Brocardi.it - L'avvocato in un click! CHI SIAMO   CONSULENZA LEGALE

Articolo 2113 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 03/08/2024]

Rinunzie e transazioni

Dispositivo dell'art. 2113 Codice Civile

Le rinunzie [1236] e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide.

L'impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza [2964], entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima [197 disp. att.].

Le rinunzie e le transazioni di cui ai commi precedenti possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà.

Le disposizioni del presente articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412 ter e 412 quater del codice di procedura civile.

Ratio Legis

L'invalidità prevista dalla norma in commento riguarda solo i diritti non disponibili, con la conseguenza che saranno valide le transazioni aventi ad oggetto diritti disponibili del lavoratore.

Massime relative all'art. 2113 Codice Civile

Cass. civ. n. 9160/2022

L'accordo transattivo sottoscritto dal lavoratore, che contenga una dichiarazione di rinuncia, nella specie "all'eventuale risarcimento danni per qualsiasi titolo", può assumere il valore di rinuncia o di transazione, che il lavoratore ha l'onere di impugnare nel termine di cui all'art. 2113 c.c., alla condizione che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili "aliunde", che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi. Il relativo accertamento costituisce giudizio di merito, censurabile, in sede di legittimità, soltanto in caso di violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale o in presenza di vizi della motivazione.

Cass. civ. n. 1887/2022

La disciplina dell'annullabilità degli atti contenenti rinunce del lavoratore a diritti garantiti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, prevista dall'art. 2113 c.c., riguarda le ipotesi di rinuncia a un diritto già acquisito, mentre non trova applicazione qualora il diritto sia ancora controverso e pertanto non possa dirsi già acquisito nel patrimonio del rinunciante.

Cass. civ. n. 29626/2021

L'impugnazione del lavoratore avverso rinunce e transazioni aventi ad oggetto propri diritti, prevista dall'art. 2113 c.c., può essere effettuata anche con atto sottoscritto da un legale per conto del prestatore d'opera, in quanto la possibilità dell'intervento di terzi per conto del lavoratore, prevista dall'art. 6 della l. n. 604 del 1966, trova applicazione anche con riguardo alla fattispecie di cui al menzionato art. 2113, mentre la necessità della forma scritta richiesta da tale articolo non comporta, ai sensi dell'art. 1392 c.c., che l'atto del legale debba essere preceduto da procura scritta, integrando detta impugnativa un atto unilaterale non avente contenuto patrimoniale.

Cass. civ. n. 24078/2021

In tema di rapporto di lavoro, la categoria dei diritti indisponibili - cui si applica, qualora abbiano formato oggetto di rinunzie o transazioni, l'art. 2113 c.c. - comprende non soltanto i diritti di natura retributiva o risarcitoria correlati alla lesione di diritti fondamentali della persona, ma, alla luce della "ratio" sottesa alla disposizione codicistica, posta a tutela del lavoratore, quale parte più debole del rapporto di lavoro, ogni altra posizione regolata in via ordinaria attraverso norme inderogabili, salvo che vi sia espressa previsione contraria.

Cass. civ. n. 21617/2018

L'art. 2113 c.c. è applicabile anche nell'ipotesi in cui il lavoratore abbia già intrapreso un'azione giudiziaria, in quanto la sua posizione di soggezione nei confronti del datore di lavoro non viene meno per il fatto che egli abbia azionato un diritto o sia assistito da un legale; ne consegue che, ai sensi del citato articolo, restano impugnabili nel termine di sei mesi tutte le rinunce e transazioni che non siano intervenute nella forma della conciliazione giudiziale o sindacale, a nulla rilevando che le suddette intervengano dopo che il lavoratore abbia già azionato il diritto in giudizio.

Cass. civ. n. 27940/2017

La disciplina dettata dall’art. 2113 c.c. si applica alle rinunce e transazioni aventi ad oggetto qualsiasi diritto di natura retributiva o risarcitoria del lavoratore, anche se riconosciuto giudizialmente, atteso che un tale diritto non diviene diverso solo perché accertato dal giudice, laddove l’unica differenza è nel regime di prescrizione, che per l’”actio iudicati” è sempre decennale, anche a fronte di crediti originariamente suscettibili di prescrizione in un termine inferiore.

Cass. civ. n. 20590/2017

La natura transattiva di un accordo stipulato tra datore di lavoro e lavoratore può essere esclusa quando, oltre al dato formale della mancata esplicitazione dei presupposti del negozio transattivo, sia riscontrabile, sulla base di una complessiva valutazione del medesimo, nonché della condotta tenuta dalle parti, una carenza assoluta degli elementi tipici del negozio stesso, quali la “res litigiosa”, le reciproche concessioni, la volontà di porre fine a una lite. (Nella specie, la S.C., dando applicazione al principio, ha confermato la pronuncia di merito che aveva escluso la natura transattiva di un negozio in cui non erano enunciate le diverse posizioni contrapposte, né la specifica pretesa economica del lavoratore, risultando solo una sua generica dichiarazione di non avere nulla a pretendere e di accettazione di una somma di denaro “in via transattiva”, a fronte di un rapporto lavorativo durato circa quattordici anni, di cui dieci non formalizzati).

Cass. civ. n. 18321/2016

La quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore, che contenga una dichiarazione di rinuncia a maggiori somme riferita, in termini generici, ad una serie di titoli in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, in quanto assimilabile alle clausole di stile e non sufficiente di per sé a comprovare l'effettiva sussistenza di una volontà dispositiva, può assumere il valore di rinuncia o di transazione a condizione che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili "aliunde", che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito ritenendo che il riferimento generico all'indennità di anzianità maturata al 31 maggio 1982, presente nell'accordo sottoscritto all'atto della risoluzione del rapporto, fosse del tutto inidoneo a radicare nel lavoratore la consapevolezza di rinunciare al computo del compenso per lavoro straordinario ai fini della determinazione del t.f.r. nel suo complesso).

Cass. civ. n. 6265/2014

Le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto la cessazione del rapporto di lavoro, anche se convenute in una conciliazione raggiunta in sede sindacale, non rientrano nell'ambito di applicazione dell'art. 2113 cod. civ., con conseguente irrilevanza degli eventuali vizi formali del relativo procedimento, attesa la non impugnabilità della risoluzione consensuale del rapporto ex art. 2113 cod. civ.

Cass. civ. n. 19831/2013

La dichiarazione sottoscritta dal lavoratore può assumere valore di rinuncia o di transazione, con riferimento alla prestazione di lavoro subordinato ed alla conclusione del relativo rapporto, sempre che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati ovvero obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi. Il relativo accertamento costituisce giudizio di merito, censurabile, in sede di legittimità, soltanto in caso di violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale o in presenza di vizi della motivazione.

Cass. civ. n. 11767/2011

Non è ravvisabile una volontà negoziale nella dichiarazione, sottoscritta dal lavoratore, ma predisposta dal datore di lavoro in occasione della corresponsione del trattamento di fine rapporto, di rinuncia a diritti, quando essa sia accompagnata dall'espressione "con riserva", in quanto l'indeterminatezza del contenuto rende nulla la complessiva dichiarazione, ai sensi degli artt. 1346 e 1418, secondo comma, c.c.

Cass. civ. n. 22105/2009

La transazione conclusa tra dipendente e datore di lavoro avente ad oggetto la risoluzione del rapporto di lavoro - che non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 2113 c.c. in quanto, anche quando è garantita la stabilità del posto di lavoro, l'ordinamento riconosce al lavoratore il diritto potestativo di disporre negozialmente e definitivamente del posto di lavoro stesso, in base all'art. 2118 c.c. - determina il venir meno dell'illecito civile ascritto al datore di lavoro in relazione al licenziamento, con la conseguenza che non sono più dovute al lavoratore le somme riconosciute allo stesso prima dell'atto transattivo per effetto di annullamento giudiziale del licenziamento.

Cass. civ. n. 18285/2009

Nell'ipotesi in cui la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, o le dimissioni (riferibili ad un diritto disponibile del lavoratore e quindi sottratte alla disciplina dell'art. 2113 c.c.) siano poste in essere nell'ambito di un contesto negoziale complesso, il cui contenuto investa anche altri diritti del prestatore derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dall'autonomia collettiva, il precetto posto dall'art. 2113 cit. trova applicazione in relazione all'intero contenuto dell'atto (che è quindi soggetto a impugnazione), sempre che la clausola relativa alle dimissioni non sia autonoma ma strettamente interdipendente con le altre e che i diritti inderogabili transatti siano noti e specificati, non potendosi desumere da una formula generica contenuta in una clausola di stile. (Nella specie, avente ad oggetto un accordo transattivo tra le Poste italiane s.p.a. e alcuni dipendenti, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, escluda la presenza di un atto complesso, aveva ritenuto che la rinunzia a diritti indisponibili integrasse una mera clausola di stile e che l'unico effettivo oggetto della transazione fosse un diritto rinunziabile e disponibile, quale il recesso dal rapporto di lavoro in cambio di un corrispettivo nell'ambito di una ristrutturazione produttiva della società datrice di lavoro).

Cass. civ. n. 6221/2009

Gli atti di disposizione, ai quali si applica la disciplina dell'art. 2113 c.c., debbono attenere alle conseguenze patrimoniali del mancato o irregolare versamento dei contributi e non già all'obbligo del datore di lavoro di corrispondere i contributi all'INPS, perché quest'obbligo non può mai venir meno per effetto di pattuizioni intercorse tra il datore di lavoro ed il lavoratore all'inizio o durante lo svolgimento del rapporto, essendo queste espressamente travolte dalla nullità ex art. 2115 c.c. ed inoperanti nei confronti dell'ente previdenziale.

Cass. civ. n. 10218/2008

L'accordo transattivo sottoscritto dal lavoratore, che contenga una dichiarazione di rinuncia «all'eventuale risarcimento danni per qualsiasi titolo» può assumere il valore di rinuncia o di transazione, che il lavoratore ha l'onere di impugnare nel termine di cui all'art. 2113 c.c., alla condizione che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi. Ne consegue che il diritto al risarcimento del danno biologico (nella specie, inerente il morbo di Parkinson) che si assume esser derivato dal rapporto non può ritenersi rientrare nell'oggetto della transazione, essendo il danno in questione accertato solo successivamente.

Cass. civ. n. 20780/2007

Perché l'accordo tra il lavoratore ed il datore di lavoro possa qualificarsi atto di transazione è necessario che contenga lo scambio di reciproche concessioni, sicché, ove manchi l'elemento dell'aliquid datum, aliquid retentum essenziale ad integrare lo schema della transazione, questa non è configurabile. (Nella specie, la S.C. ha cassato per vizio di motivazione la sentenza di merito che aveva ritenuto la natura transattiva dell'atto recante dichiarazione di voler transigere ogni diritto derivante dall'intercorso rapporto di lavoro senza considerare nella motivazione che la somma corrisposta al lavoratore nel preteso atto di transazione corrispondeva esattamente a quanto a lui spettante per trattamento di fine rapporto).

Cass. civ. n. 12561/2006

Riguardo a diritti già maturati, il negozio dispositivo integra una mera rinuncia o transazione, rispetto alla quale la dipendenza del diritto da norme inderogabili comporta, in forza dell'art. 2113 c.c., l'annullabilità dell'atto di disposizione, ma non la sua nullità. Nei confronti di diritti ancora non sorti o maturati la preventiva disposizione può comportare, invece, la nullità dell'atto, poiché esso è diretto a regolamentare gli effetti del rapporto di lavoro in maniera diversa da quella fissata dalle norme di legge o di contratto collettivo (principio applicato dalla S.C. in controversia in cui la decisione di merito, concernente conciliazione giudiziale con rinuncia dei lavoratori ai diritti e all'azione inerenti a presunta intermediazione di manodopera, non era stata adeguatamente censurata non essendo stato dedotto, neanche in sede di legittimità, che l'azione dei lavoratori fosse diretta a far valere la nullità di un atto di disposizione di diritti non ancora maturati e comunque non essendo stato fatto valere lo specifico principio di diritto in base a cui può dedursi in determinate situazioni la nullità e non la semplice annullabilità).

Cass. civ. n. 16283/2004

In forza dell'ultimo comma dell'art. 2113 c.c., che richiama gli artt. 410 e 411 c.p.c., il negozio transattivo stipulato in sede conciliativa, giudiziale o stragiudiziale, è assoggettato ad un regime giuridico derogatorio della regola generale – stabilita dai commi secondo e terzo della predetta disposizione – dell'impugnabilità nel termine decadenziale di sei mesi, in quanto l'intervento del terzo investito di una funzione pubblica (giudice, autorità amministrativa, associazione di categoria) è ritenuto idoneo a superare la presunzione di non libertà del consenso del lavoratore. Ne consegue che non è impugnabile l'accordo con cui il datore di lavoro in sede sindacale pattuisca l'erogazione di somme notevolmente maggiori rispetto a quelle che si potevano erogare, ottenendo in cambio la rinuncia sia all'impugnativa del licenziamento che ad ogni altro diritto riconducibile al precorso rapporto di lavoro.

Cass. civ. n. 16168/2004

La disposizione dell'art. 2113, primo comma, c.c., che stabilisce l'invalidità delle rinunzie e transazioni aventi per oggetto diritto del prestatore di lavoro derivante da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti collettivi concernenti i rapporti di cui all'art. 409 c.p.c., trova il suo limite d'applicazione nella previsione di cui all'ultimo comma del citato art. 2113 c.c., che fa salve le conciliazioni intervenute ai sensi degli artt. 185, 410 e 411 c.p.c., ossia quelle conciliazioni nelle quali la posizione del lavoratore viene ad essere adeguatamente protetta nei confronti del datore di lavoro per effetto dell'intervento in funzione garantista del terzo (autorità giudiziaria, amministrativa o sindacale ) diretto al superamento della presunzione di condizionamento della libertà d'espressione del consenso da parte del lavoratore. In tali ipotesi, peraltro, mentre la rinunzia, in quanto negozio unilaterale non recettizio, sortisce l'effetto dell'estinzione dei diritti patrimoniali connessi al rapporto di lavoro e già acquisiti al patrimonio del lavoratore, anche in assenza del beneficiario, la transazione, in quanto contratto, richiede l'incontro delle volontà di tutte le parti interessate e la contestuale sottoscrizione del verbale di conciliazione.

Cass. civ. n. 13466/2004

L'impugnazione di una rinuncia o transazione ex art. 2113 c.c. da parte del lavoratore ne determina l'automatica caducazione anche se proposta oltre il termine di sei mesi prescritto dalla citata disposizione, essendo onere del datore di lavoro che intenda far valere la rinuncia o la transazione eccepire la decadenza del lavoratore dalla impugnazione nel termine di cui all'art. 416 c.p.c.

Cass. civ. n. 2734/2004

Con riferimento alla disciplina dettata in tema di rinunce e transazioni, di cui all'art. 2113 c.c.,(disponente l'invalidità di tali atti quando hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti ed accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'art. 409 c.p.c.), diritti di natura retributiva o risarcitoria indisponibili da parte del lavoratore non devono ritenersi soltanto quelli correlati alla lesione di diritti fondamentali della persona, atteso che la ratio dell'art. 2113 c.c. consiste nella tutela del lavoratore, quale parte più debole del rapporto di lavoro, la cui posizione in via ordinaria viene disciplinata attraverso norme inderogabili, salvo che vi sia espressa previsione contraria. Ne consegue che è annullabile la transazione riguardante diritti di natura retributiva come il compenso per il plus orario e relativi accessori.

Cass. civ. n. 15371/2003

La quietanza liberatoria rilasciata dal lavoratore al proprio datore di lavoro - inserita nel caso di specie all'interno di un verbale di conciliazione - non può integrare una rinuncia a tutti gli eventuali diritti connessi al rapporto, e alle azioni esercitabili in dipendenza di essi, in difetto dell'indefettibile presupposto che il lavoratore abbia avuto l'esatta rappresentazione dei diritti che intendeva dismettere in favore del proprio datore di lavoro, ma può avere solo il valore di dichiarazione di scienza, ovvero di mera manifestazione del convincimento soggettivo del lavoratore stesso di essere stato soddisfatto in tutti i suoi diritti, e come tale, è del tutto inidonea a precludere l'azione giudiziaria volta a far valere diritti che non risultino soddisfatti effettivamente.

Cass. civ. n. 17785/2002

Con riguardo alla speciale impugnativa della transazione tra datore di lavoro e lavoratore, prevista dall'art. 2113, terzo comma, c.c., l'intervento dell'ufficio provinciale del lavoro è in sé idoneo a sottrarre il lavoratore a quella condizione di soggezione rispetto al datore di lavoro, che rende sospette di prevaricazione da parte di quest'ultimo le transazioni e le rinunce intervenute nel corso del rapporto in ordine a diritti previsti da norme inderogabili, sia allorché detto organismo partecipi attivamente alla composizione delle contrastanti posizioni delle parti, sia quando in un proprio atto si limiti a riconoscere, in una transazione già delineata dagli interessati in trattative dirette, l'espressione di una volontà non coartata del lavoratore. Consegue che anche in tale ultimo caso la transazione si sottrae alla impugnativa suddetta.

Cass. civ. n. 13616/2002

L'art. 2113 c.c. è applicabile anche nell'ipotesi in cui il lavoratore abbia già intrapreso un'azione giudiziaria, in quanto la sua posizione di soggezione nei confronti del datore di lavoro non viene meno per il fatto che egli abbia azionato un diritto o sia assistito da un legale, ne consegue che restano impugnabili ai sensi del citato art. 2113 c.c. nel termine di sei mesi tutte le rinunce e transazioni che non siano intervenute nella forma della conciliazione giudiziale o sindacale, a nulla rilevando che le suddette intervengano dopo che il lavoratore abbia già azionato il diritto in giudizio.

Cass. civ. n. 11107/2002

La disposizione dell'art. 2213, primo comma, c.c., che stabilisce l'invalidità delle rinunzie e transazioni aventi per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti collettivi concernenti i rapporti di cui all'art. 409 c.p.c. — disposizione che è conforme al principio generale sancito dall'art. 1966, secondo comma, c.c., in tema di nullità delle transazioni correlate a diritti sottratti alla disponibilità delle parti, per loro natura o per espressa disposizione di legge — trova il suo limite di applicazione nella previsione di cui all'ultimo comma del citato. art. 2113 c.c., che fa salve le conciliazioni intervenute ai sensi degli artt. 185, 410 e 411 c.p.c., ossia quelle conciliazioni nelle quali la posizione del lavoratore viene ad essere adeguatamente protetta nei confronti del datore di lavoro per effetto dell'intervento in funzione garantista del terzo (autorità giudiziaria, amministrativa o sindacale) diretto al superamento della presunzione di condizionamento della libertà di espressione del consenso da parte del lavoratore, essendo la posizione di quest'ultimo adeguatamente protetta nei confronti del datore di lavoro.

Cass. civ. n. 9407/2001

La quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore, che contenga una dichiarazione di rinuncia a maggiori somme riferita, in termini generici, ad una serie di titoli di pretese in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, può assumere il valore di rinuncia o di transazione, che il lavoratore abbia l'onere di impugnare nei termini di cui all'art. 2113 c.c., alla condizione che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi; infatti enunciazioni di tal genere sono assimilabili alle clausole di stile e non sono sufficienti di per sé a comprovare l'effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell'interessato.

Cass. civ. n. 13134/2000

Il lavoratore pub liberamente disporre del diritto di impugnare il licenziamento, facendone oggetto di rinunce o transazioni, che sono sottratte alla disciplina dell'art. 2113 c.c., che considera invalidi e perciò impugnabili i soli atti abdicativi di diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti o accordi collettivi; e, infatti, l'interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto di lavoro rientra nell'area della libera disponibilità, come è desumibile dalla facoltà di recesso ad nutum di cui ii medesimo dispone, dall'ammissibilità di risoluzioni consensuali del contratto di lavoro e dalla possibilità di consolidamento degli effetti di un licenziamento illegittimo per mancanza di una tempestiva impugnazione.

Cass. civ. n. 3345/2000

La mera accettazione del trattamento di fine rapporto ancorché non accompagnata da alcuna riserva non può essere interpretata, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinuncia ai diritti derivanti dall'illegittimità del licenziamento, non sussistendo alcuna incompatibilità logica e giuridica tra l'accettazione di detto trattamento e la volontà di ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, al fine di conseguire l'ulteriore diritto alla riassunzione o al risarcimento del danno. (Nella specie la S.C. ha ritenuto corretta anche la concorrente motivazione della sentenza di merito circa l'irrilevanza della rinuncia a precedente impugnazione stragiudiziale in riferimento ad un licenziamento orale, non soggetto all'onere di impugnativa a pena di decadenza previsto dall'art. 6 della legge n. 604 del 1966).

Cass. civ. n. 1194/2000

Le quietanze a saldo o liberatorie che il lavoratore sottoscriva a seguito della risoluzione del rapporto, accettando senza esprimere riserve la liquidazione e le altre somme dovutegli alla cessazione del rapporto, non implicano di per sé, anche se contenenti la menzione del licenziamento, l'accettazione del medesimo e la rinuncia ad impugnarlo o all'impugnazione già proposta; tuttavia, possono assumere tale significato negoziale, in presenza di altre circostanze precise, concordanti e obiettivamente concludenti che dimostrino l'intenzione del lavoratore di accettare l'atto risolutivo.

Cass. civ. n. 11616/1999

Ai fini dell'impugnativa di cui all'art. 2113 c.c. non è necessaria la richiesta di annullamento dell'atto di rinunzia o di transazione, ma al lavoratore viene concesso di liberarsi dai vincoli derivanti dall'atto compiuto sulla base di una semplice manifestazione di volontà, alla quale si collega direttamente l'effetto di privare di efficacia l'atto dismissorio, attraverso una pronuncia giudiziale di mero accertamento.

Cass. civ. n. 3233/1999

L'art. 2113 c.c. non ha l'effetto di rendere annullabili tutte le rinunce e le transazioni del lavoratore indipendentemente dalla natura dei diritti che ne costituiscono oggetto, ma si riferisce specificamente ai diritti di natura retributiva e risarcitoria derivanti al lavoratore dalla lesione di fondamentali diritti alla persona (come il diritto alla salute, al riposo settimanale, alle ferie, alla previdenza e assistenza etc., gli atti dismissori dei quali rimangono soggetti al più radicale regime invalidante della nullità ex art. 1418 c.c.). Soltanto per tali diritti patrimoniali — i quali, secondo la disciplina comune, sarebbero pienamente dismissibili — opera la speciale disciplina dettata dall'art. 2113 cit. che, da un lato, rende invalidi i negozi di rinunzia e transazione solo se tempestivamente impugnati nel termine semestrale e, dall'altro, considera estranee al regime di invalidità e di impugnativa da essa introdotto le conciliazioni riconducibili alla previsione del suo ultimo comma. (Fattispecie in materia di crediti risarcitori maturati per effetto dell'illegittimo frazionamento del riposo settimanale).

Cass. civ. n. 12556/1998

L'indisponibilità dei diritti del lavoratore subordinato derivanti dalle norme imperative (quale, nella specie, il diritto al riposo settimanale fruito in modo frazionato) non comporta l'indisponibilità del diritto al risarcimento dei danni conseguenti alla violazione di tali diritti e, conseguentemente, non esclude che quest'ultimo diritto, anche se derivante, in via mediata e indiretta, da norma inderogabile di legge, possa formare oggetto di transazione.

Cass. civ. n. 11451/1998

La quietanza ha valore probatorio di regola limitatamente alla somma della quale attesta la ricezione tranne che in base a particolari elementi di fatto che devono essere individuati si evidenzi la volontà abdicatoria del richiedente in relazione ad altri importi dovuti per il medesimo titolo — oltre quelli indicati come percepiti — o la volontà comune delle parti in relazione ad un dissenso sia pure potenziale su un determinato rapporto giuridico di evitare ogni contesa mediante reciproche concessioni.

Cass. civ. n. 7730/1998

Le dimissioni del lavoratore subordinato sono riferibili ad un diritto disponibile del lavoratore e quindi sottratte alla disciplina dell'art. 2113 c.c., salvo che non siano poste in essere nell'ambito di un atto negoziale complesso, il cui contenuto investa anche altri diritti del prestatore derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dall'autonomia collettiva, atto che quindi risulta soggetto al precetto posto da detta norma in relazione all'intero suo contenuto.

Cass. civ. n. 6857/1998

La rinunzia al diritto alla retribuzione in corrispettivo della prestazione lavorativa previsto e tutelato dalla Costituzione e dal codice civile quando sia anteriore alla maturazione del diritto è viziata da nullità assoluta e soltanto quando esso sia acquisito al patrimonio del titolare l'invalidità stabilita dall'art. 2113 c.c. per le rinunzie e le transazioni relative a diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge si qualifica come ipotesi non di nullità assoluta ma di annullabilità condizionata all'esercizio della facoltà di impugnazione nel termine perentorio di cui allo stesso articolo.

Cass. civ. n. 5930/1998

La dichiarazione del lavoratore che dà atto di aver ricevuto una determinata somma a totale soddisfacimento di ogni sua spettanza e di non aver altro a pretendere dal proprio datore di lavoro, costituisce, di norma, una mera dichiarazione di scienza o di opinione (cosiddetta quietanza a saldo o liberatoria) e pub assumere il valore negoziale di una rinunzia o transazione solo se — secondo una valutazione di fatto riservata al giudice di merito e incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata — esprima, alla stregua del contesto in cui si è estrinsecata e di circostanze desumibili anche aliunde la volontà di privarsi di diritti specifici e determinati, o determinabili, dei quali il lavoratore rinunziante o transigente abbia piena e chiara consapevolezza.

Cass. civ. n. 2716/1998

Il diritto del lavoratore di impugnare le proprie dimissioni ha carattere disponibile e si sottrae pertanto all'ambito di applicazione dell'art. 2113 c.c., a meno che lo scioglimento del rapporto ad iniziativa del lavoratore non si inscriva in un più ampio contesto negoziale, avente quale contenuto anche altri diritti del prestatore derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dell'autonomia collettiva.

Cass. civ. n. 304/1998

L'accettazione del licenziamento da parte del lavoratore, ossia la manifestazione di volontà di quest'ultimo di non contestare l'avvenuto esercizio della facoltà di recesso del datore di lavoro non rientra nella previsione dell'art. 2113 c.c., non essendo configurabile una rinuncia o transazione che abbia ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge.

Cass. civ. n. 11471/1997

La tutela del lavoratore contro il licenziamento illegittimo si attua durante lo svolgimento del rapporto secondo la sua specifica disciplina, mentre, manifestata dal datore di lavoro la volontà di recedere, il prestatore può ben transigere in ordine al diritto ad impugnare il licenziamento, e al relativo atto non si applica la disciplina di cui all'art. 2113 c.c.

Cass. civ. n. 4872/1996

Nel contratto di agenzia, la clausola di esclusiva, in difetto di diverse, specifiche, pattuizioni, ha un ambito di efficacia coincidente con l'oggetto del mandato, con la conseguenza che gli affari non ricompresi tra quelli che l'agente deve promuovere sono estranei anche al diritto di esclusiva contrattualmente previsto. (Nella specie l'agente, cui era stato conferito l'incarico di promuovere le vendite solo nei confronti dei rivenditori, con esclusione dei privati, aveva richiesto le provvigioni relative ad affari conclusi direttamente dalla mandante con privati).

Trova applicazione anche nel rapporto di agenzia il principio secondo cui le cosiddette quietanze liberatorie, in mancanza di specifiche indicazioni sui pagamenti ricevuti e sui crediti estinti, oppure sui crediti di cui il lavoratore intende disporre con rinuncia o transazione, costituiscono una semplice manifestazione del convincimento soggettivo dell'interessato di essere stato soddisfatto di tutti i suoi diritti e, pertanto, hanno la natura giuridica di dichiarazioni di scienza, prive di qualsiasi efficacia negoziale o confessoria e non preclusive di un'azione in giudizio ai fini del riconoscimento dei diritti non ancora soddisfatti. (Fattispecie relativa ad un rapporto di agenzia sottoposto alla competenza del giudice del lavoro ai sensi dell'art. 490 n. 3 c.p.c.).

Cass. civ. n. 6723/1994

L'accettazione, da parte del lavoratore, del provvedimento datoriale di sospensione del lavoro, quale alternativa al licenziamento, per temporanea mancanza o insufficienza di commesse, comporta la perdita del diritto alla retribuzione, attesi il vincolo di corrispettività delle prestazioni dovute dalle parti del rapporto e la non ravvisabilità, nell'accettazione predetta, di una rinuncia (alla retribuzione) invalida ai sensi dell'art. 2113 c.c. o nulla siccome relativa a diritti di futura acquisizione. Qualora, peraltro, l'accordo che abbia per oggetto la sospensione del rapporto sia affetto da nullità (ex artt. 1346 e 1418 c.c.) per indeterminatezza o per indeterminabilità dell'oggetto — in quanto la sua concreta operatività dipenda dalla unilaterale volontà del datore di lavoro e non dal consensuale riconoscimento, ad opera dei contraenti, della ragione concreta ed attuale della sospensione del rapporto — ovvero perché la sospensione del rapporto, in quanto assoggettata alla mera volontà del datore di lavoro, sia collegata ad una condizione meramente potestativa (art. 1355 c.c.), non può ritenersi sussistente — in conformità con i principi di effettività e di corrispettività del rapporto di lavoro, di cui è espressione anche l'art. 2126 c.c. — il diritto alla retribuzione ove non si accerti l'esecuzione della prestazione lavorativa o, quanto meno, la messa a disposizione, da parte del lavoratore, delle proprie energie lavorative.

Notizie giuridiche correlate all'articolo

Hai un dubbio o un problema su questo argomento?

Scrivi alla nostra redazione giuridica

e ricevi la tua risposta entro 5 giorni a soli 29,90 €

Nel caso si necessiti di allegare documentazione o altro materiale informativo relativo al quesito posto, basterà seguire le indicazioni che verranno fornite via email una volta effettuato il pagamento.

SEI UN AVVOCATO?
AFFIDA A NOI LE TUE RICERCHE!

Sei un professionista e necessiti di una ricerca giuridica su questo articolo? Un cliente ti ha chiesto un parere su questo argomento o devi redigere un atto riguardante la materia?
Inviaci la tua richiesta e ottieni in tempi brevissimi quanto ti serve per lo svolgimento della tua attività professionale!

Consulenze legali
relative all'articolo 2113 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

R.V. chiede
sabato 24/02/2024
“Buongiorno, dopo 40 anni di lavoro in azienda (non ho mai fatto un giorno di malattia) il datore di lavoro mi ha licenziato "ad nutum" a mezzo lettera il 20.09.2023, senza nessun preavviso a voce e con cessazione del lavoro il giorno successivo. Ho avuto uno schock con incapacità di intendere e di volere momentanea per cui ho eseguito, come un automa, tutto quanto richiestomi nella lettera (in primis le dimissioni i mmediate per la pensione a partire dal 01.01.24). In concomitanza ho chiamato il segretario della CGIL che ha parlato telefonicamente con il datore di lavoro (non in mia presenza) dopo di che l'azinda mi ha presentato una scrittura privata in cui mi venivano corrisposti 5.000 euro + 500 euro per non fare causa e con clausole di rinuncia a tutte le mie eventuali spettanze di ferie degli anni precedenti, permessi non retribuiti, straordinari non pagati, etc. (praticamente mi hanno messo un cappio al collo) . Questo accordo prevedeva 3 mesi di preavviso in azienda, e che purtroppo mi hanno debilitato psicologicamente. Alla scadenza dell'accordo del 31.12.2023 ( l'accordo è in mie mani già firmato dal datore di lavoro) non è stato a tutt'oggi firmato da me in Assolodi perché intorno a quella data non c'era la disponibilità di presenza sia del responsabile della Assolodi che del segretario della CGIL (così mi è stato detto dal datore di lavoro , aggiungendo che sarebbe stato firmato a gennaio; dopo di che non ho saputo più niente). Gli avvocati della CGIL hanno detto che per entrambe i documenti (lettera di licenziamento e accordo, datati entrambi 20.09.2023.) erano trascorsi i termini per l'impugnazione. Dal giorno del licenziamento continuo a piangere se si parla di questo argomento per il modo in cui mi hanno mandato in pensione dopo 40 anni, tanto che non sono riuscita a dirlo a mia figlia per 5 mesi ed ora continuo a piangere eriesco a malapena ad alzarmi dal letto per la patologia ai nervi che nel frattempo mi ha colpito nonostante i farmaci che mi hanno dato i medici. Non sono riuscita neanche a salutare i lavoratori e i colleghi con cui ho avuto un bellissimo rapporto sia lavorativo che personale in tutti questi anni 40 anni. Premetto che da questa azienda ho subito in passato (più di 5 anni fa') 13 anni di mobbing dal direttore (ora in pensione) e dalla responsabile, che è tutt'ora l'attuale responsabile. Questi 13 anni di mobbing mi hanno procurato varie patologie per cui ho un'invalidita' del 74 %. A questo punto non so cosa fare ed il segretario della CGIL mi ha scritto "di non fargli fare una brutta figura con l'azienda" ????? Cio' secondo me vuol dire che non potrò avere nessun supporto dagli avvocati della CGIL. Sottolineo anche che i due appuntamenti che mi sono stati dati presso gli avvocati erano in giorni successivi alla possibilità di impugnare sia il licenziamento che l'accordo (???) . Rimango in attesa di un vostro cortese cenno di riscontro. Cordiali saluti”
Consulenza legale i 10/03/2024
Per quanto riguarda le dimissioni, non è ormai più possibile revocarle. Infatti, l’annullamento delle dimissioni presentate è possibile solo entro 7 giorni dalla presentazione telematica delle stesse.

Tuttavia, le dimissioni rese in situazione di incapacità di intendere e di volere non sono valide. In tali casi, quindi, si può disporre l’annullamento delle dimissioni per incapacità, con conseguente richiesta delle retribuzioni arretrate a decorrere sin dalla data della richiesta di annullamento stesso.

Ciò in relazione al principio secondo cui l’incapacità naturale impedisce la cosciente e libera determinazione del soggetto. In sostanza, l’incapacità naturale priva il soggetto della facoltà di percepire e valutare il contenuto dell’atto. Il lavoratore, pertanto, nel momento di incapacità di intendere e volere si trova in una situazione di particolare debolezza. Questo perché privo di qualunque consapevolezza dell’atto che sta per compiere.

A rilevarlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 16998 del 25 giugno 2019.

La decisione deriva sostanzialmente dalla circostanza secondo la quale il lavoratore, all’atto delle dimissioni, fosse affetto da “pseudo demenza depressiva”. Situazione, questa, che gli ha causato una totale incapacità di intendere e di volere. In altre parole, era chiaro che sussistessero i presupposti per considerare l’atto di dimissioni viziato ex art. 428 c.c.

Ma l’aspetto più importante riguarda l’annullamento del contratto che si verifica, a norma dell’art. 1425 c.c., quando una delle parti era legalmente incapace di contrarre. Inoltre, è parimenti annullabile, quando ricorrono le condizioni stabilite dall’art. 428 c.c.(comma 2). Tale articolo al primo comma dispone che:

gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere e di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore”.

Il secondo comma prevede, poi, che:

l’annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d’intendere o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell’altro contraente”.

Il problema, tuttavia, è che, ammesso che si riuscisse a dimostrare tutto quanto sopra e si ottenesse la reintegrazione, il datore di lavoro avrebbe comunque la facoltà di licenziare ad nutum per raggiunti limiti di età.

Il discorso è diverso per quanto riguarda le rinunce e transazioni sottoscritte nell’accordo.

In un’ottica protettiva del lavoratore, le rinunce e le transazioni sono soggette a un regime particolare volto a impedire che dismetta alcuni diritti in costanza del rapporto di lavoro con il solo scopo di salvaguardare l’occupazione o per via di una situazione di squilibrio o “timore” contrattuale.

L’articolo 2113 c.c. disciplina espressamente solo due tipi di atti attraverso i quali il dipendente può dismettere i propri diritti: le rinunce e le transazioni.

La rinuncia è un atto unilaterale e consiste nella manifestazione della volontà del lavoratore di non esercitare più un suo diritto; essa può realizzarsi non solo attraverso una dichiarazione espressa, ma anche tramite un comportamento del dipendente dal quale si può dedurre in modo inequivocabile la volontà di abdicare a tale diritto.

La transazione, invece, è un contratto con cui le parti pongono fine a una lite o ne prevengono l’insorgenza attraverso reciproche concessioni. Affinché la transazione sia valida non è indispensabile che sia stipulata per iscritto, anche se la forma scritta è necessaria ai fini della prova. I diritti oggetto dell’accordo transattivo devono essere determinati o comunque determinabili, in caso contrario il lavoratore può agire in giudizio per far valere quei diritti che non possono essere considerati oggetto della transazione.

Inoltre, il lavoratore deve essere pienamente consapevole del contenuto e dell’ampiezza dei diritti di cui intende disporre e deve essere pienamente convinto dell’intenzione di rinunciarvi, perciò tale volontà abdicativa deve risultare chiaramente dal testo dell’accordo transattivo non essendo sufficiente l’utilizzo di mere clausole di stile ampie e indeterminate.

Diverse da tali atti dispositivi sono le c.d. quietanze a saldo, ossia quei documenti, di regola sottoscritti a fine rapporto, con cui il lavoratore dichiara di aver percepito una determinata somma a totale soddisfacimento di ogni sua pretesa e di non aver più nulla a pretendere dal proprio datore di lavoro. Generalmente, esse si considerano mere dichiarazioni di scienza, perciò il lavoratore in futuro potrà promuovere un’azione giudiziale a tutela dei diritti che ne sono oggetto, indipendentemente dal termine di decadenza semestrale sancito dall’art. 2113 c.c.

La quietanza a saldo può assumere il valore di rinuncia o transazione, con l’onere per il lavoratore di impugnare nei termini di cui all’art. 2113 c.c., unicamente alla condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili altrimenti, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di rinunciarvi o di transigere sui medesimi.

Ad ogni modo, le rinunce e transazioni non sottoscritte nelle c.d. “sedi protette” sono annullabili e quindi impugnabili dal lavoratore solo entro il termine previsto nell’articolo 2113 c.c.

L’impugnazione, quindi, deve essere proposta dal lavoratore stesso o da un’organizzazione sindacale cui è stato conferito espresso mandato, entro sei mesi a pena di decadenza.

Il termine decorre dal momento:

  • della cessazione del rapporto di lavoro se le rinunce o le transazioni si sono verificate in costanza di rapporto;
  • della rinuncia o della transazione se queste sono avvenute dopo la cessazione del rapporto.

Scaduto il termine, l’atto -originariamente invalido- è sanato e il lavoratore non può più far valere in giudizio i diritti oggetto della rinuncia o della transazione.

L’impugnazione può essere effettuata con qualsiasi atto da cui emerga chiaramente la volontà del lavoratore; pertanto, può consistere sia in un ricorso al giudice che in un atto stragiudiziale, ossia una semplice lettera inviata al datore di lavoro a mezzo di raccomandata a.r. (o per posta elettronica certificata).

Inoltre, anche in seguito alla scadenza del termine di decadenza semestrale, gli atti abdicativi dei diritti possono essere impugnati entro cinque anni se ricorrono i presupposti previsti dal codice civile per l’annullamento dei contratti in generale (incapacità di agire o vizio del consenso).

Peraltro, nel caso di specie non si è rinunciato esplicitamente a far valere il mobbing, pertanto, si potrebbe sostenere di non aver comunque rinunciato ad avviare un’azione in tal senso.

L’azione risarcitoria per mobbing si prescrive in dieci anni, trattandosi di responsabilità contrattuale (legata alla violazione dell’art. 2087 c.c.).
Naturalmente è consigliabile attivarsi tempestivamente per ragioni pratiche-processuali: in cause in cui le testimonianze sono di fondamentale importanza, il trascorrere del tempo rischia di far perdere memoria storica ai testimoni e rischia dunque di compromettere la buona riuscita della causa.
Come chiarito anche dalla giurisprudenza (cfr. ad esempio Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 17698/2014), sono elementi costitutivi del fenomeno del mobbing:
  1. una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo mirato, sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. il nesso di causalità tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
  4. l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio che unifica e lega tra loro tutti i singoli comportamenti ostili.
Per integrare il mobbing, tuttavia, è necessario che sussistano tutti gli elementi descritti, quindi anche il danno alla salute, il nesso di causalità e l’intento persecutorio (lettere b, c e d).
In particolare, per quanto riguarda il danno alla salute è molto importante che la diagnosi del medico, pur sintetica (ad es. depressione, ansia, attacchi di panico, ecc.) attesti – se ricorrono gli estremi – che la patologia è riconducibile al contesto lavorativo (e dunque, ad es.: depressione reattiva a problematiche in ambito lavorativo).

Sul piano legale ci si può rivolgere ad un sindacato, oppure direttamente ad un avvocato giuslavorista specializzato in casi di mobbing, per avviare un’azione nei confronti del datore di lavoro.
È importante che il percorso clinico inizi contestualmente (o antecedentemente) a quello legale.

Nel far valere la responsabilità contrattuale del proprio datore di lavoro, che deriva dalla violazione dell’art. 2087 c.c. , il lavoratore vittima di mobbing dovrà indicare e provare i comportamenti vessatori subiti, tali da rendere “nocivo” l’ambiente di lavoro, dando altresì prova del danno patito e del nesso causale fra tale danno e le condotte mobbizzanti rese possibili dall’inadempimento degli obblighi di protezione incombenti sul datore di lavoro. Per andare esente da responsabilità, quest’ultimo dovrà invece – secondo lo schema previsto dall’art. 1218 c.c. – dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare la salute psicofisica del lavoratore o di non averlo potuto fare per cause a lui non imputabili (in questi termini si è espressa, ad esempio, Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 2038/2013).

Per quanto riguarda l’intento persecutorio, al fine di non aggravare eccessivamente l’onere probatorio del lavoratore vittima di mobbing, la giurisprudenza ha chiarito che il lavoratore può limitarsi a fornire la prova dell’idoneità persecutoria della condotta complessivamente posta in essere, rilevabile, anche in via presuntiva, dalle caratteristiche oggettive della stessa, quali la monodirezionalità, la pretestuosità e la permanenza nel tempo dei comportamenti vessatori.

Il lavoratore vittima di mobbing dovrà quindi in particolar modo dimostrare che le condotte poste in essere nei suoi confronti non rientrano nell’esercizio dei normali poteri di organizzazione e controllo delle attività riconosciuti al datore di lavoro, né si limitano a semplici e tutto sommato fisiologici episodi di conflittualità sul luogo di lavoro, ma integrano al contrario una vera e propria strategia persecutoria finalizzata a porre il soggetto che ne è bersaglio in uno stato di grave e profondo disagio.

Oltre alla responsabilità contrattuale del datore di lavoro, ricorre un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale allorché la condotta vessatoria è posta in essere da colleghi posti allo stesso livello gerarchico della vittima o anche da suoi superiori, purché diversi dal datore di lavoro, sul quale solo gravano gli obblighi di protezione esaminati in precedenza.

Nell’intraprendere un’azione di responsabilità extracontrattuale, il lavoratore vittima di mobbing dovrà dunque dar prova di tutti gli elementi previsti dall’art. 2043 c.c., e cioè il fatto dannoso, il danno patito ed il nesso causale tra fatto e danno, nonché, sul piano psicologico, l’atteggiamento doloso del danneggiante.

Oltre che nei diretti confronti del proprio persecutore, il lavoratore vittima di mobbing potrà contemporaneamente agire anche nei confronti del proprio datore di lavoro facendo valere – sempre sul piano extracontrattuale – la responsabilità indiretta che l’art. 2049 c.c. ricollega al fatto illecito commesso dal dipendente. Si tratta di una ulteriore possibilità di azione, che si affianca alla già vista responsabilità a titolo contrattuale del datore di lavoro che non abbia adeguatamente tutelato l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro a lui sottoposti.


Federico M. S. chiede
mercoledì 17/02/2021 - Lombardia
“Buongiorno,<br />
ho bisogno di trovare sentenze che contengano casi di accordo transattivo non valido, generico e quindi nullo. Il fatto specifico vede protagonista un agente (elemento debole) e una preponente che ha imposto di firmare un contratto dove un'unica firma sostituiva e annullava tutti gli accordi precedentemente in essere. Questa transazione è stata per l'appunto generica, priva di un dettaglio o di più punti da sottoscrivere. Pare anche assimilabile a un formulario predisposto che sicuramente non riflette un consenso informato della parte più debole (ovvero l'agente) che invece deve rinunciare a qualsiasi scrutinio sul rapporto per quanto riguarda il passato.<br />
Vi chiedo se possibile di reperire sentenze che abbiano al loro interno contenuti inerenti il tema. Necessiterei di riscontro celere, entro venerdì mattina.<br />
<br />
Resto in attesa di cortese riscontro, anche relativamente al pagamento.<br />
Grazie<br />
Cordiali saluti<br />
Consulenza legale i 21/02/2021
Il rapporto di agenzia è soggetto al regime sulle transazioni e rinunzie posto dall'art. 2113 cod. civ. per il lavoro subordinato e, dunque, anche rispetto ad esso opera il principio per cui generiche quietanze a saldo non hanno sostanza transattiva, né possono integrare una rinuncia a tutti gli eventuali diritti connessi al rapporto ed alle azioni esercitabili in dipendenza di essi in difetto del necessario presupposto che l'agente abbia avuto l'esatta rappresentazione dei diritti che intendeva dismettere in favore dell'altro contraente. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva attribuito alla quietanza liberatoria sottoscritta dall'agente natura di atto di rinunzia ai diritti originatisi dal rapporto, desumendo l'esistenza della rappresentazione anzidetta dalla anzianità lavorativa e dalla notevole esperienza professionale dell'agente stesso (Cass. 578/2011; Tribunale di Salerno n. 701/2018 del 9/03/2018; richiamata anche da Corte d’Appello di Milano n. 1171/2018, anche se in senso sfavorevole all’agente).

Perché l'accordo tra il lavoratore e il datore di lavoro possa qualificarsi atto di transazione è necessario che contenga lo scambio di reciproche concessioni, sicché, ove manchi l'elemento dell'"aliquod datum, aliquid retentum", essenziale a integrare lo schema della transazione, questa non è configurabile. Nella specie, la S.C. ha cassato per vizio di motivazione la sentenza di merito che aveva ritenuto la natura transattiva dell'atto recante dichiarazione di voler transigere ogni diritto derivante dall'intercorso rapporto di lavoro senza considerare nella motivazione che la somma corrisposta al lavoratore nel preteso atto di transazione corrispondeva esattamente a quanto a lui spettante per trattamento di fine rapporto (Cass. n. 20780/2007).

La quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore, che contenga una dichiarazione di rinuncia a maggiori somme riferita, in termini generici, ad una serie di titoli di pretese in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, può assumere il valore di rinuncia o di transazione, che il lavoratore ha l’onere di impugnare nel termine di cui all’art. 2113 c.c., alla condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati ed obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi; infatti enunciazioni di tale genere sono assimilabili alle clausole di stile e non sono sufficienti di per sé a comprovare l’effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell’interessato (Cass. n. 20123/2004).

Le quietanze a saldo sottoscritte dai lavoratori, ove contengano una dichiarazione di rinuncia a maggiori somme riferita, in termini generici, a una serie di titoli e di pretese in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, possono assumere il rilievo di rinuncia o di transazione, che il lavoratore ha l’onere di impugnare nel termine di cui all’art. 2113 c.c., alla condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi (Cass. 1657/2008; Trib. Roma 31/01/2018, n. 744; Trib. Bari 5/10/2020, n. 2878).

La quietanza a saldo costituisce una semplice dichiarazione di scienza non preclusiva della possibilità di agire nei normali termini di prescrizione per il riconoscimento del diritto insoddisfatto del lavoratore, salvo che dal contesto dell'atto e da circostanze desumibili aliunde non risulti accertato che il lavoratore l'abbia rilasciata con la chiara consapevolezza di specifici diritti e con il cosciente intento di abbandonarli (Tribunale di Roma, 12 ottobre 2016, n. 8667/2016).

La quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore, che contenga una dichiarazione di rinuncia a maggiori somme riferita, in termini generici, ad una serie di titoli in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, in quanto assimilabile alle clausole di stile e non sufficiente di per sé a comprovare l'effettiva sussistenza di una volontà dispositiva, può assumere il valore di rinuncia o di transazione a condizione che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili "aliunde", che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi. Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito ritenendo che il riferimento generico all'indennità di anzianità maturata al 31 maggio 1982, presente nell'accordo sottoscritto all'atto della risoluzione del rapporto, fosse del tutto inidoneo a radicare nel lavoratore la consapevolezza di rinunciare al computo del compenso per lavoro straordinario ai fini della determinazione del t.f.r. nel suo complesso (Cass. 18321/2016, con riferimento alla figura dell’agente vedi anche Tribunale di Salerno n. 701/2018 del 9/03/2018).

Per il combinato disposto degli articoli 2113 del cc e 410 e 411 del c.p.c., le rinunce e transazioni aventi a oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione sindacale, non sono impugnabili ai sensi dei commi 2 e 3 dell'articolo 2113 del Cc solo a condizione che l'assistenza prestata dai rappresentati sindacali sia stata effettiva, consentendo al lavoratore di sapere a quale diritto rinuncia e in che misura, e, nel caso di transazione, a condizione che dall'atto si evinca la res dubita oggetto della lite (in atto o potenziale) e le "reciproche concessioni" in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell'articolo 1965 del codice civile. (Cass. 23/10/2013 n. 24024; con riferimento alla figura dell’agente Tribunale di Salerno n. 701/2018 del 9/03/2018 ).

Anonimo chiede
martedì 14/07/2015 - Sicilia
“Ho lavorato dal (omissis) alle dipendenze di una azienda, con quasi (omissis) dipendenti, in qualità di operatore tecnico polivalente in turno di impianto complesso. Il rapporto di lavoro era disciplinato dal CCNL (omissis).
Il sottoscritto, non essendo né patentato né automunito, ha da sempre usufruito, come la maggior parte dei colleghi di lavoro, del servizio di trasporto aziendale esistente da oltre (omissis) sin dalla nascita dello stabilimento. Tale servizio di trasporto aziendale, naturalmente usufruibile da parte dei lavoratori su base volontaria, era stato istituito non con un contratto sindacale aziendale, ma come appurata prassi o uso aziendale.
Nel mese di (omissis) l’azienda ha emanato un comunicato in cui annunciava in modo unilaterale la soppressione del servizio trasporti aziendale esistente fin dalla nascita della stabilimento.
A seguito di tale atto le OO.SS. in due comunicati congiunti contestavano la decisione unilaterale dell’azienda ed indicevano un ciclo di assemblee con i lavoratori per decidere le azioni da intraprendere, confluite in uno sciopero di otto ore.
A seguito del recesso aziendale della decisione in precedenza assunta si instaurava una trattativa sindacale.
Il sottoscritto, venuto a conoscenza che nel corso della trattativa era emersa la disponibilità aziendale di un trattamento economico sostitutivo di euro lorde (omissis) in cambio della soppressione del servizio trasporti, con lettera del (omissis) manifestava alla propria organizzazione sindacale il proprio dissenso a contrattare un servizio quarantennale inviando, poi, in data (omissis) la propria disdetta sindacale.
In data (omissis) veniva sottoscritto l’accordo sindacale che sopprimeva il servizio trasporto aziendale a far data dal (omissis) in cambio di una indennità economica di euro (omissis).
Tale accordo, senza avere consultato preventivamente i lavoratori, non riporta alcuna motivazione ma concorda semplicemente ed esclusivamente l’eliminazione del servizio in cambio dell’indennità economica di euro (omissis), senza alcuna riportata valutazione delle opportunità di tale accordo.
A seguito tale accordo il sottoscritto (trovandosi in malattia dal (omissis)) in data (omissis) inviava all’azienda una comunicazione a mezzo fax e raccomandata lamentando come l’immediatezza della soppressione del servizio, da me usufruito da oltre (omissis) anni, senza alcun ragionevole preavviso, gli impediva (non essendo munito di patente e autovettura come era noto all’azienda e in precedenza posto in evidenza ai propri rappresentanti sindacali e al responsabile personale) di recarsi al lavoro e prestare la propria attività lavorativa.
Occorre a tal fine rilevare che non esistono altri servizi di trasporto - pubblici o privati- dalla sede di lavoro alla località di residenza e che la sede dell’azienda dista oltre i (omissis) Km dal centro più vicino.
Non ricevendo alcun riscontro, in data (omissis), inviavo altro fax e raccomandata sollecitando l’azienda ad una risoluzione condivisa della problematica per permettermi di raggiungere il luogo di lavoro.
Non ricevevo ulteriore riscontro e l’azienda, in data (omissis), notificava lettera di contestazione disciplinare con la quale veniva formalmente contestata l’assenza ingiustificata per i giorni (omissis), sostenendo in tale lettera che la soppressione del servizio di trasporto era stato frutto di un accordo sindacale, che nessun altro dipendente a seguito di tale soppressione aveva rifiutato di prendere servizio, che tale soppressione era stata preannunciata da tempo mediante asseriti comunicati aziendali e sindacali e che altresì, il servizio di trasporto non costituiva obbligo del datore di lavoro.
Il sottoscritto con lettera datata 18/06/2015 e tempestivamente inviata tramite raccomandata il (omissis) (e quindi entro i prescritti 8 gg. previsti dall’art 50 del CCNL) fornivo le proprie ampie giustificazioni, ribadendo che il conclamato stato di disagio arrecatogli dalla soppressione del servizio di trasporti aziendali mi impediva di fatto di svolgere la propria prestazione, essendo (per come ben noto all’azienda) privo di patente e di auto, Si ribadisce che era noto all’azienda che non vi erano servizi di trasporto per/da lo stabilimento nonché non vi erano nella squadra di lavoro del sottoscritto altri colleghi residenti nello stesso luogo dello scrivente.
Tuttavia, in data (omissis), l’azienda, senza neppure attendere le prevedibili mie giustificazioni (pur avendo 8 gg. di tempo per presentarle ai sensi dell’art 50 del CCNL) inviava lettera di licenziamento disciplinare ai sensi dell’art 52 dl CCNL motivando tale provvedimento con l’addebito disciplinare di assenze ingiustificate per oltre 5 gg.
Non appare irrilevante ai fini della ravvisata finalità ritorsiva del licenziamento la circostanza che abbia attualmente presso il (omissis) un contenzioso per violazione aziendale della disciplina sul trattamento dei dati personali e di avere pubblicamente denunciato violazione delle norme in materia di prevenzione e sicurezza di cui al D.Lgs. 334/99.
QUESITO:
Nel caso di ricorso avverso il licenziamento è ipotizzabile avvalersi del disposto combinato degli artt. 1340 c.c. - 2077 c.c. - 2113 c.c.?
L’accordo siglato di eliminazione del servizio trasporti aziendale in cambio di una indennità sostitutiva, senza alcuna motivazione, è ipotizzabile come accordo transattivo ai sensi dell’art. 1965 c.c.?
E’ inoltre applicabile l’art 1394 c.c.?
Nel caso in specie quali articoli del cod. civ. sono, in ogni caso, applicabili per impugnare il licenziamento?
Grazie per la Vs. risposta.
Cordiali Saluti”
Consulenza legale i 21/07/2015
L'art. 52 del CCNL (omissis) prevede la possibilità per il datore di lavoro di licenziare il dipendente senza preavviso qualora questi commetta gravi infrazioni alla disciplina o alla diligenza nel lavoro, o provochi all'impresa grave nocumento materiale o morale. A titolo esemplificativo, è riportato proprio il caso, attinente a quello di specie, in cui si verifichino assenze ingiustificate per oltre 5 giorni consecutivi.

Analizziamo la rilevanza degli artt. 1340, 2077 e 2113 c.c. in sede di impugnazione del licenziamento.

Nel nostro caso, il servizio di trasporto offerto dall'azienda può configurarsi come “uso negoziale” o di fatto, la cui rilevanza postula un atto di autonomia individuale. La prassi aziendale si forma in base alla diffusione a favore di una categoria o gruppo di lavoratori di benefici fondati sulla spontaneità del servizio offerto dal datore di lavoro, che agisce senza avere un obbligo di legge, e dietro reiterazione nel tempo in maniera tale da determinare nei lavoratori beneficiari la ragionevole aspettativa della loro continuità al sussistere delle condizioni normativa e di fatto che ne ha costituito la premessa.
L'orientamento più risalente, ormai pressoché abbandonato dalla Corte di Cassazione, riconduceva i benefici o trattamenti migliorativi addizionali alla clausola d’uso ex art. 1340 c.c., con l'effetto di integrazione del contenuto delle obbligazioni verso quei lavoratori nei cui confronti l’uso si era formato (quindi, l'uso sarebbe entrato nei contratti dei singoli lavoratori interessati).
Il nuovo orientamento della Suprema Corte (iniziato con sentenza del 6.11.1996, n. 9690), configura l’uso aziendale non solo nel caso in cui un determinato comportamento sia stato reiteratamente tenuto dall’imprenditore nei confronti di tutti i suoi dipendenti, ma anche quando esso sia tenuto nei confronti di una ristretta cerchia di dipendenti che abbiano una determinata qualifica, o nei confronti di ciascun dipendente in un’unica vicenda del rapporto di lavoro. La Cassazione ha inoltre statuito che "l’uso aziendale (di carattere negoziale e non normativo) fa sorgere un obbligo unilaterale di carattere collettivo, che agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, sostituendo alle clausole contrattuali e a quelle collettive in vigore quelle più favorevoli dell’uso aziendale (art. 2077 c.c.)". Secondo questo nuovo orientamento, le clausole d’uso si inseriscono nei contratti individuali, per effetto di un meccanismo di disciplina collettiva, similare a quella aziendale.

L'uso aziendale, si reputa revocabile per accordo tra le parti (datore di lavoro e lavoratori). Si deve però sempre rispettare l'art. 2113, che dice: "Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide".

Nel caso di specie, il servizio di trasporto aziendale può dirsi entrato a far parte del contratto individuale, ma il consenso delle parti può validamente sopprimerlo. Sembra che si sia conclusa una vera e propria transazione ai sensi dell'art. 1965 del c.c., in quanto di è verificato uno scambio di reciproche concessioni (in cambio della soppressione del servizio, è stato previsto un compenso economico ai lavoratori). Va peraltro ricordato che secondo costante giurisprudenza gli accordi sindacali aziendali transattivi sono applicabili a tutti i lavoratori dell’azienda, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, con l’unica eccezione di quei lavoratori che, aderendo ad un’organizzazione sindacale diversa, ne condividono l’esplicito dissenso e potrebbero addirittura essere vincolati da un accordo sindacale separato (cfr. Cass., 23.5.2013, n. 12722).

L'uso relativo al trasporto fino al luogo di lavoro, però, pur facendo parte del contratto individuale aziendale, non è contemplato dal contratto collettivo né da norme inderogabili di legge, come richiede l'art. 2113. Tuttavia, si potrebbe sostenere in base al nuovo orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, che l'uso aziendale potrebbe essere equiparato ad una norma contenuta in un contratto collettivo, avendone di fatto la stessa forza, che travolge le clausole meno favorevoli. Tale opportunità va approfondita da un legale che sia esperto in diritto sindacale e del lavoro.

L'art. 1394 del c.c. non ci sembra rilevante nel caso in esame.

Ad ogni modo, è consigliabile approfondire altri motivi di impugnativa del licenziamento, come ad esempio il fatto che l'azienda abbia proceduto senza cercare prima di individuare una soluzione condivisa, atteso che l'assenza del lavoratore era stata da questi ampiamente preannunciata con plurime raccomandate e giustificata in base alle oggettive difficoltà di raggiungere il posto di lavoro dopo la soppressione del servizio di trasporto.
Inoltre, va analizzata la possibilità che il licenziamento disciplinare sia ricollegato ad atti di mobbing compiuti dal datore di lavoro nei confronti del lavoratore (secondo la giurisprudenza, "integra la nozione di mobbing la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti - giuridici o meramente materiali, ed, eventualmente, anche leciti - diretti alla persecuzione od all’emarginazione del dipendente, di cui viene lesa – in violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 cod. civ. – la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni", Cass. civ. n. 22858/2008), anche se va sottolineato fin da subito che la prova del mobbing in giudizio è particolarmente complessa.