì 13/11/2017 - Friuli-Venezia
“Io e il mio compagno viviamo in due abitazioni contigue, ma indipendenti con due ingressi e due utenze distinte. A causa di una grave malattia degenerativa, il mio compagno è disabile e bisognoso di assistenza continua. Per questa ragione, anni fa, abbiamo apportato delle modifiche interne, così da rendere i due appartamenti comunicanti. Oggi, però, abbiamo un problema: le barriere architettoniche presenti ci impediscono una vita all'esterno, e il progetto sarebbe di vendere entrambe le abitazioni e comprare una casa adatta alla situazione. Vengo ora al dubbio che vorrei risolvere.
Se anagraficamente stabilissimo entrambi la residenza nel nuovo alloggio io perderei la mia pensione di reversibilità, cosa che non posso permettermi.
È possibile avere la residenza presso mio figlio, che vive solo (nello stesso comune) ed il domicilio nella nuova casa ? Grazie. Attendo istruzioni

Consulenza legale i 16/11/2017
La normativa in materia previdenziale è molto vasta. Riguardo la pensione di reversibilità le principali norme di riferimento sono contenute nella Legge n. 218/1952 così come modificata dalla Legge n.903 del 1965 e nella Legge n.335 del 1995.
Con una circolare (n.185 del 2015) l’INPS ha fornito le linee guida in materia di trattamento pensionistico ai superstiti dove, riguardo il coniuge, viene chiaramente precisato che: “Il conseguimento del diritto al trattamento pensionistico ai superstiti da parte del coniuge dell’assicurato o del pensionato deceduto non è subordinato a nessuna condizione soggettiva. Il coniuge cessa dal diritto al trattamento in parola se passa a nuove nozze”.

Pertanto, nel caso del coniuge beneficiario del trattamento, l’unico motivo che determina la cessazione del diritto alla pensione di reversibilità è il contrarre un nuovo matrimonio ( o il sottoscrivere un contratto di unione civile, disciplinato dalla L.76 del 2016).

Fatta questa breve premessa, il timore paventato nel quesito in esame di perdere detta pensione a seguito di nuova convivenza non ha ragion d’essere. Deduciamo però che la paura nasca dal recente disegno di legge (il cd. DDL povertà) che nella sua formulazione originaria prevedeva dei limiti alle pensioni di reversibilità in base all’ISEE del nucleo familiare (che si verrebbe a costituire, nel caso in esame, in ipotesi che nello stato di famiglia risulti anche il compagno dell’avente diritto alla pensione). Tuttavia, tale previsione iniziale è stata successivamente eliminata e non è infatti contenuta nel D.lgs. 147 del 2017 emesso in forza del DDL approvato.

Ciò posto, in risposta al quesito, possiamo dire che la residenza può essere tranquillamente stabilita nel medesimo indirizzo per entrambi (avente diritto alla pensione e relativo compagno) senza rischio di perdere il trattamento pensionistico.

Dario F. chiede
giovedì 10/08/2017 - Lombardia
“Buongiorno,
PREMESSA: Marito e moglie, sposati in comunione dei beni, attualmente vivono e hanno residenza in un immobile di proprietà 100% del marito (no mutuo). Dopo la nascita del loro primo figlio stanno pensando di trasferirsi, solo per i primi di vita del piccolo, in un altro comune che sia più vicino sia ai nonni materni che al posto di lavoro della mamma.
Per fare ciò vorrebbero comprare un appartamento in un comune diverso da quello dove hanno attualmente la residenza ma senza vendere la casa dove attualmente risiedono.

La domanda è la seguente: nel caso in cui soltanto la moglie cambi la residenza entro i 18 mesi dall'acquisto del nuovo immobile, sussistono le condizioni per usufruire delle agevolazioni "prima casa" su questo nuovo immobile acquistato? E il marito può continuare ad usufruire delle agevolazioni prima casa su quella già in suo possesso in altro comune, nella quale manterrebbe tra l'altro la residenza anagrafica?
Grazie anticipatamente.”
Consulenza legale i 17/08/2017
La situazione prospettata è quella di due coniugi in regime di comunione dei beni ex art. 159 c.c., uno dei quali, il marito, ha già acquistato, prima del matrimonio, un immobile con le agevolazioni prima casa, destinato, dopo il matrimonio, ad abitazione di entrambi i coniugi.
L’acquisto di questo immobile prima del matrimonio, pur a seguito del successivo instaurarsi del regime di comunione legale, è condizione necessaria ai fini della esclusiva proprietà dello stesso da parte del marito, ciò che viene correttamente osservato nel quesito.

In linea di principio, così come precisato nell’art. 1 della Tariffa, nota II bis del d.P.R. n. 131/1986, le agevolazioni prima casa si applicano a condizione che l’acquirente non sia titolare, esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione situata nel comune in cui è situato l’immobile da acquistare; ovvero, non sia titolare, neppure per quote o in comunione legale con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione di altra casa di abitazione ovunque situata acquistata con l’agevolazione per la prima casa.
Dal 1° gennaio 2016, è comunque possibile applicare l’aliquota ridotta se l’acquirente aliena l’altra casa di abitazione che impedisce l’agevolazione, entro un anno dall’atto di acquisto, così come disposto dall’art. 1, comma 55, della legge n. 208/2015.

L’avere effettuato, in precedenza, un acquisto agevolato della casa di abitazione, non esclude, quindi, l’ottenimento ulteriore dei benefici soltanto nei casi in cui:
  • al momento del nuovo acquisto, o entro un anno dallo stesso, non si è più titolari dei diritti su un precedente immobile agevolato, in quanto, ad esempio, è stato alienato;
  • il precedente acquisto è avvenuto a titolo gratuito, per successione o donazione, ad esclusione delle donazioni relative al periodo compreso tra il 25 ottobre 2001 ed il 28 novembre 2006, assoggettate ad imposta di registro con l’agevolazione prima casa.

Stando così le cose, si potrebbe pensare che, nel caso di specie, dovrebbe negarsi la possibilità di effettuare il nuovo acquisto con le agevolazioni per la prima casa dal momento che le stesse sono state già fruite per un precedente immobile, situato nel territorio nazionale, ancora di proprietà del marito, all’atto del nuovo acquisto e sul quale, comunque, lo stesso intende mantenere i propri diritti.
Tuttavia, si ritiene che la soluzione al quesito debba essere data tenendo conto delle indicazioni fornite dall’Amministrazione Finanziaria con la Circolare AE n. 58/E del 12 agosto 2005 in cui viene precisato quanto segue.

Nell’ipotesi in cui uno solo dei due coniugi (in regime di comunione di beni) possegga i requisiti soggettivi per fruire dell’agevolazione “prima casa” (in quanto, ad esempio, l’altro prima del matrimonio abbia acquistato un’abitazione avvalendosi di detta agevolazione) si ritiene che il beneficio fiscale sia applicabile nella misura del 50 per cento, ossia limitatamente alla quota acquistata dal coniuge in possesso dei requisiti richiesti per avvalersi dell’agevolazione “prima casa”.
La conclusione sopra rappresentata trova conferma anche nella pronuncia della Corte di Cassazione n. 8502 del 26 settembre 1996, laddove si afferma che: “...un beneficio fiscale collegato a requisiti attinenti alla persona dell’acquirente, non può essere, in via generale, per il caso di acquisto in comproprietà, riconosciuto o negato per l’intero in ragione della sussistenza o insussistenza di tali requisiti con riferimento ad uno o alcuni dei compratori. In carenza di disposizioni che espressamente stabiliscano l’unicità del trattamento tributario (...) si deve fare riferimento all’indicata natura della comproprietà indivisa e quindi si deve accertare per ogni acquirente ed in relazione alla sua quota, la presenza o meno dei presupposti dell’agevolazione”.
Detto principio è stato affermato dalla Suprema Corte anche nelle sentenze del 4 aprile 1996, n. 3159 e del 21 giugno 2001,n. 8463.

In definitiva, l’acquisto di un appartamento da adibire ad abitazione principale da parte di un coniuge che si trovi in regime di comunione legale comporta l’applicazione nella misura del 50 per cento dell’agevolazione “prima casa” qualora l’altro coniuge non sia in possesso dei requisiti necessari per fruire del predetto regime di favore.

Se uno dei coniugi ha già fruito dell’agevolazione de qua in relazione ad un immobile acquistato prima del matrimonio ovvero in regime di separazione dei beni (situazioni che permettono di escludere la comproprietà), l’altro coniuge, quello che non ha fruito dell’agevolazione in esame, in presenza delle condizioni stabilite dalla nota II-bis) all’articolo 1 della tariffa, parte prima, del richiamato Testo Unico Registro, in relazione alla quota a lui attribuita, può beneficiare del regime di favore per l’acquisto in comunione legale di una casa di abitazione non di lusso.

Si ricorda, altresì, che:
  • ai fini civilistici non sussiste la necessità che entrambi i coniugi intervengano nell’atto di trasferimento della casa di abitazione per acquisirne la comproprietà, in quanto il co-acquisto si realizza automaticamente ex lege;
  • ai fini fiscali, invece, per ottenere l’agevolazione c.d. “prima casa” sull'intero immobile trasferito viene espressamente previsto che entrambi i coniugi devono rendere le dichiarazioni previste alla lettera b) (assenza di altri diritti reali vantati su immobili ubicati nello stesso comune) e c) (novità nel godimento dell'agevolazione) della nota II-bis del Testo Unico Registro.

In merito alla dichiarazione prevista dalla lettera a) della predetta nota (ossia che “l’immobile sia ubicato nel territorio del comune in cui l’acquirente ha o stabilisca entro diciotto mesi dall’acquisto la propria residenza o, se diverso, in quello in cui l’acquirente svolge la propria
attività ...) si ritiene, in conformità ad una recente pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza 8 settembre 2003, n. 13085), che l’agevolazione compete, nei limiti del 50 per cento, anche se uno solo dei coniugi abbia reso la predetta dichiarazione.

Concludendo, quindi, il nuovo acquisto potrà essere effettuato usufruendo delle agevolazioni per la prima casa solo limitatamente al 50% imputabile alla moglie, dal momento che il marito ha già in precedenza effettuato l’acquisto di un immobile per il quale ha già fruito delle medesime agevolazioni e su cui intende mantenere i propri diritti.
Ai fini dell’agevolazione, solo la moglie renderà la dichiarazione di cui alla lettera a) della nota II bis dell’art. 1 della Tariffa di cui al d.P.R. n. 131/86.

Giorgio Z. chiede
giovedì 23/02/2017 - Lombardia
“Residenza-Unione civile tra persone dello stesso sesso.QUESITO:
Prossimamente io ed il mio compagno vorremmo unirci civilmente, io risiedo nel Comune A (titolare di immobile prima casa), lui Comune B.Vorremmo tenere separate le residenze in quanto prossimamente i suoi genitori gli forniranno i soldi per l'acquisto Immobile prima casa che acquisterà nel comune C. È permesso dalle legge avere 2 residenze fiscali e una residenza per la famiglia che si andrà a formare ?...o come fare?? grazie”
Consulenza legale i 27/02/2017
Le unioni civili sono possibili nel nostro ordinamento soltanto dal 5 giugno scorso, giorno in cui è entrata in vigore la c.d. legge Cirinnà (20/5/2016 n. 76), che ne ha regolamentato l’esistenza sotto il profilo giuridico. Di fatto, le unioni civili tra persone dello stesso sesso sono del tutto equiparabili al matrimonio regolamentato dal codice civile, e ne sono indice i svariati riferimenti ad articoli dello stesso in tema, ad esempio, di impedimenti all’unione civile (art. 87 c.c.), errore (artt. 122 e ss. c.c.), simulazione (art. 123 c.c.), matrimonio c.d. putativo (artt. 128, 129 e 129 bis c.c.).

Al comma 11 dell’art. 1 della legge n. 76/2016, il legislatore afferma testualmente i diritti e i doveri delle parti: “Con la costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall'unione civile deriva l'obbligo reciproco all'assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni”, che ricalca in buona parte l’art. 143 c.c.

Tutto ciò premesso, la legge sancisce esclusivamente l’obbligo di coabitazione, che non equivale all’obbligo della medesima residenza formale. È pur vero che – di fatto – andrete a vivere insieme e pertanto lo stato di fatto non coinciderebbe con quello dichiarato all’anagrafe e – mantenendo le residenze separate – non risulterete nemmeno nel medesimo stato di famiglia.

È bene sottolineare che la residenza deve necessariamente corrispondere ad uno stato di fatto. Il TAR Lazio ha affermato testualmente che “la residenza di una persona è determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, ossia dall'elemento obiettivo della permanenza in tale luogo e dall'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, rilevata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali” (TAR Lazio, 08/04/2015, n. 321). E nello stesso senso il TAR Basilicata: “la prova della residenza può esser fornita con ogni mezzo, anche indipendentemente dalle risultanze anagrafiche o in contrasto con esse, atteso che queste ultime hanno valore meramente presuntivo, essendo la residenza della persona determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un dato luogo” (TAR Basilicata, 20/4/2011 n. 220).

Se il problema è dato dalle agevolazioni prima casa, e visto che – pare di capire – l’immobile che il Suo compagno andrà ad acquistare sarà in un comune diverso sia rispetto a quello di residenza sia rispetto a quello – diciamo – di convivenza, è bene ricordare che la legge sancisce la decadenza dalle agevolazioni suddette qualora l’acquirente non abbia o non trasferisca la sua residenza nel comune dove si trova l’immobile entro 18 mesi dall’acquisto (testualmente “l’abitazione deve essere situata nel territorio del comune in cui l’acquirente ha o stabilisca entro 18 mesi dall’acquisto la propria residenza, oppure nel territorio del comune in cui egli svolge la propria attività o, se trasferito all’estero per ragioni di lavoro, in quello in cui ha sede o esercita l’attività il soggetto da cui dipende”).

In altre parole, pertanto, nulla osta al mantenimento di due residenze separate (anche se in ogni caso non è consigliabile, stante il dovere di coabitazione e stante l’obbligo giuridico di dichiarare il vero e della necessaria corrispondenza tra stato di fatto e dichiarazioni anagrafiche). Per usufruire delle c.d. agevolazioni prima casa, però, il suo compagno dovrà necessariamente trasferire la propria residenza nel comune ove sorge l’immobile che intenderà acquistare. Purtroppo non vi sono altre soluzioni “pratiche” che permettano di soddisfare tutte quante le diverse (e inconciliabili) esigenze.

Si precisa che non esiste una "residenza familiare" diversa e ulteriore alla normale "residenza personale". La residenza è riferita solo ed esclusivamente a ciascun singolo soggetto persona fisica, e non al nucleo familiare nella sua globalità o ad altri agglomerati sociali compositi.



Maurizio R. chiede
giovedì 16/02/2017 - Piemonte
“Se una persona lascia fisicamente l'immobile in cui aveva la residenza, causa vendita del medesimo, può continuare a dichiarare la vecchia residenza anche se non più effettiva, soprattutto in atti pubblici ecc.? E se sì, per
quanto tempo?”
Consulenza legale i 22/02/2017
La risposta è purtroppo negativa.

La residenza è il luogo della dimora abituale (art. 43 cod. civ.: “La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale”), ovvero il luogo – in buona sostanza – dove la persona vive stabilmente e la legge richiede che essa sia effettiva.
Ciò non significa, si noti bene, che debba essere continuativa (l’allontanamento dalla stessa per un periodo più o meno breve e per le più svariate ragioni non rileva), ma deve sicuramente essere corrispondente ad uno stato di fatto: “La residenza di una persona è determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, ossia dall'elemento obiettivo della permanenza in tale luogo e dall'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, rilevata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali; pertanto, qualora la residenza anagrafica non corrisponda a quella di fatto, è di questa che bisogna tener conto con riferimento alla residenza effettiva, quale si desume dall'art. 43 c.c., e la prova della sua sussistenza può essere fornita con ogni mezzo, indipendentemente dalle risultanze anagrafiche o in contrasto con esse.” (T.A.R. Latina, (Lazio), sez. I, 08/04/2015, n. 321).

La compravendita dell’immobile presso il quale si era stabilita inizialmente la residenza determina (ciò perlomeno è quanto accade nella normalità dei casi) il venir meno del requisito dell'abitualità della dimora.
Si precisa, a tale ultimo proposito, che la simultanea residenza di più persone nel medesimo luogo non è vietata: se il cittadino, infatti, o il nucleo familiare si trasferisce in un’abitazione che risulti già essere residenza di un’altra persona o di un altro nucleo familiare, è sufficiente che la dichiarazione con cui si richiede il mutamento di residenza sia sottoscritta anche da tale persona o da un componente maggiorenne di tale nucleo familiare.
Se tuttavia, come pare di capire accada nel caso di specie, la persona o il nucleo familiare trasferiti non sono affatto conviventi con altro soggetto o nucleo familiare, la residenza simultanea – inesistente nella realtà - non sarà possibile neppure a livello formale (nelle dichiarazioni anagrafiche).

La legge prevede che in caso di trasferimento in una nuova abitazione debba essere presentata presso l’ufficio anagrafico competente (di persona oppure via fax o via e-mail) un’istanza con cui si richiede di attestare la variazione della residenza. E questo entro 20 giorni dal trasferimento stesso.
La legge obbliga quindi l’ufficiale anagrafico a verificare la sussistenza del requisito della abitualità della dimora di chi richiede l’iscrizione nell’anagrafe del comune. Gli accertamenti sono svolti dal corpo di polizia municipale o da altro personale comunale a ciò autorizzato ed i controlli devono essere effettuati nei 45 giorni successivi alla dichiarazione resa o inviata nei modi previsti dalla legge.
Nel caso in cui dagli accertamenti anagrafici emergano discordanze con la dichiarazione resa da chi richiede l’iscrizione anagrafica, l’ufficiale dell’anagrafe è tenuto a segnalare quanto è emerso dalle indagini svolte alla competente autorità di pubblica sicurezza.

La dichiarazione inesatta/falsa sulla residenza, a maggior ragione (per rispondere al quesito sul punto) se contenuta negli atti pubblici, integra il reato di cui all’art. 495 c.p., ovvero falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri: “Chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona è punito con la reclusione da uno a sei anni.
La reclusione non è inferiore a due anni:
1) se si tratta di dichiarazioni in atti dello stato civile; (…)”.

In caso di falsa dichiarazione resa dal cittadino, riscontrata in fase di controllo, la procedura prevede infatti la denuncia alla Procura della Repubblica (DPR 445/2000 art. 76) per l’accertamento dei reati previsti dal codice penale in materia – appunto - di rilascio di false dichiarazioni, formazione ed uso di atti falsi nonché all’autorità di Pubblica sicurezza ai sensi del regolamento anagrafico (D.P.R. 223/1989).

Luigi S. chiede
lunedì 07/11/2016 - Lombardia
“Siamo marito e moglie in divisione dei beni, il marito è proprietario della casa in cui viviamo. Abbiamo acquistato una casa al mare al 50% di proprietà, quindi per il marito risulta seconda casa, la moglie vorrebbe usufruire delle agevolazioni prima casa. Possiede tutti i requisiti e deve trasferire la residenza entro 18 mesi. Vorrebbe eleggere quale domicilio l'attuale residenza posta in altro comune distante 200 km, dove si trova la sede del lavoro. Quale la procedura di trasferimento della residenza? Il comune dove abbiamo acquistato casa ci pone problemi in quanto per concedere la residenza pretende il trasferimento dell'intera famiglia potendo così di fatto determinare la dimora abituale. E' possibile ottenere la residenza per l'agevolazione prima casa dichiarando domicilio in altra casa dove vive la famiglia? Quali le possibili soluzioni?”
Consulenza legale i 14/11/2016
Non è chiaro, in effetti, a cosa si riferisca il Comune quando pretende il trasferimento della residenza dell’intera famiglia.

Ad un primo sommario esame della questione, parrebbe in effetti che il Comune possa far riferimento ad un orientamento giurisprudenziale in forza del quale – benché non sia necessaria la medesima residenza “anagrafica” dei coniugi ai fini della concessione delle agevolazioni fiscali in commento – dovrà comunque richiedersi la comune residenza “effettiva", o meglio l’effettiva residenza (nel senso di dimora) dell’intera famiglia, benché non necessariamente nell’immobile oggetto di acquisto, quantomeno in un immobile situato all’interno del medesimo Comune del primo (sul punto, tra le tante pronunce, si veda la recente Cassazione n. 13334 del 28/6/2016).

Tale orientamento, tuttavia, vale esclusivamente per gli acquisti dei coniugi effettuato in regime di comunione dei beni, mentre – in forza proprio della giurisprudenza in materia - vanno nettamente distinti i ragionamenti da farsi nel caso in cui l’acquisto venga effettuato in regime di separazione dei beni.

Si riporta, a tal proposito, di seguito, ampio stralcio di Cassazione civile, sez. VI, 17/12/2014, n. 26653, che chiarisce molto bene la soluzione del quesito: “Giova ricordare che questa Corte, a partire da Cass. n. 14237/2000, superando un diverso indirizzo espresso d Cass. n. 3159/1996 e poi ribadito da Cass. n. 8463/2001, ha riconosciuto il diritto al beneficio fiscale correlato all'acquisto di prima casa anche al coniuge che, acquistato un bene in regime di comunione legale, non avesse trasferito la propria residenza nel comune ove il bene si trova purché in tale comune risiedesse il nucleo familiare. Per giungere a tale conclusione si è sottolineato come "...il coniuge, che pur acquistando un bene permette che questo bene ricada nella comunione legale non compie un atto di riconoscimento patrimoniale, non dichiara implicitamente che metà del denaro utilizzato è di proprietà del consorte, né acquista in nome e per conto del coniuge. E colui che diviene proprietario di metà del bene a seguito di un atto compiuto dal coniuge - presumibilmente con denaro proprio - non è acquirente del bene stesso, ma lo riceve per volontà della legge. Di conseguenza non è tenuto al possesso dei requisiti posti dalle disposizioni sulle agevolazioni tributarie prima casa" (…).
A tale giustificazione, questa Corte è andata nel tempo aggiungendo l'ulteriore profilo che "... i coniugi non sono tenuti ad una comune residenza anagrafica, ma reciprocamente alla coabitazione (art. 141 c.c.) quindi una interpretazione della legge tributaria (che del resto parla di residenza e non di residenza anagrafica) conforme ai principi del diritto di famiglia porta a considerare la coabitazione con il coniuge acquirente come elemento adeguato a soddisfare il requisito della residenza ai fini tributari". (Cass. n. 15426/2009).
Sviluppando quest'ultima argomentazione, questa stessa Corte ha così riconosciuto la possibilità di fruire del beneficio fiscale in esame anche in caso di acquisto di bene, caduto in comunione, quando l'acquirente non trasferisca la residenza nel comune ove il bene si trova, ma ivi risulti residente la famiglia.
In questa prospettiva si è affermato - Cass. n. 2109/2009- che "...il requisito della residenza va riferito alla famiglia, per cui, ove l'immobile acquistato sia adibito a residenza della famiglia, non rileva la diversa residenza del coniuge di chi ha acquistato in regime di comunione... e che quella che conta, allora, non è tanto la residenza dei singoli coniugi, quanto quella della famiglia (…).

Ora, come emerge dai precedenti richiamati, tali principi sono stati pur sempre espressi da questa Corte in ipotesi di acquisto del bene in regime di comunione legale, per l'appunto chiarendosi che "....ai fini della fruizione dei benefici fiscali in questione, il requisito della residenza nel Comune in cui è ubicato l'immobile debba essere riferito alla famiglia, con la conseguenza che, in caso di comunione legale tra coniugi, quel che rileva è che l'immobile acquistato sia destinato a residenza familiare, mentre non assume rilievo in contrario la circostanza che uno dei coniugi non abbia la residenza in tale Comune, e ciò in ogni caso in cui il bene sia divenuto oggetto della comunione ex art. 177 c.c., quindi sia in caso di acquisto separato che in caso (come nella fattispecie) di acquisto congiunto del bene stesso". -Cass. n. 2109/2009 cit. ; id. Cass. n. 16355/2013-.

Orbene, il senso dell'indirizzo appena espresso - condiviso dalla circolare Ag. Entrate n. 38/E 12 agosto 2005 - è certamente quello di valorizzare il concetto di residenza familiare solo nelle ipotesi in cui l'acquisto sia caduto in comunione legale - istituto che, all'evidenza, offre tutela alla famiglia laddove garantisce al coniuge che anche non dovesse partecipare finanziariamente all'acquisto una tutela piena che si misura sulla comproprietà pro indiviso (…)
Ciò val quanto dire che non sembra possibile estendere il ragionamento appena esposto al caso dell'acquisto non in regime di comunione legale da parte di uno dei coniugi che, come noto, produce effetti esclusivi nei confronti del soggetto acquirente il quale, per l'effetto, non può beneficiare del requisito della residenza familiare proprio perché il bene non ricade nel regime di comunione legale e, dunque, non costituisce il sostrato patrimoniale della famiglia, rimanendo nella esclusiva sfera giuridica del proprietario acquirente.
In definitiva, l'acquisto operato dal coniuge in via esclusiva risponde alle esigenze primarie del contribuente che, scegliendo il regime di separazione, implementa esclusivamente il proprio patrimonio. In quest'ottica non può ritenersi che la disciplina fiscale possa attribuire rilevanza ad un elemento fattuale - residenza familiare - correlato a situazione estranea allo stesso acquirente, riguardante invece la di lui famiglia. Così ragionando sarebbe (inammissibilmente) possibile legittimare atteggiamenti elusivi finalizzati all'unico perseguimento di un vantaggio fiscale, non correlato alla salvaguardia della famiglia che vede i coniugi in regime di comunione legale.
(…) Ciò che, all'evidenza, non significa in alcun modo escludere la rilevanza sociale che il concetto di famiglia, nell'accezione lata che va emergendo anche per effetto di cogenti strumenti normativi sovranazionali, è andato assumendo nell'attuale contesto storico, ma semplicemente riconoscere che la finalità dell'indirizzo da questa Corte espresso è stato rivolto a favorire la famiglia titolare di una particolare forma di protezione voluta dal legislatore attraverso la disciplina in tema di comunione legale.
(…) Ribadito, peraltro, che alcuna rilevanza giuridica può essere riconosciuta alla realtà fattuale diversa da quella risultante dai registri anagrafici (…)”.

In conclusione, si potrà tranquillamente trasferire la residenza presso il nuovo immobile e mantenere la dimora abituale della famiglia presso il “vecchio” immobile di proprietà esclusiva dell’altro coniuge.

Pietro C. chiede
domenica 12/06/2016 - Lazio
“OGGETTO: Chiarimenti sul concetto più ampio di abitazione principale, distinta dal concetto comune di seconda casa; ossia quella dove non si ha il domicilio, la residenza e la dimora abituale.

Viviamo in un appartamento composto da due abitazioni ( cat. A3) contigue di 55 mq ciascuno, acquistate tutte e due come prima casa; attraverso l’apertura di un tramezzo (50 anni fa circa) 2 m. x 80 cm, che divideva i due appartamenti, formando una unica abitazione. Abitazioni dove abbiamo domicilio, la residenza anagrafica e la dimora abituale.
Le due abitazioni attigue sono intestate a mia moglie, l’opportunità di ampliamento era necessaria, perché formandosi nel tempo una famiglia di cinque persone, in 55 mq non era possibile viverci. Con un debito e sacrifici non indifferenti, e, vista l’opportunità che ci si presentava con il vicino che lasciava l’appartamento e si trasferiva in altra zona, l’abbiamo preso con l’intenzione di formare un unica abitazione.
Le tasse, prima dell’introduzione del IMU erano sopportabili, pur avendo due unità le agevolazioni cadevano solo su una, oggi non è più così.
l’Agenzia delle Entrate per le nuove norme imposte, non riconosce come prima casa la “particella aggiunta” per ampliarla. Il codice civile indica espressamente che per “prima casa” si intende dove il proprietario: “ ha il domicilio, la residenza e nel luogo in cui ha la dimora abituale” fino a prova contraria. Pur avendo tutti i requisiti, vivendoci dentro con i figli ormai sposati, che spesso dobbiamo ospitare, i nipoti che vanno all’università e quando non possono tornare a casa per tanti motivi abitando la famiglia fuori Roma, vengono a mangiare e dormire da noi.
Il diritto sembra che lo abbiamo ai fini fiscali, ma non ci sono norme precise al riguardo per i Comuni, nessuna strada viene indicata dalle norme per ottenere questa agevolazione senza spendere soldi chiesti per unirle, il Comune di Roma non da istruzioni sull’IMU su casi del genere. Viviamo di pensione, visto che ora è una somma consistente da pagare, che assottiglia sempre di più il reddito, che non si sopporta più tale tassa, si chiede come usufruire dei benefici fiscali.
Se l’obiettivo del governo è la riduzione del carico fiscale su un bene primario quale è l’abitazione, come è stato concesso per le case in comodato d’uso, credo che chi ci abita, qualche diritto in più di agevolazioni gli spettano “ essendo prima casa “?
Un cavillo burocratico ( le particelle non griffate )complica le cose e lo impedisce.
Domanda: se prendo la residenza io come coniuge nella seconda casa acquistata, avrò un beneficio fiscale? o devo far finta di separarmi? cosa mi consigliate?
Vi ringrazio della risposta

Consulenza legale i 23/06/2016
La questione è molto semplice: l’imposizione fiscale si basa sui dati catastali e non sulla situazione di fatto. Pertanto, per il fisco, risultando in Catasto due subalterni diversi, esistono due unità abitative e non può essere che un soggetto (nel caso di specie, la moglie, cui sono intestate entrambe) abbia la propria abitazione principale - intesa come dimora abituale ai sensi dell'art. 43 c.c. - in due immobili diversi.

A nulla rileva, come già detto, che di fatto gli spazi siano unitari a motivo dell’abbattimento del tramezzo, perché formalmente la situazione è quella che risulta dai registri pubblici e l’imposizione fiscale si basa sui dati formali (e d’altra parte non potrebbe essere altrimenti, per esigenze di certezza del diritto e di pubblicità).

Neppure sarebbe possibile l’acquisto, da parte del marito, della seconda unità abitativa con trasferimento della residenza (soluzione, questa, che comunque comporterebbe delle spese fiscali e notarili non indifferenti): infatti, poiché negli anni scorsi molti coniugi adottavano questa soluzione per aggirare l’imposizione fiscale più onerosa per la seconda casa, a seguito del nutrito contenzioso in materia, il legislatore è intervenuto ponendo limiti ben precisi e regolamentando anche casi come quello in esame.

Per l’abitazione principale, ai fini IMU, il Decreto Legge n. 201/2011 prevede espressamente la seguente definizione: “l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l'abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile”.

La finalità della norma è, quella, lo si ripete, di evitare che i coniugi, separando la loro residenza anagrafica in due diversi immobili, potessero usufruire per entrambi delle agevolazioni “prima casa” nell’ambito dello stesso comune, prassi di fatto molto frequente negli anni passati ai fini ICI.

Anche il Ministero dell’Economia e delle Finanze si è occupato delle questione con la circolare n. 3/DF del 18 maggio 2012, precisando che, anche in presenza di due unità immobiliari accatastate separatamente in catasto ma di fatto utilizzate come un’unica abitazione (ad esempio perché contigue – come nel caso che ci occupa), non è possibile usufruire per entrambe dell’agevolazione prima casa a meno che non si provveda al loro accatastamento unitario.
La medesima Circolare ha chiarito, altresì, che nel caso in cui due coniugi stabiliscano la loro residenza e dimora abituale in due immobili ubicati in due diversi comuni sarà possibile usufruire per entrambi delle agevolazioni prima casa qualora non si tratta di una mera operazione “elusiva” ma, al contrario, sia motivata da un’effettiva e reale necessità (ad esempio trasferimenti per motivi di lavoro).
Come si vede, non c’è altra soluzione, per risparmiare le imposte, che procedere con un accatastamento unitario.

Antonio D. S. chiede
martedì 07/06/2016 - Campania
“Ho comprato un vecchio appartamento, da ristrutturare, per mia figlia in un comune diverso da quello attuale di residenza.
Nell'atto di acquisto vi è una clausola che le impone il cambio di residenza entro 18 mesi.
Essendomi venuta a mancare la possibilità di ultimare la ristrutturazione per cause di forza maggiore, mi è impossibile farle il cambio di residenza. Cosa devo fare?”
Consulenza legale i 15/06/2016
La clausola contrattuale cui si fa riferimento nel quesito è quasi sicuramente quella relativa ai benefici fiscali per l’acquisto della cosiddetta “prima casa” (ovvero l’immobile da adibire ad abitazione principale).

In definitiva, tali ultime agevolazioni fiscali si acquistano (nel caso di primo acquisto) o si mantengono (nel caso di trasferimento da una “prima casa” ad un altro immobile sempre destinato ad abitazione principale) qualora si trasferisca, appunto, la propria residenza nel Comune dove è situato l’immobile entro 18 mesi dall’acquisto.

Il quesito, sotto questo profilo, non fornisce molte informazioni (occorrerebbe visionare il contratto): nel caso, infatti, si tratti – come è lecito presumere, dal momento che nell’atto è stata inserita la clausola in commento - di acquisto della “prima casa” o comunque di trasferimento da una “prima casa” ad una nuova abitazione principale, il mancato cambio di residenza entro il termine non inficia, evidentemente, la validità del negozio (per cui la compravendita rimane valida ed efficace) ma semplicemente comporta la perdita dei benefici fiscali.
A tal proposito si riassumono di seguito, brevemente, le condizioni di legge per i suddetti benefici.
Nell’atto di acquisto il compratore deve dichiarare:

- di non essere titolare, esclusivo o in comunione col coniuge, di diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione, su altra casa nel territorio del Comune dove si trova l’immobile oggetto dell’acquisto agevolato;

- di non essere titolare, neppure per quote o in comunione legale, su tutto il territorio nazionale, di diritti di proprietà, uso, usufrutto, abitazione o nuda proprietà, su altro immobile acquistato, anche dal coniuge, usufruendo delle agevolazioni per l’acquisto della prima casa.
Le agevolazioni ottenute quando si acquista un’abitazione con i benefici “prima casa” possono essere perse, con la necessità di versare le imposte “risparmiate”, gli interessi e una sanzione pari al 30% dell’imposta stessa. Questo può accadere se:

- le dichiarazioni previste dalla legge nell’atto di acquisto sono false;

- l’abitazione è venduta o donata prima che siano trascorsi cinque anni dalla data di acquisto, a meno che, entro un anno, non si riacquista un altro immobile, anche a titolo gratuito, da adibire in tempi “ragionevoli” a propria abitazione principale.

- non venga trasferita la residenza nel Comune ove è situato l’immobile entro diciotto mesi dall’acquisto.
Purtroppo non c’è modo di evitare le conseguenze fiscali e le sanzioni del mancato trasferimento di residenza entro il termine.

G. chiede
lunedì 02/05/2016 - Puglia
“A miei genitori è contestato dal INPS:
di non avere residenza effettivamente ed abitualmente in Italia per più di un anno.
In questo modo e stato bloccato pagamento del assistenza sociale. In più anche rimborso della assistenza percepito in precedenza.
Che documentazione o fatto posso presentare , se si può, per dimostrare al contrario.
grazie.”
Consulenza legale i 09/05/2016
Con riferimento al concetto di residenza, la Giurisprudenza ha da tempo distinto tra l'elemento oggettivo - rappresentato dalla oggettiva stabile permanenza in un determinato luogo - e l'elemento soggettivo - rappresentato dalla volontà di rimanere in quel determinato luogo - della stessa, in particolare: "la residenza di una persona è determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, ossia dall'elemento obiettivo della permanenza in tale luogo e dall'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, rilevata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali; pertanto, qualora la residenza anagrafica non corrisponda a quella di fatto, è di questa che bisogna tener conto con riferimento alla residenza effettiva, quale si desume dall'art. 43 c.c., e la prova della sua sussistenza può essere fornita con ogni mezzo, indipendentemente dalle risultanze anagrafiche o in contrasto con esse" (cfr. a titolo meramente esemplificativo, T.A.R. Latina, (Lazio), Sez. I, 8 aprile 2015, n. 321).
Pertanto, nel caso in cui l'Amministrazione sollevi un dubbio circa l'effettiva corrispondenza tra residenza anagrafica e residenza di fatto, il soggetto interessato può fornire la prova della residenza effettiva "con ogni mezzo", consistente in qualunque fatto univoco che evidenzi l'intenzione di rimanere in un determinato luogo.
Al fine di individuare in concreto quali siano questi fatti, la Circolare dell'Agenzia delle Entrate 2 dicembre 1997, n. 304, ha chiarito che sono indici significativi, ai fini dell'eventuale residenza fiscale:
  • la disponibilità di una abitazione permanente
  • la presenza della famiglia
  • l'accreditamento di propri proventi ovunque conseguiti
  • il possesso di beni anche mobiliari
  • la partecipazione a riunioni d'affari
  • la titolarità di cariche sociali
  • il sostenimento di spese alberghiere o di iscrizione a circoli o club
  • l'organizzazione della propria attività e dei propri impegni anche internazionali, direttamente o attraverso soggetti operanti nel territorio italiano.
Certamente, in generale, costituiscono ulteriori indici significativi ai fini dell'eventuale residenza fiscale
  • l’iscrizione ed effettiva frequenza dei figli presso istituti scolastici o di formazione in Italia
  • lo svolgimento nel Paese di un rapporto lavorativo a carattere continuativo
  • ovvero l’esercizio in Italia di una qualunque attività economica con carattere di stabilità
  • la stipula di contratti di acquisto o di locazione di immobili residenziali sottoscritti in Italia
  • fatture e ricevute di erogazione di gas, luce, telefono e di altri canoni tariffari
  • la movimentazione a qualsiasi titolo di somme di denaro o di altre attività finanziarie
  • l’eventuale iscrizione nelle liste elettorali.

Sergio C. chiede
giovedì 28/04/2016 - Lombardia
“Premessa

Una mia familiare ha residenza e abitazione in un appartamento in affitto nel Comune di M. Recentemente ha acquistato nello stesso comune di M., con mutuo prima casa, un piccolo appartamento (due vani) che prima aveva in affitto, dove svolgeva e continua a svolgere attività professionale (ambulatorio di fisioterapista e osteopata regolarmente notificato all’ASL).
L’abitazione e l’ambulatorio distano circa 200 metri, anche se ubicati in due vie diverse.

Quesito

Può trasferire la residenza nell’ambulatorio senza doverci abitare, quindi senza arredarlo come abitazione (cucina, letto, ecc.), mantenendo l’abitazione nell’appartamento che occupa in regime di affitto?”
Consulenza legale i 10/05/2016
La residenza viene definita dal codice civile come "luogo in cui la persona ha la dimora abituale" (cfr. art. 43, comma 2, del c.c.).
La Giurisprudenza è consolidata nel definire la residenza come il luogo in cui una persona ha la sua dimora abituale e volontaria: "la residenza di una persona è determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, ossia dall'elemento obiettivo della permanenza in tale luogo e dall'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, rilevata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali; pertanto, qualora la residenza anagrafica non corrisponda a quella di fatto, è di questa che bisogna tener conto con riferimento alla residenza effettiva, quale si desume dall'art. 43 c.c., e la prova della sua sussistenza può essere fornita con ogni mezzo, indipendentemente dalle risultanze anagrafiche o in contrasto con esse" (cfr. a titolo meramente esemplificativo una recente pronuncia del T.A.R. Latina, (Lazio), Sez. I, 8 aprile 2015, n. 321, che riprende testualmente l'orientamento consolidato della Giurisprudenza, per esempio cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 2 novembre 2010, n. 7730).
Ciò premesso, occorre evidenziare che, in concreto, in seguito alla istanza presentata dal soggetto interessato ad ottenere il cambio di residenza (da un Comune ad un altro Comune) o di abitazione (all'interno dello stesso Comune, quindi un cambio di indirizzo, come nel caso sottoposto alla nostra attenzione), si "attiva" il relativo procedimento amministrativo, all'interno del quale i competenti Uffici Comunali - o i soggetti da loro delegati - procedono ad effettuare le dovute verifiche della corrispondenza tra quanto dichiarato e la situazione di fatto.
Infatti, l'art. 1, comma 1, della Legge 24 dicembre 1954 n. 1228 stabilisce che "l’iscrizione e la richiesta di variazione anagrafica possono dar luogo alla verifica, da parte dei competenti uffici comunali, delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile in cui il richiedente intende fissare la propria residenza, ai sensi delle vigenti norme sanitarie".
In concreto, la Polizia Municipale o i Vigili Urbani, si recano presso l'immobile individuato nel modulo dalla parte istante, al fine di accertare che effettivamente il soggetto richiedente risieda - abbia quindi la sua dimora abituale - nell'immobile indicato nella richiesta.
E' quanto previsto dall'art. 19, comma 2, del Regolamento anagrafico della popolazione residente, contenuto nel Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223 (come modificato dall'articolo 1, comma 1, lettera a), del D.P.R. 17 luglio 2015, n. 12):
"L'ufficiale di anagrafe è tenuto a verificare la sussistenza del requisito della dimora abituale di chi richiede l'iscrizione o la mutazione anagrafica. Gli accertamenti devono essere svolti a mezzo degli appartenenti ai corpi di polizia municipale o di altro personale comunale che sia stato formalmente autorizzato, utilizzando un modello conforme all'apposito esemplare predisposto dall'Istituto nazionale di statistica".
Inoltre, l'art. 19, comma 3, del Regolamento citato, afferma che: "ove nel corso degli accertamenti emergano discordanze con la dichiarazione resa [da chi richiede l'iscrizione anagrafica], l'ufficiale di anagrafe segnala quanto è emerso alla competente autorità di pubblica sicurezza".
L'art. 56, comma 1, del Regolamento citato stabilisce che "le contravvenzioni alle disposizioni della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, ed a quelle del presente regolamento commesse dalle persone aventi obblighi anagrafici devono essere accertate, con apposito verbale, dall'ufficiale di anagrafe".
Nel caso di specie, in cui si vorrebbe trasferire la propria residenza in un immobile in cui in realtà si esercita la propria attività professionale (ambulatorio di fisioterapista e osteopata, di cui si è data regolarmente notizia alle Amministrazioni competenti), non sembra che un accertamento degli Uffici Comunali competenti possa avere un esito positivo, e quindi possa comportare l'emanazione di un provvedimento amministrativo di accoglimento della richiesta di cambio di residenza (o meglio, di abitazione).
Inoltre, l'art. 4, comma 2, della Legge 24 dicembre 1954 n. 1228 (già richiamata) stabilisce che:
"L'ufficiale d'anagrafe provvede alla regolare tenuta dell'anagrafe della popolazione residente ed è responsabile della esecuzione degli adempimenti prescritti per la formazione e la tenuta degli atti anagrafici.
Egli ordina gli accertamenti necessari ad appurare la verità dei fatti denunciati dagli interessati, relativi alle loro posizioni anagrafiche, e dispone indagini per accertare le contravvenzioni alle disposizioni della presente legge e del regolamento per la sua esecuzione.
Egli invita le persone aventi obblighi anagrafici a presentarsi all'ufficio per fornire le notizie ed i chiarimenti necessari alla regolare tenuta dell'anagrafe. Può interpellare, allo stesso fine, gli enti, amministrazioni ed uffici pubblici e privati".
Sin dalla Giurisprudenza più risalente della Corte di Cassazione "a norma dell'art. 4, comma 2, l. 24 dicembre 1954 n. 1228, sull'ordinamento delle anagrafi della popolazione residente, l'amministrazione comunale non si limita a prendere atto della dichiarazione di trasferimento della residenza del cittadino, ma ne controlla la "verità" procedendo all'accertamento della residenza anche per mezzo di proprie indagini: nè consegue che, per ottenere l'iscrizione nel registro della popolazione residente in un determinato comune, non è sufficiente la mera intenzione del cittadino, manifestata all'ufficiale d'anagrafe, di stabilire la propria residenza nel territorio del comune stesso, ma occorre l'attuazione in concreto di tale comportamento con l'instaurazione della dimora abituale nel territorio comunale, per cui la permanenza del soggetto nel luogo, anche se non deve necessariamente durare, già storicamente, da qualche tempo, deve denotare la destinazione a durare potenzialmente nel tempo" (cfr. Cassazione Civile, Sez. I, 28 maggio 1979, n. 3075).
Seppure nel caso di specie, in realtà, non sarebbe in dubbio la veridicità della effettiva residenza nel territorio del Comune (poiché si tratterebbe di un cambio di indirizzo all'interno del medesimo Comune), si ritiene che, alla luce dei poteri di verifica e di accertamento conferiti agli Uffici Comunali (sia preventivi, sia successivi all'eventuale accoglimento della domanda), non sarebbe particolarmente prudente procedere nel modo descritto, anche alla luce del fatto che è certamente noto all'Amministrazione (sia all'Amministrazione Comunale, sia all'Amministrazione finanziaria) che quel determinato immobile è adibito ad ambulatorio.
Si evidenzia, inoltre, che anche ipotizzando dovesse perfezionarsi il cambio di residenza senza intoppi, potrebbero comunque nascere contestazioni in futuro, basate sul disallineamento tra residenza anagrafica e residenza effettiva.
Infatti, come noto, la residenza "fittizia" fissata in un determinato immobile a discapito di un altro (in cui si ha la residenza di fatto), comporta conseguenze che l'Amministrazione finanziaria potrebbe avere interesse a contestare: si pensi, ad esempio, ad un accertamento per una maggiore imposta comunale sugli immobili o alla tassa sui rifiuti, il cui importo è determinato dalla residenza (effettiva) in un determinato immobile (nel caso di specie, nell'immobile in cui attualmente si ha la residenza).

Luca G. chiede
venerdì 27/11/2015 - Lombardia
“Buongiorno , volevo esporvi il mio problema , circa 8 anni fa per motivi personali ho acquistato una nuova abitazione in un altra città e con innumerevoli ostacoli da parte delle verifiche della polizia locale sono comunque riuscito ad ottenere la residenza. Premetto che mia moglie e i miei figli hanno la residenza in un'altra città dove peraltro io ho la mia attività principale di commerciante. A distanza di 8 anni mi viene notificato un avvio di procedimento di cancellazione anagrafica ai sensi dell'art.11,primo comma,lettera c )D.P.R.30-5-1989,N.223 e volevo capire se è possibile fare qualcosa in quanto a detta dell incaricato della polizia locale le uscite per i controlli sono casuali e non sono disponibili vista l'esperienza di 8 anni fa a stabilire appuntamenti.Con il mio lavoro di commerciante non ho mai orari e giorni fissi e la pretesa di dover ritornare a dormire o essere presente nel luogo di residenza a orari casuali scelti da loro mi sembra una barzelletta in quanto non mi sembra di essere agli arresti domiciliari. Premetto,vista la mia attività che ho ottenuto il porto d'armi per difesa personale che peraltro viene richiesto alla prefettura del luogo di residenza e volevo sapere nel caso mi venisse revocata la residenza come mi devo comportare?”
Consulenza legale i 04/12/2015
L'art. 11 co. 1 lett. c) D.P.R. 223/1989 disciplina il procedimento di cancellazione anagrafica per irreperibilità. Questa, a sua volta, può dipendere da diverse situazioni, delle quali qui rileva una delle prime due previste: irreperibilità a seguito delle rilevazioni del censimento generale della popolazione; irreperibilità accertata a seguito di accertamenti ripetuti ed opportunamente intervallati, cioè cancellazione per irreperibilità tout court (le altre ipotesi riguardano i cittadini stranieri).

Trattasi di procedimento amministrativo, soggetto alla disciplina di cui alla l. 241/1990.

L'iter si apre con la comunicazione dell'ufficiale dell'anagrafe di avvio del procedimento di cancellazione, ex art. 7 e 8 l. 241/1990. Essa serve, oltre che per notiziare il soggetto del procedimento stesso, per consentirgli di visionarne gli atti e di presentare memorie scritte e documenti, al fine di far valere le proprie ragioni (art. 10 l. 241/1990). In tal senso, quindi, è prevista una prima possibilità di partecipare al procedimento in corso.

Segue, quindi, una fase istruttoria, con la quale si verifica se esistono i presupposti per dichiarare l'irreperibilità. Purtroppo, è l'ufficio anagrafe che stabilisce modi e tempi degli accertamenti; di regola sceglie visite non concordate, proprio per impedire che il soggetto possa "mascherare" una situazione di non dimora abituale. In ogni caso, se il soggetto non si trova in casa durante il giorno per motivi di lavoro, potrà provare a far valere questo profilo, in modo da cercare di ottenere almeno che gli accertamenti siano serali, ovviamente essendo reperibile in questi momenti.
Il procedimento si chiude con l'emanazione di un provvedimento espresso (art. 2 co. 1 l. 241/1990).

Contro di esso il destinatario può proporre ricorso alla prefettura della provincia in cui ha sede il comune che ha emesso l'atto, entro 30 giorni dalla notifica del provvedimento (art. 5 l. 1228/1954, art. 2 D.P.R. 1199/1971).
Con il ricorso, si possono far valere sia eventuali vizi di legittimità che di merito, relativi all'inesistenza dei presupposti che hanno portato all'emanazione del provvedimento, individuati dall'art. 11 D.P.R. 223/1989. Il ricorso non sospende automaticamente l'esecutività del provvedimento: a tal fine serve apposita istanza di parte e il ricorrere di gravi motivi (art. 3 D.P.R. 1199/1971).

In particolare, la cancellazione per irreperibilità tout court è un provvedimento estremo, che presuppone una effettiva irreperibilità, accertata per almeno un anno e presuppone che sia sconosciuta l'attuale dimora abituale (Circ. ISTAT n. 21/1990). Se, invece, questa è conosciuta, l'anagrafe deve dare notizia del trasferimento al corrispondente ufficio di questo comune (art. 16 D.P.R. 223/1989). Pertanto, per evitare la cancellazione, il soggetto potrà anche far valere questo dato.

Se il ricorso è respinto, il soggetto potrà adire il giudice ordinario; la giurisprudenza ha ritenuto, infatti, che la situazione giuridica su cui si controverte sia un diritto soggettivo (TAR Piemonte 945/2015; Cons. Stato 310/2015).

Per ottenere nuovamente la residenza presso quello o altro comune, il soggetto dovrà presentare la relativa istanza secondo il relativo iter.

In relazione al porto d'armi e alla sua disciplina di cui al Testo Unico sulle Leggi di Pubblica Sicurezza (T.U.L.P.S.), osserviamo quanto segue.
La sua revoca (così come la sua concessione) è caratterizzata da una forte discrezionalità in capo all'autorità decidente. L'art. 42 T.U.L.P.S. pone come presupposto del rilascio della licenza il "dimostrato bisogno". L'art. 43 T.U.L.P.S. sancisce che essa può essere revocata, oltre ai soggetti condannati per certi delitti (ciò che è disposto anche in altre norme della legge) a chi "non può provare la sua buona condotta o non dà affidamento di non abusare delle armi".

In giurisprudenza, si è comunque riconosciuto che questa discrezionalità incontra dei limiti. Così, la licenza non può essere revocata per mera lite in famiglia, per il solo timore che un nuovo episodio possa indurre a dire che il permesso andava revocato prima (Tar Emilia 444/15); non può essere revocata, inoltre, solo per rapporti parentali con soggetti pericolosi (Tar Catanzaro 1080/2014).

Quindi, il presupposto su cui può fondarsi la revoca del porto d'armi è non poter provare la buona condotta o indurre a ritenere possibile l'abuso di esso. In tal senso, non sembra che la cancellazione anagrafica possa integrare il concetto. In ogni caso, l'eventuale provvedimento dovrebbe essere motivato e contro di esso si potrebbe ricorrere al Tar.

La residenza è, però, uno dei dati comunicati momento del rilascio della licenza, per cui è consigliabile denunciare alla prefettura la cancellazione anagrafica, dichiarando anche il domicilio e, se il procedimento è stato avviato, che si è in attesa di una nuova residenza. In tal modo si potranno anche ottenere dall'ufficio ulteriori informazioni su eventuali comportamenti da adottare (ad esempio circa la reperibilità). Peraltro anche lo stesso ufficio anagrafe, quando procede a cancellazione anagrafica per irreperibilità di un soggetto, ed entro 30 giorni dalla stessa, comunica il suo nome al prefetto (art. 11 co. 2 D.P.R. 223/1989).

Infine, si consideri che l'art. 489 del c.p. punisce "chiunque, senza essere concorso nella falsità, fa uso di un atto falso" e che l'art. 76 co. 2 D.P.R. 445/2000 stabilisce che "l'esibizione di un atto contenente dati non più rispondenti a verità equivale ad uso di atto falso", dove l'uso è qualsiasi utilizzo per un fine conforme alla natura dell'atto (Cass. 21231/2001). Questa circostanza sembrerebbe da escludere in relazione alla carta d'identità, considerando che la circolare Min. Interno n. 24 del 31/12/1992 ritiene che il cambio di residenza non importi obbligo di rilasciarne una nuova o di aggiornare quella in uso, a causa della natura meramente identificativa del documento; ma potrebbe non essere esclusa per il porto d'armi, che ha anche funzione di consentire il porto dell'arma.

Roberto F. chiede
venerdì 17/07/2015 - Piemonte
“Nell’ estate del 2003 chiedo e ottengo il porto d’armi (sportivo – tiro a volo), poco dopo acquisto un revolver ed immediatamente presento in questura la denuncia di arma.
Nell’ estate del 2009 rinnovo senza problemi il porto d’ armi.
Nel 2011 cambio residenza nell’ ambito dello stesso Comune (prendo la residenza in casa di mia madre) per cui comunico subito in questura che il revolver è ora nella casa di nuova residenza.
Nel 2012 cambio ulteriormente residenza (fuori Comune e Regione) ma non dichiaro nulla in quanto l’ arma rimane in casa di mia madre (che frequento assiduamente per motivi famigliari e di lavoro).
Ora il porto d’ armi è prossimo alla scadenza ma non ho intenzione di rinnovarlo e per quanto riguarda l’ arma sopracitata vorrei procedere alla sua demolizione o disattivazione permanente.
Esposta la presentazione, passo al particolare da cui scaturisce il quesito: nel 2011 all’ atto della dichiarazione del nuovo luogo di custodia dell’ arma, cioè la casa di nuova residenza, mi veniva richiesta e trattenuta la denuncia d’arma originale del 2003 per le loro annotazioni/vidimazioni rilasciandomi una fotocopia della stessa e una ricevuta armi da presentare dopo trenta giorni per il ritiro della denuncia armi in questione.
Probabilmente gli avvenimenti di quegli anni (morte di mio padre, una causa per la successione, la morte di mio cognato e mia sorella, i due traslochi, mia nipote che era sparita e da ultimo la sopraggiunta invalidità totale di mia madre) fecero sì che mi dimenticassi di andare a ritirarla, sia all’ epoca che negli anni successivi. Solo ora scartabellando fra i documenti e cercando la denuncia di arma per procedere alla demolizione mi sono reso conto della situazione, conseguentemente non la posso esibire per avviare le procedure per la rottamazione o la disattivazione permanente.
Vorrei sapere in anticipo per meglio regolarmi e pormi se e a quali provvedimenti/sanzioni vado eventualmente incontro.”
Consulenza legale i 24/07/2015
Nel caso di specie ci si trova dinnanzi a una condotta certamente non grave.

L’art. 38 del TULPS dispone che “Chiunque detiene armi, munizioni o materie esplodenti di qualsiasi genere e in qualsiasi quantità deve farne immediata denuncia all'ufficio locale di pubblica sicurezza o, se questo manchi, al comando dei reali carabinieri”. L’art. 58 del TULPS prescrive, in merito alle armi: “In caso di trasferimento del detto materiale da una località all'altra del territorio dello Stato, salvo l'obbligo di cui all'art. 34, secondo comma, della Legge il possessore deve ripetere la denuncia di cui all'art. 38 della Legge, nella località dove il materiale stesso è stato trasportato”. La violazione della prescrizione dell’art. 58 del Regolamento di Attuazione del TULPS è punita dall’articolo 221 del regio decreto 773/1931 ai sensi del quale: “Salvo quanto previsto dall’art. 221-bis, le contravvenzioni alle disposizioni di tali regolamenti sono punite con l’arresto fino a due mesi o con l’ammenda fino a euro 103”.

V'è da dire che la denuncia del trasferimento di residenza nel 2011 è stata regolarmente presentata dal titolare del porto d'armi, il quale ha solo scordato di andare a ritirare il documento.
Vista la situazione di fatto descritta nel quesito, è consigliabile per il detentore del porto d'armi recarsi presso la questura o il comando di polizia da dove ha scordato di ritirare la denuncia, spiegando quanto accaduto.
Chi ha ricevuto all'epoca la denuncia, avrà certamente concluso la procedura prevista dall'art. 38 del TULPS, in seguito alla quale si è indubbiamente provveduto ad inserire la denuncia nel sistema informatico nazionale.
Pertanto, il fatto che la persona non sia in possesso della denuncia per non averla mai ritirata (oppure, ad esempio, per averla smarrita, o averne subito il furto) non si palesa così grave, perché gli organi preposti possiedono tutta la documentazione: l'importante, per non essere oggetto di sanzioni più gravi, è che la denuncia sia stata regolarmente effettuata all'epoca.

Chiarita la situazione e recuperata la denuncia (con richiesta di copia all'ufficio che la detiene), si potrà dichiarare la volontà di alienarla. Permane una probabilità, anche se non molto elevata, che al detentore dell'arma sia contestata la contravvenzione di cui all'art. 221 del r.d. 773/1931.

Vincenzo C. chiede
sabato 11/07/2015 - Sicilia
“Nel febbraio del 2014,per una telefonata intercorsa tra mia moglie e l'ex. compagna di mio figlio,siamo stati entrambi querelati, perché mia moglie avrebbe insultato e minacciato in viva voce la signora di cui sopra,rappresentato che la suddetta è domiciliata in un altra città con il nuovo compagno(marito)e che era ed è ad oggi residente nella nostra città.
Qualche giorno fa ci è pervenuta la citazione a giudizio: imputati del reato p.e p. dagli art.81 cpv c.p.594 e 612 c.p. presso il giudice di pace della città in cui è domiciliata l'attrice della querela e non - come ci sembra logico - nella città di residenza di entrambi(attore e convenuto). Possiamo far valere al giudice di pace di quella città, l'incompatibilità territoriale?E se sì si può chiedere in occasione della prima udienza fissata fra tre mesi?
Grazie
N.B.Ho già ritirato il certificato di residenza della signora,in cui risulta la residenza nella nostra città.”
Consulenza legale i 16/07/2015
La competenza territoriale è determinata dall'art. 8 del c.p.p., secondo il quale essa è determinata dal luogo in cui il reato è stato consumato.

Il delitto di ingiuria si consuma nel momento e nel luogo in cui avviene la percezione dell’offesa da parte del soggetto passivo: nel nostro caso, quando la parola offensiva è stata udita.
Il reato di minacce si consuma nel momento della mera percezione del male prospettato da parte della vittima (non è necessario il prodursi dell’evento intimidatorio, connesso alla minaccia).

Nel caso di specie, se durante la telefonata in cui sarebbero stati commessi i delitti di ingiuria e minaccia, la persona offesa si trovava presso il suo domicilio e non presso la residenza, il primo dei due luoghi determina la competenza per territorio del giudice di pace (ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera a), d.lgs. n. 274/2000, per il reato di ingiuria ha specifica competenza il giudice di pace; anche la minaccia non aggravata risulta oggi di competenza del g.d.p.).

Maria L. R. chiede
sabato 18/04/2015 - Calabria
“Il tutore di un interdetto (per malattia mentale) può svolgere il suo ufficio dimorando per quasi tutto l'anno (per lavoro) in diversi paesi esteri, mentre l'interdetto vive in Calabria?”
Consulenza legale i 21/04/2015
Non consta l'esistenza di una disposizione che imponga al tutore di dimorare stabilmente nelle vicinanze o presso la residenza dell'interdetto, sussistendo solo la norma dettata dal terzo comma dell'art. 45 del c.c., che impone la coincidenza tra il domicilio dell'interdetto e quello del tutore. Come noto, il domicilio è il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi e dove non è necessaria la sua presenza: quindi, si potrà stabilire la residenza (cioè, la dimora abituale) in un luogo diverso.

Tuttavia, è bene riflettere sul ruolo di questa figura fondamentale. L'art. 464 c.c. richiama la disciplina dettata per il tutore del minore o dell'emancipato, che ricomprende l'art. 357: questa norma stabilisce che il tutore ha la cura della persona interdetta, la rappresenta in tutti gli atti civili e ne amministra i beni.

Si tratta di compiti che non sono limitati ad occasionali interventi nella vita dell'interdetto, ma che coinvolgono la quotidianità della persona (il codice civile, non a caso, parla di "cura" della persona, che non è contemplata negli istituti della curatela e dell'amministrazione di sostegno).

Certamente è vero che molti incombenti possono essere delegati ad altri soggetti: pensiamo a una persona che debba essere quotidianamente assistita da personale medico. Pertanto, non è prescritto che il tutore debba personalmente "curare" la persona inferma.
Tuttavia, la sua presenza è spesso necessaria, perché il tutore rappresenta l'incapace in tutti i suoi atti. Pensiamo alla vendita di beni del malato, all'acquisto di cose con denaro dell'interdetto, al rilascio di consenso ad interventi o trattamenti sanitari, etc.
In dottrina e giurisprudenza si ritiene che il tutore possa conferire mandati speciali per il compimento di singoli atti, previa autorizzazione laddove si tratti di atti di straordinaria amministrazione (art. 374), mentre non si reputa possibile un mandato generale, che deleghi ad altri tutti i propri doveri. Ovviamente, anche in caso di specifiche deleghe, solo il tutore resta responsabile ai sensi dell'art. 382 del c.c. dell'adempimento dei propri doveri.

Ciò premesso, risulta evidente che si dovrà valutare se, nel caso di specie, il tutore che dimora all'estero per la maggior parte dell'anno sia in grado di assolvere ai suoi doveri: ad esempio, se l'interdetto non è proprietario di beni immobili, è curato e dimora stabilmente in una struttura sanitaria, etc., l'intervento del tutore plausibilmente sarà molto ridotto, e quindi risulterebbe compatibile con una sua residenza all'estero.
Se, invece, l'interdetto ha una situazione patrimoniale (o di salute) tale da richiedere la costante presenza del tutore, il fatto che questi sia quasi sempre lontano ed irraggiungibile può costituire un ostacolo allo svolgimento dell'ufficio.

In questi casi, oltre a potersi configurare una responsabilità del tutore per negligenza, l'art. 384 del c.c. stabilisce che il giudice tutelare lo possa rimuovere dall'ufficio qualora egli si sia dimostrato inetto nell'adempimento dei suoi poteri/doveri.

Nicla O. chiede
sabato 17/01/2015 - Veneto
“Ho la mamma che ha ereditato la casa dei genitori e che si trova a circa 10 km da dove abitiamo. Quindi per lei risulta seconda casa con una spesa in tasse non indifferente. vorrei sapere se la mamma e 2 figli portano la residenza nel comune della II casa e lei mantiene solo il domicilio dove vive con il marito, è possibile e si evita di pagare imu. Grazie”
Consulenza legale i 02/02/2015
Il D.L. 201/2011 che disciplina l'IMU stabilisce: “Per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente".
L'esenzione dall'IMU sull'abitazione principale (esclusa per immobile di lusso, villa, castello e palazzo signorile, rispettivamente categorie A1, A8 e A9) richiede quindi che il proprietario della casa vi dimori abitualmente, ma non solo: che vi sposti la sua residenza anagrafica.

Pertanto, la signora che ha ereditato la casa dei genitori, per godere dell'esenzione IMU sull'abitazione principale, deve fissare lì la propria residenza e la propria dimora: la residenza anagrafica va dichiarata al comune in cui si trova l'immobile e di norma la dichiarazione di trasferimento è soggetta ad alcuni accertamenti da parte del Comune (è prassi che un vigile verifichi la presenza della persona nella casa qualche giorno dopo l'istanza presentata al comune); la dimora, invece, consiste nel fatto di abitare concretamente nell'immobile, ma non è soggetta ad accertamento continuo da parte della pubblica autorità. Ciò significa che la persona può avere la residenza in un immobile e dimorarvi anche in maniera non costante.

Attenzione: non è sufficiente spostare la residenza nel comune ove è situato l'immobile (ciò vale, invece, per le agevolazioni sull'acquisto di prima casa), ma è necessario fissarla proprio all'interno della casa di proprietà.

Se la signora sposta la residenza anagrafica ma poi continua ad abitare con il marito in un altro comune, si ha una situazione di irregolarità, in quanto la residenza dovrebbe essere mantenuta nel luogo ove la persona dimora abitualmente, secondo l'art. 2 della L. 24.12.1954, n. 1228.
Il comune dove è situata la vera abitazione di moglie e marito potrebbe procedere a un controllo d'ufficio e accertare che la signora dimora abitualmente presso quell'immobile: in tal caso, il comune può procedere d'ufficio alla iscrizione anagrafica della residenza, spostando quindi quella fissata irregolarmente presso la casa di proprietà.

Leopoldo chiede
giovedì 18/09/2014 - Lazio
“Quesito: IMU
sono coniugato in separazione dei beni, prima dell'atto (in comunione dei beni) acquistammo una piccola casa in un comune del Lazio che è sempre stata considerata seconda casa non avendo li la residenza in quanto per motivi di lavoro avevamo la residenza in Roma, con differenti domicili. Mia moglie ha lasciato residenza e domicilio nella casa dei genitori, io residenza e domicilio in un appartamento in affitto.
Quindi abbiamo sempre pagato l'affitto e le tasse sulla seconda casa.
Alla morte dei genitori mia moglie è diventata proprietaria della casa
dei genitori (in separazione dei beni) dove ha residenza e domicilio.
Recentemente ho acquistato, dove avevo la seconda casa, un piccolo appartamento che confinava con il mio precedente, ho fatto le ristrutturazioni del caso facendolo diventare un solo appartamento di cui oggi ho un nuovo accatastamento regolarmente registrato.
A questo punto avendo raggiunto la pensione ho chiesto ed ottenuto li la residenza ma non mia moglie, in quanto lavora ancora, e stiamo valutando l'ipotesi di vendere il suo appartamento attualmente vuoto in quanto per comodità lavorative abbiamo continuato ad utilizzare l'appartamento in affitto.
Nella recente scadenza dell'anticipo IMU ho continuato a pagare per intero la tassa sulla seconda casa malgrado io abbia li la residenza per evitare discussioni. Ma vi chiedo almeno io dovrei essere esonerato dal pagamento in quanto per me è prima casa, anche se per comodità continuo ad avere un appartamento in affitto in un comune diverso.
Grazie”
Consulenza legale i 25/09/2014
Nel caso di specie, la situazione attuale vede due coniugi che sono comproprietari di una casa dove solo il marito ha la residenza (pur abitando in altro appartamento in affitto), mentre la moglie ha residenza altrove.
Il D.L. 201/2011 che disciplina l'IMU stabilisce: “Per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente".
La disciplina IMU ha quindi introdotto dei parametri più stringenti rispetto all'Ici ai fini dell'individuazione dell'abitazione principale, essendo richiesta la presenza contemporanea di residenza e dimora abituale del proprietario o del titolare del diritto reale sull'immobile. Normalmente, se nell'immobile è stabilita la residenza anagrafica, la dimora abituale presso quell'abitazione si può ritenere presunta.
Quindi, nel caso proposto, in base agli elementi di fatto forniti, il marito dovrebbe essere esonerato dal pagamento dell'IMU in quanto risiede anagraficamente nell'unico immobile di cui egli è proprietario.
V'è da precisare, però, che la situazione di fatto descritta nel quesito non è regolare, in quanto la residenza dovrebbe essere mantenuta nel luogo ove la persona dimora abitualmente, ossia nell'appartamento in affitto, secondo l'art. 2 della L. 24.12.1954, n. 1228. Un eventuale controllo da parte del Comune dove è situata la casa in locazione potrebbe accertare che il marito dimora abitualmente presso quell'immobile e procedere d'ufficio alla iscrizione anagrafica della residenza, spostando quindi quella fissata irregolarmente presso la casa di proprietà.

Elena P. chiede
venerdì 12/09/2014 - Lombardia
“ho 36 anni e nel 2006 ho acquistato con sacrifici la mia prima e unica casa (un monolocale sito nel comune dove lavoro) con un mutuo al 100% e che quindi dovrò pagare per altri 22 anni, con relativa agevolazione acquisto prima casa.)
Ho un fidanzato il quale abita nella sua casa (intestata a lui con relativo mutuo) nello stesso comune. Praticamente la stessa situazione.
Mesi fa abbiamo scoperto di aspettare una bambina che nascerà il mese prossimo e stiamo pensando di andare a vivere insieme nella casa di lui dato che è più grande del mio monolocale.
Non siamo sposati.
La domanda è: cosa comporta per me trasferire la residenza da lui?
Perderò qualche beneficio rispetto alla tassazione sulla prima casa? Il mio monolocale diventerebbe una seconda casa?
E il mio fidanzato chiede: cosa comporta per me accogliere la mia compagna più la bambina nata a casa mia?
Che consiglio ci potete dare?”
Consulenza legale i 14/09/2014
Quanto alla tassazione sulla casa, il T.U. 131 del 1986 prevede che le agevolazioni previste per l'acquisto di un immobile destinato a costituire prima abitazione cadano se l'acquirente lo rivende prima che siano decorsi cinque anni o se non vi stabilisca la propria residenza entro 18 mesi dall'acquisto.
Nel caso di specie, quindi, poiché la compravendita risale al 2006, non vi è più alcun rischio di perdere le agevolazioni fiscali anche se si sposta la residenza in altro immobile, che peraltro si trova nel medesimo comune.
Lo spostamento della residenza comporta altre conseguenze, sempre di natura fiscale (poiché lo spostamento avviene all'interno dello stesso comune, non vi saranno mutamenti in relazione all'esercizio del diritto di voto e al mantenimento del medico di base).
ISEE
Il nucleo familiare di riferimento ai fini del calcolo dell'ISEE è dato dalla "famiglia anagrafica" e dai soggetti a carico ai fini IRPEF, anche se componenti altra famiglia anagrafica (art. 1, comma 1, D.P.C.M. 4 aprile 2001 n. 242)
La “famiglia anagrafica” è solitamente un gruppo di persone legate da vincoli di matrimonio, di parentela, di adozione o di tutela, ma anche un insieme di persone legate da vincoli di affinità o di affetto, che coabitino nello stesso immobile.
Poiché le due persone che andranno ad abitare sotto lo stesso tetto sono legate da un vincolo affettivo, anche se non sposate, potranno far parte di un unico stato di famiglia, con le conseguenze fiscali di risultare come un unico nucleo famigliare. Tuttavia, poiché i due non sono legati da vincolo di parentela, potranno anche chiedere di tenere separati i propri stati di famiglia (la bambina sarà tenuta in considerazione come familiare per il reddito del genitore che la ha a carico nella dichiarazione). Ciò, però, eluderebbe la finalità della normativa discale: difatti, individuare il nucleo familiare ISEE serve a determinare la reale situazione patrimoniale ed economica di una famiglia, per capire se essa abbia veramente diritto alle prestazioni assistenziali, legate al reddito, erogate dalla Pubblica Amministrazione (es. assegni familiari, ticket sanitario, riduzione di tasse universitarie - ISEEU, ...).
Quindi, laddove non vi siano peculiari situazioni fiscali ostative di uno dei due compagni, non si vedono particolari controindicazioni a costituire un unico stato di famiglia.
IMU
Maggiori problemi invece riguardo l'IMU.
Se i due compagni rimangono a vivere ciascuno nella propria abitazione (o se la futura mamma sposta la propria dimora di fatto, ma non la residenza anagrafica), ciascuno godrà delle esenzioni previste dalla legge per il pagamento della tassa sugli immobili sulla prima casa.
Se, invece, i due decidono di costituire un unico nucleo familiare, con spostamento della residenza nella stessa casa, l'altro immobile risulterà come "casa a disposizione" per colui che si sposta nella casa dell'altro, e pertanto soggiacerà all'IMU: ciò in quanto la legge stabilisce che per "prima abitazione" a fini IMU si intende quella nella quale si stabilisce la propria residenza e quella del proprio nucleo familiare.

ALFONSO C. chiede
mercoledì 26/03/2014
“Io sono separato ed i miei figli vivono con me, inoltre risulto disoccupato, l'appartamento in cui vivo è di mia proprietà, l' ISEE risulta molto basso. Il problema è sorto nel momento in cui è venuta ad abitare da me mia madre, che ha una pensione di reversibilità ed è stata inserita nel mio stato di famiglia innalzando così l'ISEE. C'è un modo per poter scorporare mia madre dal mio stato di famiglia perché né i miei figli, studenti universitari né io, possiamo usufruire delle agevolazioni.”
Consulenza legale i 04/04/2014
Il nucleo familiare di riferimento ai fini del calcolo dell'ISEE è dato dalla "famiglia anagrafica" e dai soggetti a carico ai fini IRPEF, anche se componenti altra famiglia anagrafica (art. 1, comma 1, D.P.C.M. 4 aprile 2001 n. 242)

L'art. 4 del D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223 (Regolamento Anagrafico della Popolazione Residente) definisce così la "famiglia anagrafica": "Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune".

Va ricordato che il compito dell’anagrafe è quello di rispecchiare la situazione reale, registrando le persone stabilmente residenti in un determinato territorio comunale. Se non sono le persone stesse a certificare la loro presenza sul territorio, sarà l'ufficio anagrafico stesso a procedere con le iscrizione d'ufficio, una volta acquisite le necessarie informazioni.

Pertanto, nel caso di specie, se la nonna abita stabilmente con i nipoti e il proprio figlio, si realizzano i presupposti della "famiglia anagrafica" sopra descritta: coabitazione e vincolo di parentela.
La mera "convivenza anagrafica" si può avere solo se non esiste un vincolo di parentela o affettivo tra i conviventi (pensiamo a due amici che vivono insieme durante gli studi universitari).

Quindi, la nonna è correttamente venuta a far parte della famiglia anagrafica e la sua presenza rileva a fini ISEE.
Purtroppo, l'unica possibilità affinché essa esca dalla famiglia anagrafica è che la signora cambi residenza.

Salvatore P. chiede
mercoledì 12/03/2014 - Veneto
“Oggetto: Esenzione IMU/Diritto di abitazione. Mia moglie è proprietaria di una abitazione (unica) pervenuta da successione, ove abitiamo saltuariamente e non siamo residenti perché io sono spesso trasferito d’autorità in altre sedi (sono un appartenente alle Forze di Polizia) e ora distante oltre 1000 km. da tale immobile. Pertanto, su questa abitazione abbiamo sempre pagato le imposte locali come 2^ casa, ancorché sia l’unica posseduta. Ora, vorremmo costituire, mediante scrittura privata ed a titolo gratuito, il diritto di abitazione a mio favore, al fine di beneficiare delle agevolazioni 1^ casa in tema di IMU in virtù delle modifiche apportate dalla Legge di stabilità 2014. Taluni notai sostengono che il diritto di abitazione non possa essere costituito con una mera scrittura privata registrata (cfr. Consiglio Notarile di Padova – prot. 964 in data 09/10/2013. In rete su: http://www.rubano.it/tasse/imposta-municipale-unica/NOTA%20ORDINA%20NOTAI_2013.pdf). Infatti, il Consiglio Notarile ritiene che per costituire un diritto reale di abitazione sia necessario un atto notarile (al costo di circa 2.000/2.500 euro) e non una semplice “autentica di firma” in calce ad una scrittura privata. Tanto premesso, prego voler esprimere il parere circa la possibilità che tale diritto possa essere costituito come segue: 1) stipula del contratto di costituzione del diritto tra le parti, per forma scritta registrata all’Agenzia delle Entrate con tassa fissa (così ha data certa ex art. 2.704 C.C. ed opponibile ai terzi). 2) Non verrebbe effettuata la trascrizione perché per trascrivere l'Agenzia del Territorio richiede ex 2643 c.c. l'atto pubblico o la scrittura privata autenticata dal notaio (non potendosi effettuare detta autentica in Comune). 3) Si notifica al Comune con la prevista comunicazione IMU entro 90 giorni dalla registrazione, dichiarando la nuova situazione dei diritti. In base all'art. 2704 C.C. e ad un consolidato orientamento giurisprudenziale e dottrinale circa l'opponibilità ai terzi della scrittura privata non si parla mai di trascrizione, si parla di data certa per effetto della registrazione. Inoltre l'art.2644 del codice civile per gli effetti della trascrizione fa riferimento alla tutela dei terzi (di buona fede) che abbiano successivamente acquistato il bene, e non certo dei diritti vantabili dal fisco. Anche la Cassazione (Sez. III, sent. n. 19058 del 12-12-2003) lo conferma: La trascrizione non è un istituto di pubblicità costitutiva, bensì dichiarativa, e come tale ha la funzione di rendere opponibile l'atto ai terzi onde dirimere il conflitto tra più acquirenti dello stesso bene, senza incidere sulla validità ed efficacia dell'atto stesso. Configurandosi come un onere, essa è, pertanto, un "quid pluris" rispetto all'atto trascrivendo, cosicché, ove essa sia necessaria ad integrare una qualsiasi fattispecie normativa, deve essere oggetto di esplicita previsione. Concludendo: in base a queste premesse, si riterrebbe plausibile che - se la costituzione del diritto di abitazione per scrittura privata registrata viene debitamente comunicata al Comune con lettera raccomandata - da quel momento in poi il soggetto passivo IMU è il titolare del diritto di abitazione e può beneficiare di aliquota e detrazione per abitazione principale. Prego voler esprimere parere su quanto affermato. Grazie”
Consulenza legale i 20/03/2014
Il quesito proposto è di grande interesse ed attualità, ed è esposto con estrema precisione.
Il caso oggetto del quesito è balzato agli onori delle cronache quando un ragioniere padovano ha "scoperto" una via legale per risparmiare sull'IMU (la costituzione, appunto, di un diritto di abitazione), gettando nel panico le amministrazioni pubbliche, che hanno cercato di arginare la vicenda richiedendo che la costituzione del diritto reale venisse trascritta (con oneri e costi molto maggiori), sperando forse così di disincentivare il ricorso a questa via e di (seguitare ad) introitare maggiore imposta.
Ci si chiede, quindi, in buona sostanza, se sia sufficiente una scrittura privata, esclusivamente registrata, a costituire validamente un diritto di abitazione su un immobile ai fini del pagamento come prima casa dell'IMU.
La questione è dibattuta e non si registra ancora alcuna posizione ufficiale dell'Agenzia delle Entrate o del Territorio, né posizioni giurisprudenziali nette o indicazioni ministeriali.
Anzi, l'Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 73/E del 6 luglio 2012, ha demandato la questione ai Comuni, in quanto "ove l’istanza di interpello concerna l’applicazione di disposizioni normative dettate in materia di tributi locali, la competenza a decidere in ordine a tale tipologia di istanze è attribuita esclusivamente all’ente impositore, in quanto titolare della potestà di imposizione, nella quale è compreso l’esercizio dei poteri di accertamento del tributo".
I comuni - come anticipato - si sono per la maggior parte espressi riconoscendo come a loro opponibile la costituzione del diritto solo con la trascrizione nei pubblici registri immobiliari dell'atto relativo. Il fisco, infatti, (in questo caso, l'ente Comune) sarebbe anch'esso da considerarsi un "terzo" nei confronti del quale la semplice scrittura tra privati risulterebbe irrilevante.
Il Comune di Venezia, ad esempio, ha dichiarato che "in assenza di differenti indicazioni ministeriali e/o giurisprudenziali, il Comune di Venezia riconosce la traslazione della soggettività passiva dal proprietario al titolare del diritto di abitazione solo nei casi in cui l’atto costitutivo del diritto reale minore sia stato trascritto nei pubblici registri immobiliari" (è possibile consultare l'intera delibera qui http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/69393).

Ciò, però, contrasta con i principi civilistici ricordati anche nel quesito, in base ai quali la trascrizione ex art. 2643 c.c. ha un solo scopo di pubblicità dichiarativa, atta a dirimere i conflitti tra più acquirenti dello stesso bene.
In effetti, su un piano meramente giuridico, non sembra fondato il ragionamento relativo all'equiparazione della posizione del Comune con quello di un "terzo" cui è opponibile la trascrizione. La costituzione del diritto reale di abitazione è soggetta - da parte del codice civile - al solo onere della forma scritta (art. 1350 del c.c.), che è ben soddisfatta anche da una semplice scrittura privata (registrata al fine di attribuirle la data certa). Tale principio è innegabile. Dovrebbe, quindi, esistere una norma che imponga, ai fini IMU, anche la trascrizione dell'atto, perché a quel punto la volontà del legislatore imporrebbe un ulteriore requisito in deroga alla disciplina generale. Tuttavia, una siffatta norma ad oggi non sembra esistere, giacché il primo comma dell'art. 9 del d.lgs. 23/2011 stabilisce semplicemente, senza altro aggiungere, che "Soggetti passivi dell'imposta municipale propria sono il proprietario di immobili, inclusi i terreni e le aree edificabili, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali o alla cui produzione o scambio è diretta l'attività dell'impresa, ovvero il titolare di diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie sugli stessi".
Chi sostiene l'obbligatorietà della trascrizione dell'atto con cui si costituisce il diritto richiama spesso la sentenza n. 2402/2000 della Corte di Cassazione, dove leggiamo che "si deve ritenere, sulla base della normativa tributaria vigente, che il legislatore ha inteso ampliare il concetto di “terzo” cui fa riferimento l’art. 2704 c.c., comprendendovi anche l’Amministrazione finanziaria, titolare di un diritto di imposizione in qualche misura collegato al negozio documentato e suscettibile di pregiudizio per effetto di esso (ad es. con fittizie retrodatazioni)". Tuttavia, la Suprema Corte precisa, nella medesima pronuncia, che tale interpretazione estensiva del concetto di "terzo" è operata "per evidenti motivi di certezza della data", "mentre per gli atti pubblici, gli atti giudiziali e le scritture private autenticate la legge applicabile è quella vigente alla data di formazione di tali atti, per le scritture private non autenticate è applicabile il regime tributario in vigore al momento in cui la loro data assume certezza con la registrazione".

Per concludere, quindi, il parere del Consiglio Notarile di Padova citato nel quesito risulta impreciso e forse anche un po' fazioso, avendo come scopo (è il caso, forse, di dire "apparente", considerato il tenore di alcuni passaggi del parere e considerato altresì che tutta questa semplificazione per i notai si traduce di fatto in un mancato introito professionale) solo quello di disincentivare la conclusione di contratti fittizi, che non siano davvero tesi a costituire un diritto di abitazione in favore di un familiare ma solo ad eludere la normativa fiscale. Posizione che, chiaramente, è del tutto condivisibile.

Si ripete, quindi, che da un punto di vista giuridico la soluzione che non richiede il passaggio "dal notaio" appare pienamente fondata e incontrovertibile in base alla normativa attualmente in vigore.

Purtroppo, ad oggi non è possibile dare una soluzione certa ed univoca al caso, in quanto ogni Comune decide come autodeterminarsi. Bisognerà attendere le prime pronunce della giurisprudenza in merito ai ricorsi di natura tributaria - che sicuramente sono in via di presentazione da più parti d'Italia - e attendere che il nodo venga finalmente sciolto. Sperando che la Giustizia prevalga.

Marco D. chiede
giovedì 20/02/2014 - Lazio
“Buongiorno, sono cittadino italiano residente in Italia e lavoratore subordinato presso una compagnia di navigazione aerea con sede in UAE e secondo l'accordo bilaterale tra Italia e Emirati arabi uniti (Convenzione del 28/08/1997 n. 309 art. 3. Le remunerazioni percepite in corrispettivo di un lavoro subordinato svolto a bordo di navi o di aeromobili impiegati in traffico internazionale sono imponibili soltanto nello Stato contraente nel quale è situata la sede della direzione effettiva dell'impresa) non devo pagare tasse in Italia su questo reddito. Ho altri redditi derivanti da immobili su cui pago le tasse in Italia.

Desideravo sapere se sono obbligato ad iscrivermi all'AIRE.
Nel regolamento dell'AIRE cita l'obbligatorietà dell'iscrizione per chi è residente all'estero per più di un anno.
Io vivo in Italia dove risiede tutta la famiglia e nel periodo di servizio sono residente in UAE (da solo) dove svolgo l'attività di volo. Una volta al mese rientro in Italia per alcuni giorni, quando libero dal servizio, per ricongiungermi al nucleo famigliare.
Vorrei evitare di iscrivermi all'AIRE poiché perderei l'assistenza sanitaria in Italia e non usufruirei di nessuno dei servizi dell'AIRE
Grazie per l'aiuto!”
Consulenza legale i 27/02/2014
L’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (A.I.R.E.) è stata istituita con legge 27 ottobre 1988, n. 470 ed è gestita dai Comuni sulla base dei dati e delle informazioni provenienti dalle Rappresentanze consolari all’estero.

Iscriversi all'AIRE è un obbligo prescritto dalla legge per i cittadini italiani che risiedono all’estero per un periodo superiore ai dodici mesi. Si tratta di un dovere civico, che comporta la possibilità di esercitare con regolarità il diritto di voto e di ottenere certificati dal comune di iscrizione e dal consolato di residenza. Di regola l'iscrizione avviene su base volontaria, a seguito di dichiarazione resa dall’interessato all’Ufficio consolare competente per territorio entro 90 giorni dal trasferimento della residenza. Tuttavia, essa può anche essere effettuata d’ufficio, nel caso di cittadini che non abbiano presentato le dichiarazioni dovute, ma dei quali gli Uffici consolari competenti abbiano conoscenza, in base ai dati in loro possesso e agli accertamenti eseguiti.
Gli unici soggetti non tenuti ad iscriversi all’A.I.R.E. sono
- le persone che si recano all’estero per un periodo di tempo inferiore ad un anno;
- i lavoratori stagionali;
- i dipendenti di ruolo dello Stato in servizio all’estero, che siano notificati ai sensi delle Convenzioni di Vienna sulle relazioni diplomatiche e sulle relazioni consolari rispettivamente del 1961 e del 1963;
- i militari italiani in servizio presso gli uffici e le strutture della NATO dislocate all’estero.

Nel caso di specie, è difficile ravvisare uno dei casi sopra elencati. Il frequente rientro in Italia non sembrerebbe connotare l'attività svolta nel Emirati Arabi come "stagionale": pertanto, l'iscrizione apparirebbe dovuta.
E, però, possibile interpretare la normativa sull'AIRE facendo ricorso al concetto di "residenza" di cui all'art. 43 c.c. Il D.P.R. n. 323 del 6 settembre 1989, all'art. 8, stabilisce che "Per immigrazione, ai sensi dell’art. 6 della legge, si intende la fissazione all’estero della dimora abituale".
Il codice civile, nel definire il concetto di residenza, utilizza proprio l'espressione "dimora abituale" della persona e la giurisprudenza, che in qualche occasione ha affrontato l'argomento, ha sancito che "la residenza di una persona è determinata dalla sua abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, ossia dall'elemento obiettivo della permanenza in quel luogo e dall'elemento soggettivo dell'intenzione di abitarvi stabilmente, rilevata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali" (T.A.R. Trento, 10.10.2012, n. 293).
Non si deve, quindi escludere che la residenza di chi si rechi all'estero per la maggior parte dell'anno resti in Italia, considerato inoltre che, nel caso di specie, la persona ha un profilo fiscale assolutamente regolare e rispettoso di tutte le normative nazionali ed internazionali.
Se venisse così configurata la fattispecie in esame, non risulterebbe obbligatoria l'iscrizione all'AIRE perché non verrebbe spostata la residenza, nel senso civilistico del termine.

Riguardo al timore espresso dall'utente di perdere l'assistenza sanitaria statale, è bene ricordare che ciò è certamente vero per quanto concerne, ad esempio, il medico di base e altri servizi come l'acquisto di medicinali.
Tuttavia, per gli iscritti AIRE è prevista un'assistenza sanitaria in Italia, in caso di rientro temporaneo, sebbene limitata alle sole prestazioni ospedaliere urgenti, per un periodo massimo di 90 giorni nell'anno solare.
In caso di necessità di cure più prolungate, è possibile ottenere la cancellazione dall'AIRE e la re-iscrizione nell'anagrafe della popolazione residente, presentandosi nel comune di ultima residenza e dichiarando l'avvenuto rientro in Italia.
Va, però, tenuto in considerazione che la materia della sanità in Italia è di competenza regionale: quindi, è possibile che una regione conceda maggiore assistenza agli iscritti AIRE (ad esempio, il Veneto mantiene la piena assistenza sanitaria ai suoi ex residenti iscritti all'AIRE). Si consiglia quindi di informarsi presso la propria regione di residenza circa la normativa in vigore.

gianpaolo m. chiede
mercoledì 19/02/2014 - Veneto
“Ho avuto in eredità alla morte della mamma un appartamento, per usufruire dei benefici prima casa ho trasferito la residenza in Sardegna. Ora vorrei tenere il domicilio nell'abitazione dove ho la famiglia, il Comune mi concede per un solo anno l'iscrizione per il domicilio;è legalmente corretto,come mi devo comportare. Nel contempo ci sono ripercussioni sanitarie, scelta del medico-esami clinici-ed esami specialistici, (Sono un militare in congedo, invalido per servizio).
Grazie per la cortesia”
Consulenza legale i 25/02/2014
Per i cittadini italiani l’iscrizione anagrafica per l’ottenimento della residenza in un Comune del territorio è regolata dalla Legge n. 1228/54 e dal D.P.R. n. 223/89, così come modificato dal D.P.R. n. 394/1999. All’art. 7, il Regolamento stabilisce che le iscrizioni anagrafiche vengano effettuate su istanza del soggetto interessato (o di chi ne esercita la potestà o la tutela, ad esempio in caso di minore) per: nascita; esistenza giudizialmente dichiarata; trasferimento di residenza da altro Comune o dall’estero; mancata iscrizione nell’anagrafe di alcun Comune.
Inoltre, nell’anagrafe della popolazione residente sono registrate le posizioni relative alle persone senza fissa dimora che hanno stabilito nel comune il proprio domicilio.

Ciascun cittadino ha l'obbligo di chiedere per sé e per le persone sulle quali esercita la potestà o la tutela l’iscrizione nell’Anagrafe del comune di dimora abituale (art. 2, primo comma, legge anagrafica).
Solo per le persone che non hanno una dimora abituale il legislatore ha introdotto una sorta di finzione giuridica, considerandole residenti nel comune ove hanno il domicilio, e in mancanza di questo, nel comune di nascita (art. 2, terzo comma, legge anagrafica). La persona senza fissa dimora è colui che non ha una dimora stabile ed effettiva per cause particolari, legate al suo status sociale (si pensi ai clochards) o allo svolgimento di una particolare attività lavorativa (ad es. i giostrai). Si tratta quindi di casi minoritari.

Va precisato che la persona può avere la residenza presso un certo comune ma il domicilio in un altro. Il domicilio, che ai sensi dell'art. 43 c.c. è il luogo in cui la persona fissa la sede principale dei propri affari ed interessi, non è tuttavia riconosciuto a livello amministrativo se non, come appena precisato, per le persone senza fissa dimora.

Pertanto, nel caso di specie, è ben possibile mantenere la residenza anagrafica (anche se a rigore questa dovrebbe comunque corrispondere alla dimora abituale della persona) in un luogo e il domicilio in un altro. La fissazione del domicilio, però, non può essere "chiesta" presso il Comune diverso da quello in cui si ha la residenza anagrafica e quindi il Comune può rifiutare una domanda di tal specie.

Chi è domiciliato in un luogo e formalmente residente in un altro non potrà conseguentemente pretendere che i diritti/doveri legati al luogo della residenza siano invece legati al domicilio. Ad esempio, il diritto di voto può essere esercitato solo nel luogo di residenza anagrafica.

Per quanto concerne l'assistenza sanitaria, invece, di regola le ASL consentono a tutti i cittadini italiani residenti in altre Regioni ma iscritti al SSN il diritto ad avere tutte le prestazioni sanitarie e socio-sanitarie classificate nei Livelli Essenziali di Assistenza. Le singole prestazioni ed i costi devono essere verificati presso l'ASL competente del luogo in cui la persona è domiciliata.

Anche il medico di base può essere scelto in una località diversa dalla propria residenza anagrafica, se si permane per motivi di lavoro, studio o malattia in altro luogo per un periodo superiore a tre mesi; ma tale indicazione non può durare più di un anno, salvo il caso in cui esistano motivi di proroga. Poiché nel caso di specie sussiste anche una invalidità di servizio, si suggerisce di prendere contatto con l'ASL competente per il luogo in cui la persona abita (diverso dal luogo della residenza), chiedendo informazioni sulla normativa vigente in quella specifica regione.

MARIO chiede
domenica 12/01/2014 - Lazio
“Salve. Sono sposato in regime di separazione dei beni. Con la mia famiglia,abbiamo una figlia minorenne, fino al 30 giugno abbiamo vissuto nell'appartamento di mia proprietà a Roma. Avendo acquistato un altro appartamento dove siamo andati ad abitare, sempre a Roma,intestato a mia moglie,posso avere la residenza nell'appartamento mio, dato regolarmente in affitto con contratto in deroga a studenti stranieri, per non perdere i benefici di prima casa?”
Consulenza legale i 23/01/2014
La nota II-bis) dell'art. 1 della Tariffa, Parte Prima, del D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, dispone che per beneficiare delle agevolazioni fiscali previste per l'acquisto della cosiddetta "prima casa", che incidono sull'imposta di registro, sulle imposte ipotecaria e catastale, e sull'Iva, l'immobile oggetto di compera deve essere situato nel comune in cui l'acquirente già risieda o stabilisca la propria residenza entro il termine di 18 mesi dall'acquisto.

La successiva decadenza dai benefici fiscali è prevista solo in questi casi:
- all'atto dell'acquisto non sussistevano i requisiti richiesti dalla legge, con conseguente falsità della dichiarazione resa;
- l'acquirente abbia trasferito entro cinque anni dalla data dell'acquisto - a qualsiasi titolo, per atto inter vivos - il bene acquistato: tranne, però, nel caso in cui sia seguito entro un anno un nuovo acquisto avente ad oggetto un'altra casa di abitazione non di lusso in presenza delle condizioni agevolative;
- l'acquirente non trasferisce la propria residenza nel Comune in cui è situato l'immobile entro 18 mesi dall'acquisto.

La normativa non sanziona espressamente il trasferimento di residenza con la decadenza dai benefici "prima casa": questo è un primo dato letterale importante a favore della tesi per cui sarebbe irrilevante il trasferimento della residenza avvenuto in un momento successivo alla compravendita.

Inoltre, risulta pacifico che per fruire delle agevolazioni "prima casa" non sia necessario che l'immobile acquistato venga destinato ad abitazione propria e/o dei familiari: può essere acquistata con le agevolazioni fiscali anche un immobile da affittare dopo l'acquisto (circolari n. 38 del 12.8.2005, n. 19/E del 1.3.2001 e n. 1/E del 2.3.1994).

L'interpretazione attualmente dominante (anche se l'Agenzia delle Entrate non ha ancora assunto una esplicita presa di posizione in punto di durata necessaria della residenza anagrafica presso la "prima casa" per un determinato periodo di tempo) è nel senso che risulti rilevante esclusivamente il fatto che chi ha acquistato in agevolazione avesse la propria residenza nel comune ove è situato l'immobile al momento della compravendita oppure ve l'abbia trasferita entro 18 mesi; al contrario, sarebbe irrilevante che l'abbia trasferita dopo il rogito notarile.

Nel caso di specie, se anche il marito trasferisse la residenza presso la nuova abitazione di proprietà della moglie, trovandosi peraltro questa nello stesso territorio comunale di Roma, non vi sarebbe decadenza dai benefici fiscali "prima casa".

Tuttavia, quanto detto non vale per l'agevolazione sugli interessi passivi del mutuo: in questo caso locare l'immobile comporta la perdita del vantaggio, perché la normativa sancisce espressamente che l'acquirente deve adibire l'immobile per il quale ha richiesto il mutuo a propria abitazione principale entro 12 mesi dall'acquisto, e poi per tutto il periodo in cui usufruirà del beneficio.

Qualora il marito decidesse, invece, di mantenere la residenza presso la casa di sua proprietà, sorgerebbero problematiche fiscali di altro tipo, scaturenti dal fatto che venga mantenuta la residenza presso un immobile che è locato ad altre persone (in questo caso, studenti). Per questioni di tali natura, si consiglia di rivolgersi ad un commercialista.

Antonio P. chiede
giovedì 28/03/2013 - Sardegna
“il 6 febbraio 2013 mio fratello che ospitavo per ragioni umanitarie ha chiesto e ottenuto la residenza presso la mia residenza e nello stesso istante lo hanno incluso nel mio nucleo familiare dove io risultavo capo famiglia in quanto unico residente, nonostante le mie opposizioni sia scritte che verbali gli veniva concessa la residenza e l'appartenenza al mio nucleo familiare con conseguente disagio e rischio per i miei beni in quanto lui è debitore con il fisco per diverse decine di migliaia di euro. Adesso chiedo se tutto questo è lecito e cosa dovrei fare affinché venga cancellato dal mio stato di famiglia.
Grazie e saluti.”
Consulenza legale i 04/04/2013
In merito al quesito proposto, appare opportuno definire il nucleo familiare quale insieme delle persone che abitano sotto lo stesso tetto o che sono a carico, ai fini IRPEF, di una stessa persona. Oltre al nucleo familiare tradizionale, composto da moglie, marito ed eventuali figli, può darsi anche il caso di un nucleo "allargato", in cui possono rientrare anche persone che non hanno legami di parentela ma che vivono stabilmente insieme o che comunque possiedono una serie di requisiti stabiliti dalla legge. Inoltre, appartengono allo stesso nucleo familiare tutte le persone presenti nello stato di famiglia anagrafico, dove per stato di famiglia s'intende l’attestazione riguardante la composizione della famiglia anagrafica, cioè dell’insieme di persone unite dal vincolo della parentela, coniugio, affinità, adozione o che per motivi affettivi instaurano una stabile convivenza. Quindi lo stato di famiglia viene a rappresentare il certificato che viene utilizzato per attestare la composizione della famiglia anagrafica.
Le attestazioni riguardanti sia lo stato di famiglia che il nucleo familiare possono essere richieste al proprio comune di residenza. Inoltre, si precisa che ai sensi del D.P.R. n. 445 del 28.12.2000, dal 7 marzo 2001 le amministrazioni pubbliche e i gestori dei servizi pubblici non possono più chiedere ai cittadini i certificati per i quali è possibile produrre solo un’autocertificazione. Pertanto, sono gli stessi cittadini che, in base alle loro autocertificazioni, dichiarano di trovarsi nello stato di famiglia e di appartenere ad un unico e determinato nucleo familiare.
Fatte queste dovute premesse, si evince dal caso di specie che il fratello ha chiesto ed ottenuto di essere inserito nello stato di famiglia e nel nucleo familiare, in ragione del fatto che i dipendenti comunali possono procedere a rilasciare il certificato di residenza, quello di stato di famiglia e di nucleo familiare solo previa richiesta degli interessati. Infatti, una volta presentata la richiesta all’ufficio comunale competente la polizia municipale si reca presso l’abitazione indicata al fine di verificare se effettivamente il richiedente dimora nel luogo indicato.
La correttezza della procedura seguita dall’ufficio comunale competente può essere vagliata con il c.d. accesso agli atti del procedimento di iscrizione anagrafica che può essere consigliato in tal caso.
Inoltre, un ulteriore strumento da utilizzare nella sola ipotesi in cui il fratello richiedente abbia dichiarato il falso, ovvero nel caso in cui non sia residente stabilmente presso l’abitazione dichiarata, sarebbe quello della proposizione di una denuncia-querela perché la persona ha attestato il falso, chiedendo all’ufficio comunale di competenza che la stessa non risulti più residente (e quindi nello stato di famiglia) nel luogo indicato nella falsa dichiarazione.
Infine, per ciò che concerne i debiti contratti dal fratello sarà lui l’unico soggetto a rispondere degli stessi con il proprio patrimonio. L’unico inconveniente potrebbe sorgere nel caso in cui questo soggetto, risultante residente presso l’abitazione in questione, venisse colpito dalla procedura di pignoramento mobiliare. Infatti, in tale ipotesi vengono attratte al pignoramento le cose mobili che si trovano presso l’abitazione del debitore in ragione della presunzione che siano di sua appartenenza. Pertanto, sarà onere del proprietario dimostrare che quei beni sono di sua proprietà e non del debitore (esibizione di fatture, documenti di acquisto in generale, atti di donazione, atti di aggiudicazione d'asta, etc.).

Gustavo chiede
venerdì 02/11/2012 - Lombardia
“Buongiorno, avrei una domanda da porre, sono in fase di separazione da mia moglie, ovviamente dovrò lasciare la casa coniugale, avendo un minore, il sottoscritto tra l'altro ha perso il lavoro, quindi senza possibilità di affittare nemmeno una stanza in condivisione
La domanda:
Mi è stato proposto da un amico una sistemazione temporanea nel suo alloggio, ma dove posso trasferire la residenza e domicilio, se questa sistemazione sarà del tutto provvisoria? Sono per forza obbligato ad avere una residenza?
Grazie”
Consulenza legale i 03/11/2012

La residenza è una situazione di fatto che implica l'effettiva e abituale presenza del soggetto in un dato luogo. La residenza può essere scelta e mutata liberamente, ma il trasferimento deve essere denunciato nei modi prescritti dalla legge. A differenza della residenza, il domicilio, secondo il disposto dell'art. 43 del c.c. è il luogo ove il soggetto stabilisce la sede principale dei propri affari ed interessi. Esso implica una valutazione che non riguarda la sfera fisica della persona, ma quella "economico sociale". La caratteristica particolare del domicilio, inoltre, è quella di poter essere eletto presso terze persone preposte a ricevere comunicazioni in nome e per conto del domiciliante. Il nostro ordinamento non prevede un obbligo di residenza, tuttavia, data l'imminente separazione dell'utente con la moglie, sarebbe consigliabile che venisse ufficializzato il fatto che i coniugi non vivono più sotto lo stesso tetto, alla luce del venir meno dell'affectio coniugalis, elemento necessario per il mantenimento del vincolo coniugale.


PASQUALE chiede
lunedì 29/10/2012 - Campania
“Buongiorno, ho preso in affitto una casa in montagna ed ho trasferito lì la mia residenza, mentre il domicilio rimane nella vecchia casa di città dove lavoro e vivo la maggior parte della settimana. Mi chiedo se ciò è lecito ed in caso contrario quali posso essere le conseguenze? Grazie.”
Consulenza legale i 05/11/2012

L'ordinamento giuridico prende in considerazione il luogo dove la persona vive e svolge la propria attività.
L'art. 43 del c.c. disciplina il domicilio e la residenza di una persona fisica, definendo il primo come il luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi, mentre la residenza viene intesa quale luogo in cui la persona ha la sua dimora abituale.
Il domicilio normalmente coincide con la residenza, tuttavia può anche non coincidere: ad esempio è possibile che due coniugi abbiano la stessa residenza nel luogo in cui è situata l'abitazione familiare, mentre domicili diversi nei luoghi in cui svolgono rispettivamente la loro attività professionale.
Pertanto, una persona può liberamente scegliere di fissare il domicilio e la residenza in due luoghi distinti in base alle sue esigenze lavorative e di vita, dovendo attenersi alle sole prescrizioni legislative previste per eleggere il domicilio o stabilire la propria residenza.


Angela chiede
lunedì 01/10/2012 - Lazio
“Salve,
sono separata non divorziata residente nella casa di mia proprietà con mutuo che gode delle agevolazioni prima casa. Attualmente convivo a casa del mio nuovo compagno nello stesso comune (anche per lui prima casa). Lavoro in un'azienda privata la quale come documento attestante la "convivenza di fatto" mi chiede lo stato di famiglia. Il problema è che per non perdere le agevolazioni sul mutuo prima casa non posso trasferire la residenza da lui e quindi non possiamo risultare nello stesso stato di famiglia. Vorrei sapere se per essere conviventi secondo la famiglia di fatto bisogna essere obbligatoriamente residenti nella stessa casa e se cambiando residenza uno dei due perde obbligatoriamente le agevolazioni fiscali sulla prima casa (in particolare al detrazione degli interessi sul mutuo)
Consulenza legale i 09/10/2012

In relazione alla problematica da Lei sottopostaci, appare opportuno sottolineare che, per beneficiare delle agevolazioni fiscali previste per l'acquisto della "prima casa" (con riferimento all'imposta di registro, imposte ipotecaria e catastale, Iva), la nota II-bis) dell'art. 1 della Tariffa, Parte Prima, del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 dispone, tra l'altro, che l'immobile deve essere situato nel Comune in cui l'acquirente abbia o stabilisca, entro diciotto mesi dall'acquisto, la propria residenza; aspetto questo che dal tenore del quesito sembrerebbe sussistere.

La decadenza dai benefici fiscali viene comminata nelle seguenti ipotesi:

- in caso di mancata sussistenza, all'atto dell'acquisto, dei requisiti richiesti dalla legge, con conseguente falsità della dichiarazione resa;

- se l'acquirente trasferisce, entro cinque anni dalla data dell'acquisto, a qualsiasi titolo, per atto inter vivos, il bene acquistato (a meno che non acquisti entro un anno un'altra casa di abitazione non di lusso in presenza delle condizioni "agevolative");

- se l'acquirente non trasferisce la propria residenza nel Comune in cui è situato l'immobile, entro diciotto mesi dall'acquisto.

In tutti questi casi, la decadenza dall'agevolazione comporta il recupero della differenza dell'imposta non versata e degli interessi, oltre all'applicazione di una sanzione pari al 30% dell'imposta stessa.

Non è, invece, chiarito se e quanto debba essere mantenuta la residenza nel Comune del luogo in cui è sito l'immobile. Non è, dunque, prevista espressamente alcuna decadenza dall'agevolazione in caso di trasferimento in un altro comune, con cambio di residenza.
Alcuni autori, anche a seguito della recente sentenza della Corte di Cassazione n. 1392 del 26 gennaio 2010, ritengono che, nell'ipotesi suindicata, il contribuente non decada dalle agevolazioni fiscali. Tale assunto trova implicita conferma nelle seguenti considerazioni: per l'acquisto della prima casa, infatti, tra le condizioni richieste per poter fruire dell'aliquota agevolata, è previsto che il contribuente dichiari di non essere titolare di altra abitazione su tutto il territorio nazionale, acquistata dallo stesso soggetto con le agevolazioni recate per la prima casa dalla normativa passata e vigente.
La norma, in definitiva, intenderebbe evitare il cumulo di agevolazioni fiscali assumendo, evidentemente, come presupposto il fatto che il trasferimento di residenza di cui trattasi non comporta la decadenza dal beneficio.
Sono senz'altro da considerarsi come ricompresi nei benefici fiscali anche gli interessi sull'eventuale mutuo prima casa.
All'opposto, se fosse prevista la decadenza dal beneficio in caso di cambio di residenza, la previsione legislativa da ultimo citata risulterebbe priva di ratio.
A nostro parere tale orientamento può essere ritenuto un valido elemento di difesa in sede di ipotetico accertamento, da parte del fisco, delle cause di decadenza delle agevolazioni prima casa.


Per ciò che concerne la "famiglia di fatto", nel linguaggio giuridico sociologico contemporaneo la famiglia di fatto (o famiglia naturale) è quella costituita da persone di sesso diverso, che convivono more uxorio pur non avendo contratto il vincolo matrimoniale. Secondo la costante giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, affinché sussista la c.d. "famiglia di fatto" non è sufficiente la semplice coabitazione, dovendosi fare riferimento ad una situazione interpersonale di natura affettiva, con carattere di tendenziale stabilità e con un minimo di durata temporale che si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale. Detto questo, quindi, quando due persone abitano insieme, pur avendo residenze anagrafiche diverse, sicuramente coabitano, ma, per essere considerati "famiglia di fatto" occorre qualcosa in più: occorre che i due partner si comportino come marito e moglie. Ad ogni modo, la residenza anagrafica non ha niente a che fare con il concetto di convivenza o famiglia di fatto.


Giuseppe chiede
domenica 15/01/2012 - Calabria
“Domenica 15 gennaio 2012
Salve
Mia Madre vive attualmente in una RSA, la casa dove abitava prima non era in affitto. In questo caso visto che la precedente abitazione deve essere abbandonata, dove potrà essere trasferita la sua residenza.
Grazie”
Consulenza legale i 22/01/2012

La residenza è determinata dall'abituale volontaria dimora di una persona in un dato luogo, sicché concorrono ad instaurare tale relazione, giuridicamente rilevante, sia il fatto oggettivo della permanenza in quel luogo, sia l'elemento soggettivo della volontà di rimanervi.

La signora anziana, dunque, qualora sussistessero tali presupposti, potrà trasferire la residenza presso la casa di riposo ove ormai dimora abitualmente.


Giovanni chiede
giovedì 21/07/2011 - Calabria
“Il proprietario di una casa è responsabile per eventuali illeciti commessi da un suo inquilino?
Grazie”
Consulenza legale i 22/07/2011

Il conduttore deve a norma dell’art. 1587 del c.c.:

- prendere in consegna la cosa e osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsene per l'uso determinato nel contratto o per l'uso che può altrimenti presumersi dalle circostanze;

- dare il corrispettivo nei termini convenuti.

Il conduttore, quindi, è responsabile della conduzione dell’immobile nei confronti del locatore per danni arrecati alla proprietà e nei confronti di terzi per comportamenti colposamente commessi; egli, in particolare, è tenuto ad usare con particolare prudenza, perizia, diligenza l’immobile in conformità all’impiego convenuto e secondo le caratteristiche dell’ambiente in cui vive, nonché ad adempiere tutte le obbligazioni assunte con il locatore.

Mentre, il proprietario conserva la custodia dei muri e degli impianti e risponde direttamente dei danni dipendenti da queste strutture "fisse" ex art. 2051 del c.c.- art. 2053 del c.c., l'uso concreto dell’immobile sfugge alla sua sfera di controllo, che è strettamente connessa all'attività del conduttore (per es.: se produce rumori molesti, immissioni di fumo e odori negli altri appartamenti, ecc.).

Se è presente un regolamento di condominio contrattuale è a questo che bisogna fare riferimento nel caso in cui le statuizioni siano state violate dal conduttore. E’ il condomino ad esser obbligato a rispettare e far rispettare il regolamento. Ciò, però implica il dovere del locatore di agire nei confronti del proprio conduttore non solo attraverso mere diffide, ma impegnandolo ad azioni dirette alla eliminazione della turbativa e, nel caso, anche ad agire giudizialmente per la risoluzione del contratto di locazione.


S. V. M. chiede
giovedì 17/08/2023
“In data 31.10.22 mia figlia, dovendo frequentare un Corso di Formazione Specialistica presso l'Università degli Studi di XXX , ha stipulato un contratto di locazione abitativa registrato all' Agenzia delle Entrate, secondo quanto previsto dall'Accordo territoriale stipulato ai sensi dell'art. 5 , comma 3, della legge 431/98, tra UPPI APE SUNIA SICET UNIAT depositato il 19 maggio 2017 presso il Comune di Verona. Il contratto di natura transitoria, con cedolare secca da parte del locatore, secondo l'allegato C del del DM del 16/01/2017 - Ministero Infrastrutture e Trasporti, predisposto da una agenzia immobiliare di XXX, prevede la durata di DODICI mesi, dal 01 NOVEMBRE 2022 al 31 OTTOBRE 2023, rinnovabile automaticamente per ugual periodo se il conduttore non comunica al locatore disdetta almeno tre mesi prima della data di scadenza del contratto. Le utenze acqua, luce, gas e tassa rifiuti sono intestate al conduttore. Il conduttore, dimorando a XXX per frequentare il corso post-laurea, il 28 Febbraio 2023 ha spostato la sua residenza originaria dalla citta di YYY alla città di XXX presso l'alloggio locato, depositando al Comune di XXX i documenti richiesti, ivi compreso il contratto di locazione. Il Comune di XXX dopo i controlli di rito ha concesso la residenza.

Domanda: il contratto conserva la sua validità avendo il conduttore cambiato il luogo della residenza originaria, procedura tra l'altro prevista dalla legge essendo questa la propria dimora abituale ?

Grazie e distinti saluti

Consulenza legale i 21/08/2023
Il contratto di locazione di natura transitoria è previsto dall’art. 5 della legge 431/1998, proprio per soddisfare “particolari esigenze delle parti” o per venire incontro alle esigenze abitative degli studenti universitari.
Si tratta di casi in cui non avrebbe senso - e sarebbe, anzi, eccessivamente gravoso - vincolare le parti con un contratto di locazione di durata ordinaria (di regola 4 + 4).
Tuttavia, nella legge sulle locazioni abitative non vi è alcuna norma che, ai fini della validità e/o dell’efficacia del contratto di locazione di natura transitoria, vieti al conduttore di fissare la propria residenza nell’immobile locato.
Allo stesso modo, in tema di residenza, l’art. 43 c.c. - come giustamente rilevato nel quesito - si limita a stabilire che “la residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale”.
La giurisprudenza (si veda la recente Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 15/02/2021, n. 3841) ha precisato che “la residenza della persona ex art. 43 c.c. è determinata dall'abituale e volontaria dimora in un determinato luogo, caratterizzata dalla permanenza per un periodo apprezzabile e dall'intenzione di abitarvi in modo stabile, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali, familiari ed affettive”.
Ai fini della residenza, quindi, non si richiede che la permanenza nell’immobile in cui ci si trasferisce abbia una durata minima e che, quindi, l’inquilino debba disporre almeno di un contratto di locazione di durata ordinaria.
Occorre, semmai, che tale permanenza non abbia carattere di semplice occasionalità e che possieda una relativa stabilità (semplificando, non si potrebbe trasferire la residenza, e di certo il Comune non lo permetterebbe, per un periodo di pochi giorni).
Nel nostro caso, la durata di almeno dodici mesi della locazione integra sicuramente il carattere di abitualità per un periodo di tempo apprezzabile, tanto è vero che il Comune non ha opposto difficoltà al trasferimento della residenza.
Non vi sono, in ogni caso, conseguenze sulla validità o sull’efficacia del contratto di locazione stipulato.

O.R. chiede
lunedì 09/08/2021 - Piemonte
“Buongiorno sono già stata vs. cliente (rif Q202127790) ed ho bisogno di un chiarimento su una risposta e poi porre un nuovo quesito.
Sono separata legalmente (con attesa di giudizio di appello in quanto lui ha fatto ricorso) e il giudice ha stabilito alternanza nella casa coniugale - villa indipendente su piu' piani (ormai da tre anni) nonostante i figli maggiorenni. Io nei 15 gg NON DI TURNO abito sotto in un monolocale a me intestato (con purtroppo impianti in comune) mentre lui nei suoi 15 GG NON DI TURNO abita nello stesso comune ma da un'altra parte dove ha preso il domicilio.
Purtroppo all'anagrafe del nostro comune se vado a fare lo stato di famiglia risultiamo tutti e quattro come "una famiglia normale" ma così non è e io non voglio che lui risulti ancora.
Adesso ho dei documenti da compilare perché uno dei figli non è più a carico fiscalmente e per dichiararlo al datore di lavoro mi chiedono autocertificazione di stato di famiglia.
Posso dichiarare che il mio stato di famiglia è composto da me e dai miei due figli?
Il comune lo accetterà? Altrimenti devo aspettare la sentenza di appello e vedere se il giudice assegna la casa a lui o a me ma comunque il problema dello Stato di famiglia persiste.
Cosa comporta fiscalmente e come tributi locali (tari) la variazione di stato di famiglia?

Per l'altro quesito Q202127790 quando mi dite che gli impianti devono essere separati perché a tutti gli effetti siamo un CONDOMINIO ma a lui richiesto piùvolte si oppone devo agire con un legale? E come?
Inoltre la caldaia che a suo tempo era stata acquistata in comune e adesso bisogna acquistarne un'altra (la seconda) chi la paga?

Attendo vs. risposta”
Consulenza legale i 31/08/2021
L’art. 4, D.P.R. n. 223/1989, definisce la famiglia anagrafica come un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, unione civile, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune.
Secondo quanto si legge nel quesito, il marito ha stabilito soltanto il domicilio in un’altra abitazione, ma non la residenza (presumibilmente perché attende l’esito del giudizio relativo all’assegnazione della casa coniugale); proprio il fatto che entrambi i coniugi sono ancora residenti -insieme ai figli- nello stesso immobile è il motivo per cui tutti questi soggetti risultano ancora nello stesso stato di famiglia.
Ad oggi, quindi, non sarebbe corretto -né consigliabile- rendere una autocertificazione che escluda il marito, in quanto la dichiarazione non corrisponderebbe a quanto risultante nell’anagrafe comunale (in sostanza, non sarebbe una dichiarazione veritiera).
Tanto chiarito, nel nostro caso l’unico modo per scindere gli stati di famiglia è quello di far venir meno il presupposto della coabitazione.
In base a quanto illustrato nella richiesta di parere, pare che all’interno dell’immobile sia già presente un’abitazione separata e intestata soltanto alla moglie, presso la quale ella potrebbe in astratto stabilire la propria residenza.
Tuttavia, bisogna considerare, oltre agli effetti che questa scelta potrebbe produrre sulla causa in corso (da valutare molto attentamente con il proprio legale), che ciò comporterebbe l’uscita della moglie dallo stato di famiglia, ma non del marito, che rimarrebbe residente insieme ai figli presso la casa coniugale.
Pertanto, una soluzione di questo tipo non sembra di particolare utilità nel caso di specie e, purtroppo, per risolvere la situazione non si può fare altro che attendere l’esito dell’appello relativo all’assegnazione della casa coniugale.
Dopo la fine del giudizio, il coniuge non assegnatario dovrà trasferire la residenza in altro luogo, scindendo così il proprio stato di famiglia da quello dell’altro.
Per quanto riguarda la TARI, si specifica che questa viene calcolata combinando i due parametri costituiti dal numero di persone residenti nello stesso immobile e dalla superficie dell’abitazione.
Ne consegue che l’eventuale futuro spostamento della residenza di uno dei coniugi comporterebbe anche una rideterminazione (presumibilmente al ribasso) dell’importo della tassa dovuta al Comune.


Con riferimento agli ulteriori quesiti formulati, nella precedente consulenza si è spiegato che, nel caso di frazionamento dell’immobile originario in due distinte unità immobiliari, il proprietario di una di esse avrebbe il diritto di distaccarsi dagli impianti comuni.
Essendo presumibilmente necessarie delle opere che andrebbero ad incidere sulle proprietà comuni (o sulla porzione dell’altro comproprietario), nel caso in cui perduri l’opposizione di quest’ultimo sarà bene rivolgersi ad un legale, che potrà consigliare gli opportuni passi da compiere, anche in relazione agli specifici interventi da eseguire in concreto.
Infine, le spese per una nuova caldaia sarebbero evidentemente a carico di chi la installa, essendo essa destinata a servire un appartamento di proprietà esclusiva.

RENATO R. chiede
giovedì 11/03/2021 - Campania
“Salve, dovrei presentare istanza di rinuncia all'eredità di mio padre P.R., nato a T. il …….. e deceduto in B. il ………, dopo una lunga degenza in una Casa di cura.
PREMESSA.
Prima di trasferirsi a B., mio padre viveva, con la sua nuova famiglia che si era creata in seconde nozze, a N., in Via …………., in un appartamento di sua proprietà.
Poi, venduto tale immobile, si trasferì, da solo, in India per motivi spirituali, portando con sé il ricavato della vendita.
Dopo un breve periodo di soggiorno in India, mio padre, si ammalò gravemente di malaria, per cui fece ritorno in Italia presso un suo amico a B. che lo ricoverò in una Casa di cura sita nella stessa B.
Lì, dopo una lunga degenza di circa un anno, trascorsa in uno stato di assoluta incoscienza dovuta, sia alla malattia contratta in India che a un sopraggiunto, avanzato, stato di demenza senile, è deceduto in data……..
Dal suo ritorno in Italia, io non ho avuto più contatti con mio padre.
Mi fu riferito dal suo amico di B. che, soltanto dopo la sua morte, qualche membro della sua nuova famiglia , andò ai suoi funerali.
Qualche anno fa, andai alla Volontaria Giurisdizione del Tribunale di N. per presentare istanza di rinuncia all'eredità di mio padre, stante la situazione debitoria da esso accumulata in B.
All'atto della presentazione della documentazione, tra cui il certificato di morte, il Cancelliere della Volontaria Giurisdizione, sostenne che il Tribunale di competenza non era quello di N., bensì quello di P., ovvero quello nella cui giurisdizione ricade B., perché lì mio padre, secondo il Cancelliere, avrebbe avuto il suo ultimo domicilio, presso la Casa di cura. Luogo dei suoi "affetti e dei suoi interessi".
Orbene, come anticipato in precedenza, mio padre è deceduto in uno stato quasi vegetativo e in totale solitudine, ad eccezione del suo vecchio amico che, saltuariamente prima e poi solo occasionalmente, andava a trovarlo.
Mio padre aveva un conto corrente bancario presso l'ex Banco di N. dove gli veniva accreditata la pensione ma che non era assolutamente in grado di gestire. Da ciò, nasce la sua situazione debitoria con la Casa di riposo.
Sono venuto a conoscenza che la giacenza su detto conto corrente fu prelevata da un Avvocato, quale sua parcella per la causa di separazione in corso tra mio padre e la seconda moglie.
Successivamente, su indicazioni del Cancelliere di N., mi sono recato presso la Volontaria Giurisdizione del Tribunale di P.
Anche lì non hanno accettato la mia istanza di rinuncia, sostenendo che dovesse essere presentata dove mio padre aveva avuto la sua ultima residenza, ovvero a N. anche dopo aver fatto presente che lì non aveva più una casa dove risiedere o eleggere il proprio domicilio, avendo egli venduta la casa di Via…… e avendo trasferito tutto il ricavato in India.
Inoltre, dal certificato di residenza storica, che allego, risulta che mio padre ebbe il suo ultimo domicilio a N., in Via…….
Orbene, tanto premesso, e in considerazione dell'avvicinarsi della scadenza dei dieci anni, il mio quesito è questo: presso quale Tribunale devo presentare la mia rinuncia all'eredità paterna? N. o P.?
Grazie

Consulenza legale i 17/03/2021
La norma a cui occorre fare riferimento è l’art. 456 del c.c., secondo cui la successione si apre al momento della morte del de cuius e nel luogo del suo ultimo domicilio.
Per la nozione di “ultimo domicilio” occorre fare riferimento a quanto specificato dall’art. 43 del c.c., il quale qualifica come tale il luogo in cui una persona stabilisce la sede principale dei suoi affari e interessi, distinguendolo dalla residenza, di cui si occupa il secondo comma di questa stessa norma, e che il legislatore individua nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale.

Il problema che si pone, dunque, è sulla base di quali criteri stabilire con esattezza quale sia l’ultimo domicilio del de cuius qualora questo non coincida con la residenza o, comunque, qualora si presentino casi dubbi come quello in esame.
Per fare ciò occorre analizzare con attenzione la nozione di domicilio, la quale è caratterizzata da un elemento obiettivo (ossia il riferimento al luogo in cui convergono e si concentrano gli interessi del soggetto) e da un elemento soggettivo (ossia, l'intenzione della persona, espressa anche mediante comportamento concludente, di scegliere proprio quel luogo come centro dei propri interessi).
Il solo elemento soggettivo, ovvero la semplice dichiarazione di volontà di un soggetto, non è di per sé sufficiente a creare il suo domicilio, occorrendo anche puntare l’attenzione sulla sistemazione logistica delle attività facenti capo al soggetto.
Di ciò ne è prova il fatto stesso che l’art. 43 c.c. fa riferimento al luogo in cui la persona concentra i suoi affari ed interessi, e pertanto è proprio alla locuzione “affari ed interessi” che occorre dedicare l’attenzione.

A tal proposito, parte della dottrina ritiene che l’inciso “affari e interessi” esprima un concetto di tipo esclusivamente economico e patrimoniale, aggiungendo che per gli altri interessi della persona occorra fare riferimento al luogo di residenza (così si spiega, tra l’altro, l'autonomia concettuale della residenza dal domicilio voluta dal legislatore).

Secondo altra parte della dottrina, invece, a tale inciso deve assegnarsi un significato più ampio, comprensivo sia delle attività di natura patrimoniale che di indole morale.
E’ questo l’orientamento fatto proprio dalla giurisprudenza (in particolare possono citarsi Cass. n. 408/1970, Cass. n. 435/1973, Cass. n. 2936/1980, Cass. n. 5006/05), secondo cui il domicilio va riferito a tutti i rapporti del soggetto, non solo economici, ma anche morali e familiari, aggiungendo espressamente che ciò vale anche quando si tratti dell'ultimo domicilio del de cuius a cui fanno riferimento l’art. 456 c.c. e l’art. 22 del c.p.c..
In tal senso si è espressa Cass.n. 7750/1999 e ancora più di recente Cass. n. 5811 del 23.03.2015, affermando che “La determinazione della competenza per territorio nelle cause ereditarie va stabilita (art. 22 c.p.c. e 456 c.c.) con riferimento al luogo in cui il "de cuius" aveva al momento della morte l'ultimo domicilio, intendendosi con tale locuzione il luogo ove la persona, alla cui volontà occorre avere principalmente riguardo, concentra la generalità dei suoi interessi sia materiali ed economici, sia morali, sociali e familiari”.

Ora, nella generalità dei casi la residenza anagrafica coincide con il domicilio, ma possono presentarsi dei casi, come quello in esame, in cui residenza e domicilio potrebbero non coincidere, in quanto il soggetto conserva una residenza solo anagrafica (presso il comune di N.), ma di fatto vive in luogo diverso (comune di B. presso la casa di cura).
In questi casi è soltanto al luogo di ultimo domicilio del de cuius (il comune di B.) che occorre avere riguardo per determinare il Tribunale competente a ricevere la dichiarazione di accettazione o di rinunzia alla sua eredità, essendo questo il luogo in cui la persona ha concentrato la generalità quantomeno dei suoi interessi morali e sociali, non potendosi del resto configurare per il soggetto in questione interessi materiali ed economici in Italia già dal suo trasferimento in India.

A nulla vale opporre, come ha fatto la Cancelleria del Tribunale di B, che il luogo di ultima residenza del de cuius è N., in quanto è alla nozione di ultimo domicilio che occorre fare riferimento ed ove il legislatore ha voluto riferirsi alla nozione di “ultima residenza” lo ha detto espressamente, come ha fatto all’art. 15 della Legge n. 383/2001 al fine di determinare l’ufficio della Agenzia delle Entrate competente a ricevere la denuncia di successione.

Pertanto, qualora il Cancelliere del Tribunale di B. dovesse continuare a rifiutarsi di ricevere la dichiarazione di rinunzia all’eredità, si consiglia di invitarlo a redigere un rifiuto motivato.
In ogni caso, non deve preoccupare il fatto che stanno per scadere i dieci anni dall’apertura della successione, in quanto se non si è mai avuto il possesso di alcun bene ereditario e non è stato posto in essere alcun atto di gestione del patrimonio del de cuius (patrimonio che sembra proprio non esservi), lo scadere dei dieci anni comporterà automaticamente ed ex lege la perdita per prescrizione sia del diritto di accettare (anche tacitamente) che di rinunziare all’eredità.


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