Sistemazione della materia
Il capo dell’annullabilità è diviso in tre sezioni, di cui le prime due sono dedicate alle cause di annullabilità e la terza all'azione di annullamento. Dalle numerose e svariate cause di annullabilità il legislatore si limita a considerare le tre ipotesi principali dell'incapacità di agire, dell'incapacità naturale, che vengono raggruppate nella stessa sezione, e dei vizi del consenso, che sono trattati in una sezione a sé stante.
Questa sistemazione è discutibile, in quanto, a parte critiche particolari, non pone sufficientemente in rilievo la distinzione tra il fenomeno dell'annullabilità e le cause del fenomeno stesso, raggruppate in una stessa sezione, ed anzi tratta nello stesso articolo, due cause nettamente distinte quali l'incapacità legale e la cosiddetta incapacità naturale e inoltre colloca nella sezione dedicata all’azione di annullabilità delle norme, come quelle degli articoli 1445 e 1446, le quali riguardano il fenomeno dell’annullabilità, ma non l'azione di annullamento.
Nozione dell'incapacità legale e dell'incapacità di intendere o di volere
L'art. 1425 considera nel primo comma l'incapacità legale di contrattare, la quale consiste in una particolare situazione del soggetto del contratto (minore età, interdizione, inabilitazione), in considerazione della quale la norma attribuisce una efficacia annullabile al contratto. L'incapacità contrattuale trova il suo specifico regolamento in altra sede del codice (v. Libro I, Titoli X e XI).
Il 2° comma regola la cosiddetta incapacità naturale, la quale ha dato luogo, sotto l'impero del codice abrogato, a vive controversie e ad una ricca letteratura.
Sancendo l’annullabilità del contratto concluso da un incapace legale,il legislatore presuppone, almeno per ciò che riguarda l'incapacità per difetto di età, per inabilitazione e per interdizione giudiziale, una naturale inettitudine del soggetto, per deficiente sviluppo fisico-psichico o per deficienze mentali, ad una determinazione volitiva seria e cosciente. Senonché, come può darsi il caso di un incapace legale quale nel momento della conclusione del contratto è in grado di determinare liberamente e coscientemente la propria volontà (es.: minore con maturità mentale da adulto, pazzo in lucido intervallo), così può darsi il caso di un soggetto legalmente capace che, nel momento in cui compie il contratto, si trova in particolari condizioni mentali che gli impediscono di determinare la propria volontà in maniera seria e cosciente (es.: il negozio del pazzo non interdetto, dell'individuo in delirio febbrile, in sonno ipnotico, sotto l'influenza dell'alcool o di sostanze stupefacenti). Nel primo caso il negozio è valido. Nel secondo sorge il problema dell'incapacità naturale, regolato dal legislatore negli articoli 428, 591, n. 3, 775, 1° comma e 1425 cpv. cod. civ.
La c.d. incapacità naturale può assumere due forme ben distinte la forma dell'incapacità di volere, cioè la non potestà materiale di avere una volizione, e la forma dell'incapacità di intendere, cioè le particolari condizioni mentali del soggetto che consentono tuttavia la formazione della volontà.
La prima forma di incapacità naturale, l'unica ipotizzata dalla dottrina e dalla giurisprudenza del codice abrogato, è più che altro teorica, giacché è praticamente ben difficile che un soggetto, il quale non è assolutamente in grado di avere una volontà, sia in grado di porre in essere il comportamento della dichiarazione, sopratutto se si tratta di una dichiarazione formale, che richiede un minimo di capacità intellettiva nel dichiarante. Tecnicamente essa va inquadrata nella categoria della divergenza tra volizione e dichiarazione.
Praticamente più frequente è la seconda specie di incapacità naturale, la quale non esclude la volizione: il soggetto ha voluto, ma non avrebbe voluto se non fossero sussistite le particolari condizioni mentali che hanno influito sulla determinazione volitiva. Tecnicamente essa si inquadra nella figura dei vizi della volontà. A questa collocazione non osta il fatto che l'art. 428 cod. civ. non prende espressamente in considerazione, a differenza di quanto avviene nei confronti degli altri vizi della volontà, l'elemento dell'influenza delle particolari condizioni mentali del soggetto sulla sua determinazione volitiva, in quanto tale elemento è implicito, per gli atti di natura non contrattuale, nell'ulteriore requisito del grave pregiudizio derivante all'autore del negozio, e, per i contratti, nell'ulteriore requisito della malafede dell'altro contraente.
Inquadrata la incapacità di intendere nella figura della volizione viziata, sorge il delicatissimo problema se, analogamente a quanto è stabilito nei confronti del dolo, sia rilevante solo la capacità di intendere determinante, cioè le particolari condizioni mentali del soggetto senza le quali il soggetto non avrebbe assolutamente contrattato, o anche l'incapacità naturale incidentale, cioè le particolari condizioni mentali del soggetto senza le quali il soggetto avrebbe stipulato un contratto a contenuto o modalità diverse. Nel silenzio della legge sembra che il problema debba risolversi, come per l'errore (v. infra, pag. 710), nel senso della rilevanza tanto dell'incapacità d'intendere determinante quanto dell'incapacità d'intendere incidentale. Qualora l'incapacità di intendere sia provocata dall'altro contraente, si può sostenere che essa non solo è causa di annullabilità del contratto, ma dà luogo anche all'obbligazione del risarcimento del danno, in quanto il comportamento dell'altro contraente costituisce una violazione del dovere della buona fede contrattuale.
Presupposti a cui subordinata la rilevanza dell’incapacità di intendere o di volere
A differenza dell'incapacità legale, l'incapacità di intendere di volere non è nel nostro ordinamento di per sè sola rilevante, eccezion fatta per il contratto di donazione (art. 775, 1° comma). L'articolo 428 cod. civ. dispone: «Gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi od aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all'autore.
L'annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace di intendere o di volere o per la qualità del contratto altrimenti, risulta la mala fede dell'altro contraente».
Questa norma non può essere interpretata, come parrebbe a prima vista, nel senso che, riguardando il primo comma i negozi in genere ed il secondo i contratti, per questi ultimi è richiesto oltre il grave pregiudizio, come per qualsiasi negozio, anche l'ulteriore e specifico requisito della mala fede dell'altro contraente, giacché, dato il disposto del 2° comma per cui la malafede può risultare dal pregiudizio, questo requisito si palesa inutile, non potendosi dare pregiudizio senza malafede. Pertanto o si fa un'interpretazione abrogante del 2° comma, ritenendo sufficiente tanto negli atti in genere quanto nei contratti l'elemento integratore del grave pregiudizio, oppure si riferisce la norma del 1° comma solo agli atti di natura non contrattuale e si afferma di conseguenza che l’elemento integratore è dato per questi atti dal grave pregiudizio dell'autore del negozio e per i contratti invece dalla malafede dell'altro contraente. Questa seconda interpretazione deve ritenersi preferibile, in quanto si armonizza con il trattamento dell'errore ostativo.
Trattandosi di un contratto di donazione, l'incapacità di intendere e di volere del soggetto non deve essere integrata dall'ulteriore requisito della malafede dell'altro contraente (art. 775, 1° comma cod. civ.). La ratio di questa eccezione deve ricercarsi nella tradizionale unificazione del trattamento della donazione e del testamento, non si comprende però perché una volta postosi su questa via, il legislatore non abbia sancito una analoga eccezione nei confronti dell'errore ostativo.
Si è venuta così a creare una grave disarmonia nel sistema legislativo, in quanto, mentre il contratto di donazione stipulato dall'incapace di intendere e di volere è annullabile indipendentemente dal fatto che la controparte conosca o meno detta incapacità, il contratto di donazione viziato da errore ostativo è annullabile solo nel caso che la controparte fosse o dovesse essere a conoscenza di detto errore.
La rilevanza dell'incapacità di intendere o di volere
La rilevanza della c.d. incapacità naturale consiste nella semplice annullabilità del contratto. Questa considerazione normativa si applica tanto al caso di incapacità di intendere, che determina un semplice vizio della volontà, quanto al caso di incapacità di volere, che preclude la formazione della volontà. Con questo disposto il nuovo legislatore si scosta decisamente, in armonia con quanto fa in tema di errore ostativo, dal dogma della volontà, adottato dal codice abrogato, il quale importerebbe la nullità, per difetto dell'elemento volitivo, del contratto concluso in stato di assoluta incapacità naturale.
Sancendo la semplice annullabilità del contratto concluso dall'incapace di intendere e di volere, il nuovo legislatore, identifica, dal punto di vista della rilevanza giuridica, l'incapacità legale e la c.d. incapacità naturale. Strutturalmente i due istituti rimangono però nettamente distinti; non si può infatti aderire all'opinione della dominante dottrina, che sembra condivisa anche dal nuovo legislatore, per cui l'incapacità di intendere o di volere costituirebbe una specie di incapacità negoziale e precisamente d'incapacità per interdizione legale. Se è vero che la ratio dell'istituto dell'incapacità legale deve ricercarsi in una presunzione di incapacità di intendere o di volere nei confronti di certi soggetti, si deve tuttavia dire che il legislatore nell'incapacità legale prende in considerazione esclusivamente l'elemento soggettivo del negozio, come risulta chiaramente dal fatto che la prova del lucido intervallo non è di ostacolo all'annullabilità del negozio. Nella incapacità di intendere o di volere oggetto della considerazione normativa non è invece il soggetto del negozio, ma la volizione del medesimo, sia questa volizione mancante, come avviene nel caso di incapacità di volere, sia questa volizione semplicemente viziata, come avviene nel caso di incapacità di intendere. Inoltre, mentre l'incapacità negoziale è da sola rilevante, lo stesso non può dirsi nei confronti dell'incapacità di intendere o di volere (v. retro).