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Articolo 587 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 27/03/2024]

Testamento

Dispositivo dell'art. 587 Codice Civile

Il testamento(1) è un atto revocabile [679 ss. c.c.] con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse(2).

Le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento, hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento [601 c.c.], anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale(3)(4).

Note

(1) Il testamento è un negozio giuridico:
- tipico, in quanto espressamente previsto dall'ordinamento;
- unilaterale e non recettizio: si accetta l'eredità e non il testamento;
- formale: va stipulato nelle forme previste dalla legge, a pena di nullità (v. art. 601 ss. del c.c.);
- unipersonale, cioè deve essere posto in essere da un'unica persona;
- personalissimo: non è ammessa né la rappresentanza né la determinazione per opera di un terzo;
- revocabile, con le forme previste dalla legge (v. art. 679 ss. del c.c.).
(2) Si parla in proposito di contenuto tipico: comprende sia le disposizioni a titolo universale che particolare (v. art. 588 del c.c.).
(3) E' il contenuto atipico del testamento (es. il riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio ex art. 256 del c.c., la riabilitazione dell'indegno, etc...).
(4) Con la L. 29 novembre 1990, n. 387 l'Italia ha aderito alla Convenzione internazionale di Washington del 26 ottobre 1973. È valido il testamento redatto secondo le disposizioni della Convenzione, anche in assenza dei requisiti formali previsti dalla legge italiana (si parla in proposito di testamento internazionale).

Ratio Legis

La successione testamentaria tutela sia il diritto di proprietà individuale, cioè l'interesse del testatore a trasmettere dopo la propria morte il suo patrimonio a taluni soggetti, sia la volontà privata, consentendo al de cuius di scegliere a chi devolvere i propri beni.

Brocardi

Cum manifestissimus est sensus testatoris, verborum interpretatio nusquam tantum valet ut melior sensus existat
Hereditas etiam sine ullo corpore iuris intellectum habet
In omnibus, testatoris voluntatem quae legitima est, dominari censemus
In testamentis plenius voluntates testantium interpretantur
In testamento voluntas testantis magis spectanda est
Inutile est testamentum, in quo nemo heres instituitur
Licei subtilitas iuris refragari videatur, attamen voluntas testatoris ex bono et aequo tuenda est
Nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest
Non aliter a significatione verborum recedi oportet, quam cum manifestum est aliud sensisse testatore
Non ex sola scriptura, sed ex conscientia defuncti voluntati satisfaciendum est
Successio ex testamento
Testamenti factio non privati, sed publici iuris est
Testamentum
Testamentum est voluntatis nostrae iusta sententia de eo, quod quis post mortem suam fieri vult
Voluntatis defuncti quaestio in aestimatione iudicis est

Spiegazione dell'art. 587 Codice Civile

Il diritto romano ci ha tramandato due definizioni del testamento: una di Ulpiano: "testamentum est mentis nostrae iusta contestatio in id solemniter facta ut post mortem nostram valeat", una di Modestino: "voluntatis nostrae iusta sententia de eo quod quis post mortem suam fieri velit". Tali definizioni, però, sono poco precise, incomplete, sia perché non pongono in luce il requisito essenziale della heredis institutio, che era fondamentale per il testamento romano, sia perché non pongono in rilievo l’altra caratteristica, comune al nostro diritto, della revocabilità delle disposizioni testamentarie.

Già il codice del 1865 conteneva una definizione esattissima del testamento, la quale è stata riprodotta quasi integralmente nell'attuale codice.
"Il testamento è un atto", il che vuol dire che è un negozio giuridico unilaterale, consistente, cioè, nella dichiarazione di volontà di una sola persona, il disponente.
Uno scrittore autorevolissimo, il Cimbali, sostenne che il testamento fosse un negozio giuridico bilaterale, un contratto, per quanto con carattere ben distinto dagli altri contratti. Tale opinione si può dire, oramai, da tutti ripudiata, e giustamente. Il Cimbali ragionava così: il testamento, per essere produttivo di effetti giuridici, deve essere accettato dall’erede; ora, in questa accettazione si riscontra l’altro termine del consenso; si ha, quindi, l'accordo reciproco del testatore e dell'erede. Se è vero che questa accettazione deve avvenire necessariamente dopo la morte del testatore, a differenza della donazione, che, per avere effetto, occorre che venga accettata dal donatario prima della morte del donante, ciò può costituire la differenza specifica tra i contratti di beneficenza tra vivi, come la donazione, e quelli a causa di morte prendono la forma del testamento. Né, soggiunge il Cimbali, a far negare il carattere di contratto al testamento, può giovare il suo carattere di revocabilità, perché, anzi, questa è una riprova del suo carattere contrattuale, giacché, fino a che l'accettazione non è avvenuta, si è di fronte ad una semplice promessa, che può sempre essere revocata, e siccome, per l’indole speciale del testamento, che è disposizione a causa di morte, il contratto si perfeziona dopo la morte del testatore, solo da tale epoca rimane inalterabilmente fissata la volontà del testatore e, dall'altra, vi è la possibilità dell’accettazione da parte dell'erede. Ma questo ragionamento è tutt’altro che persuasivo. Infatti, se è vero che, nei contratti, non occorre che il consenso sia simultaneo, potendo le due dichiarazioni di volontà avvenire in momenti diversi, anche a notevole distanza di tempo fra loro, come avviene nel contratto tra persone lontane, non v’è dubbio che le dichiarazioni di volontà si devono, in un dato momento, incontrare, nel che consiste l’accordo, il consenso; e fino a quando questo incontro non si verifica, vi è soltanto una proposta di contratto, non già un contratto. Ora, ciò non si verifica affatto nel testamento, dove l’accettazione dell’erede e del legatario deve necessariamente avvenire quando il testatore non può esistere e, quindi, l’incontro delle due volontà non si verifica. Vero è che il testamento, come negozio giuridico, è perfetto, capace, cioè, di produrre tutta la sua efficacia giuridica, quando la dichiarazione di volontà del testatore è stata manifestata nelle forme stabilite dalla legge; l’accettazione è necessaria soltanto per l’attuazione pratica di quella volontà, per mantenerne in vita gli effetti: è, quindi, un elemento necessario per l’efficacia del testamento, non per la sua formazione (com’è, invece, l’accordo tra le due dichiarazioni di volontà per il contratto).

L'articolo in esame, come l’art. #759# del codice del 1865, dice che il testamento è un atto, ma non soggiunge pure che sia un atto di liberalità, come per la donazione. Di qui la disputa tra gli scrittori se lo spirito di liberalità sia o meno un elemento essenziale per il testamento. Bisogna ritenere che se il testamento, normalmente, costituisce una liberalità, tale elemento non è essenziale ad esso. Lo scopo precipuo del testamento è di stabilire la sorte del patrimonio post mortem; esso è il regolamento dei rapporti giuridici, soprattutto patrimoniali, del testatore, per il tempo in cui avrà cessato di vivere. L’eredità, infatti, può essere talmente onerata di debiti che il passivo superi o eguagli l’attivo; il testatore può porre a carico dell’erede oneri che assorbano interamente l’attivo (tantum erogat quantum accipit): in tali casi non vi sarà, certamente, una liberalità, eppure vi sarà testamento: l’istituzione in esso contenuta sarà valida.

La norma in esame continua col dire che il testamento è un atto revocabile. La revocabilità è la caratteristica essenziale del testamento, tanto vero che il nostro legislatore ha vietato la c.d. clausola derogatoria, ammessa da talune legislazioni, con la quale il testatore dichiarava di non voler riconoscere per valido qualunque altro testamento egli potesse fare per l'avvenire (c.d. clausola derogatoria assoluta) ovvero, quanto meno, dichiarava che non avessero valore testamenti nuovi posteriori che non fossero accompagnati da uno speciale contrassegno, per esempio, un sigillo, un motto (c.d. clausola derogatoria relativa).
Nel diritto comune si ritenne che la clausola derogatoria assoluta fosse nulla, e valida, invece, la clausola derogatoria relativa, la quale garantiva meglio la libertà del testatore. Si ritenne, cioè, che ad essa potesse ricorrere chi, dopo aver dichiarato spontaneamente la sua ultima volontà, temesse di essere, poi, costretto dalle pressioni di altre persone (parenti o estranei) a testare a favore loro. Egli aveva, così, il mezzo di contentarli in apparenza per sottrarsi alle loro pressioni, ma, in sostanza, di tener valido il testamento anteriore, col non inserire nel nuovo testamento quel tal segno indicato nel primo come documento della serietà del suo valore. Senonché, poteva avvenire che la libertà del testatore, invece di essere garantita, fosse menomata, come quando, ad esempio, egli veramente volesse mutare le sue disposizioni e solo per dimenticanza o inavvertenza non vi aveva inserito quel tal segno. Ad evitare tale inconveniente, la pratica dei secoli scorsi introdusse una quantità di distinzioni ed eccezioni, fonti di numerose, ardue controversie, per cui quasi dappertutto fu vietata la clausola derogatoria, anche semplicemente relativa. Essa fu vietata pure dal nostro codice del 1865, all'art. #916#, la cui norma è stata riprodotta integralmente nell’art. 679 dell'attuale codice che dispone: "non si può in alcun modo rinunziare alla facoltà di revocare o mutare le disposizioni testamentarie: ogni clausola o condizione contraria non ha effetto".

L’art. 587 continua dicendo che col testamento si dispone di tutte le proprie sostanze o di parte di esse. Con l'espressione "proprie" s’intende affermare il carattere personalissimo del testamento nel senso che mentre, in genere, gli atti di disposizione dei beni inter vivos si possono fare o personalmente e direttamente dal proprietario di essi, o anche indirettamente, per mezzo di un rappresentante, nel testamento ciò è escluso nel modo più assoluto, non essendo nemmeno più ammesso che il genitore esercente la patria potestà possa fare testamento per il figlio minore, prevedendo che costui muoia prima di giungere all’età in cui la legge gli riconosce la facoltà di testare, come era ammesso per diritto romano con la sostituzione detta pupillare.

La legge, poi, dice: "di tutte o di parte delle proprie sostanze" per indicare la possibile coesistenza della successione testamentaria con la successione legittima, a differenza di quanto avveniva nel diritto romano, dove, invece, di regola, tale coesistenza era esclusa. E mentre, anzi, nel diritto romano, un nuovo testamento distruggeva l’antico, appunto per l’unità della successione testamentaria, nel diritto nostro possono coesistere più testamenti: il testamento posteriore non revoca di diritto l’anteriore, ma lo revoca soltanto o quando contiene la dichiarazione espressa del testatore, il quale dichiara di annullare tutte le disposizioni precedenti, ovvero quando contiene disposizioni incompatibili con tutte o con parte di quelle contenute nell’anteriore, il quale, perciò, si intenderà revocato tacitamente, in tutto o in parte, per quanto, cioè, sia incompatibile col testamento posteriore.

La caratteristica speciale del testamento è quella di contenere una disposizione patrimoniale. Ciò risulta chiaramente, anche nel sistema dell'attuale codice civile, dal fatto di aver mantenuto la dizione dell’art. #759# del codice del 1865: "dispone di tutte le proprie sostanze o di parte di esse".
Sotto la vigenza del codice precedente era opinione comune che non potesse qualificarsi testamento un atto che non contenesse disposizioni di beni. Tuttavia, quel codice prevedeva che, nel testamento, fossero contenute dichiarazioni di volontà aventi uno scopo diverso da quello di disporre dei beni, tra cui: la volontà di legittimare il figlio naturale; la determinazione di condizioni alla madre superstite per l'educazione dei figli e per l’amministrazione dei beni; la designazione di un tutore al figlio minore o al maggiore interdicendo; la dichiarazione di riabilitazione dell’indegno. Ma sorgeva questione circa la loro validità ed efficacia quando fossero contenute in un atto che si qualificava testamento, che ne aveva, naturalmente, la forma, ma che non conteneva disposizione di beni. L'opinione prevalente era che, in questa ipotesi, esse non potessero ritenersi valide, in quanto la legge esigeva che fossero contenute in un vero e proprio testamento e tale non poteva dirsi una scrittura sfornita di tutti i caratteri sostanziali stabiliti dalla legge per il testamento, fra i quali la disposizione di beni. Tale disputa è stata eliminata dall'attuale codice, nel quale si ammette che nel testamento possano essere contenute disposizioni di carattere giuridico non aventi carattere patrimoniale, le quali possono avere efficacia anche in mancanza di quelle a contenuto patrimoniale.
Nel progetto della Commissione parlamentare si ponevano sullo stesso piano le disposizioni patrimoniali e quelle non patrimoniali. Difatti, l’art. #140# del codice precedente definiva il testamento "un atto revocabile, con cui taluno dichiara la sua ultima volontà, da valere dopo la morte, sia mediante disposizioni riguardanti tutte o parte delle proprie sostanze, sia mediante disposizioni non patrimoniali che abbiano carattere giuridico". Nel progetto definitivo, il Ministro non accolse tale sistema notando che, nella concezione tradizionale e nella pratica applicazione, il testamento ha per contenuto l’attribuzione dei beni e solo accidentalmente contiene manifestazioni di volontà dirette ad altri fini, tanto più che le disposizioni non patrimoniali, nel testamento, sono limitate quanto al loro possibile oggetto perché sono pochi i negozi che la legge consente di compiere nella forma del testamento. Conformemente a queste idee, fu formulato l’articolo ora in esame, in cui si è mantenuto il concetto tradizionale del carattere patrimoniale del testamento, ma, in un secondo comma, si è aggiunta la norma sull’efficacia di disposizioni non patrimoniali che possono rivestire forma testamentaria anche quando l’atto non contiene disposizioni patrimoniali.

Questo articolo dette occasione a larga discussione nella Commissione parlamentare, dove taluno propose persino che il testamento fosse considerato come un atto di ultima volontà, col quale il dichiarante non dispone solo in ordine ai beni economici, ma anche intorno ad altri oggetti di ordine morale e politico, assumendo che nel nuovo codice fascista avrebbe dovuto essere inclusa questa concezione, per così dire, mistica del testamento, giacché nella concezione filosofica e politica del concetto fascista il titolare del diritto di testare è considerato non solo in quanto sia munito di beni economici, perché il diritto esiste anche quando non esistono i beni materiali, ma anche soltanto se dispone di beni ideali. Questa concezione non trovò consenziente la Commissione la quale, invece, tornò al sistema del progetto preliminare ammettendo che, di regola, il testamento possa contenere disposizioni di carattere patrimoniale e non patrimoniale.
Il Ministro Guardasigilli mantenne il criterio già adottato nel progetto definitivo, osservando che la diversa importanza delle due specie di disposizioni non è priva di conseguenze giuridiche, perché diverso è il regime a cui sono sottoposte le disposizioni patrimoniali rispetto a quelle non patrimoniali. Per le prime, si applica tutta la disciplina del testamento sia dal lato formale che dal lato sostanziale; per le seconde, invece, si esige sì la forma testamentaria, ma, in quanto alla loro intrinseca validità ed efficacia, devono osservarsi le norme proprie dei singoli negozi, le quali possono divergere da quelle dettate dalla legge per disciplinare il contenuto patrimoniale del testamento. Così, ad esempio, il riconoscimento del figlio naturale è una disposizione di carattere non patrimoniale che può essere contenuta in un atto che abbia la forma di testamento, ma la validità ed efficacia sostanziale è regolata da altre norme, fra cui quella dell'irrevocabilità.
Sicché, rimane come principio generale che il testamento contenga, normalmente, disposizioni patrimoniali. Può contenere anche disposizioni di carattere non patrimoniale, e precisamente solo quelle che costituiscono negozi che la legge consente di compiere nella forma testamentaria, le quali saranno valide ed efficaci anche se mancano interamente disposizioni a contenuto patrimoniale.
Si comprende, peraltro, che le disposizioni di carattere non patrimoniale che possono essere contenute in un testamento non contenente disposizioni di beni sono soltanto quelle che hanno un contenuto giuridico e in quanto sono ammesse dalla legge, non pure quelle che hanno un contenuto puramente morale od affettivo, per esempio, norme e raccomandazioni per i funerali, per il suffragio dell’anima, per il seppellimento o la sorte del cadavere, per la sistemazione della famiglia, ecc. Tali disposizioni, in quanto prive di contenuto giuridico, hanno un valore puramente morale: avranno valore giuridico solo se siano, comunque, connesse ad una disposizione di carattere patrimoniale.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

Massime relative all'art. 587 Codice Civile

Cass. civ. n. 25936/2021

Perché un atto costituisca disposizione testamentaria, è necessario che lo scritto contenga la manifestazione di una volontà definitiva dell'autore, compiutamente e incondizionatamente formata, diretta allo scopo di disporre attualmente dei suoi beni, in tutto o in parte, per il tempo successivo alla propria morte; pertanto, ai fini della configurabilità di una scrittura privata come testamento non è sufficiente il riscontro dei requisiti di forma, occorrendo, altresì, l'accertamento dell'oggettiva riconoscibilità nella scrittura della volontà attuale del suo autore di compiere non già un mero progetto, ma un atto di disposizione del proprio patrimonio per il tempo successivo al suo decesso. Siffatto accertamento - che, ove le espressioni contenute nel documento risultino ambigue o di valore non certo, presuppone la necessaria indagine su ogni circostanza, anche estrinseca, idonea a chiarire la portata, le ragioni e le finalità perseguite con la disposizione - involge un apprezzamento di fatto spettante al giudice del merito che, se adeguatamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità.

Cass. civ. n. 26988/2020

La dichiarazione unilaterale scritta dal fiduciario, ricognitiva dell'intestazione fiduciaria dell'immobile, può essere contenuta anche in un testamento; essa non costituisce autonoma forma di obbligazione, avendo solo effetto confermativo del preesistente rapporto nascente dal patto fiduciario, con conseguente esonero a favore del fiduciante, destinatario della "contra se pronuntiatio", dell'onere della prova del rapporto fondamentale, che si presume fino a prova contraria.

Cass. civ. n. 10882/2018

L'interpretazione del testamento, cui in linea di principio sono applicabili le regole di ermeneutica dettate dal codice in tema di contratti, con la sola eccezione di quelle incompatibili con la natura di atto unilaterale non recettizio del negozio "mortis causa", è caratterizzata, rispetto a quella contrattuale, da una più penetrante ricerca, aldilà della dichiarazione, della volontà del testatore, la quale, alla stregua dell'art. 1362 c.c., va individuata con riferimento ad elementi intrinseci alla scheda testamentaria, sulla base dell'esame globale della scheda stessa e non di ciascuna singola disposizione. Tuttavia, ove dal testo dell'atto non emergano con certezza l'effettiva intenzione del "de cuius" e la portata della disposizione, il giudice può fare ricorso ad elementi estrinseci al testamento, ma pur sempre riferibili al testatore, quali, ad esempio, la personalità dello stesso, la sua mentalità, cultura o condizione sociale o il suo ambiente di vita. (Rigetta, CORTE D'APPELLO MILANO, 21/05/2014).

Cass. civ. n. 10075/2018

Nell'interpretazione del testamento, la volontà del testatore deve essere ricostruita privilegiando gli elementi intrinseci alla scheda testamentaria, sulla base dell'esame globale della stessa, potendosi ricorrere a elementi estrinseci - quali ad esempio la personalità, la condizione sociale e l'ambiente di vita del testatore – solo in via sussidiaria, ove dal testo dell'atto non emerga con certezza l'effettiva intenzione del "de cuius".

Cass. civ. n. 1993/2016

L'atto contenente disposizioni di carattere esclusivamente non patrimoniale può essere qualificato alla stregua di un testamento purché di questo abbia contenuto, forma e funzione, la quale ultima, in particolare, consiste nell'esercizio, da parte dell'autore, del proprio generale potere di disporre "mortis causa". (Nella specie, la S.C. ha escluso la ricorrenza di un testamento olografo in una scrittura privata contenente il riconoscimento di figlio naturale, non evincendosi univocamente da essa la volontà del "de cuius" di determinare l'effetto accertativo della filiazione dopo la propria morte). (Rigetta, App. Perugia, 08/03/2011).

Cass. civ. n. 15931/2015

In tema di interpretazione di un testamento, la volontà del testatore, alla stregua del principio generale di ermeneutica di cui all'art. 1362 c.c., va individuata sulla base dell'esame globale della scheda testamentaria e non di ciascuna singola disposizione, sicché il giudice di merito può attribuire alle parole usate dal testatore un significato diverso da quello tecnico e letterale, purché non contrastante e antitetico. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto corretta la motivazione del giudice di merito secondo cui l'espressione "somma", utilizzata dal testatore, dovesse intendersi nel significato proprio di "somma di denaro", e la generica dichiarazione di revoca espressa delle precedenti disposizioni dovesse ritenersi circoscritta alla sola frazione mobiliare del patrimonio del "de cuius").

Cass. civ. n. 150/2014

Perché un atto costituisca manifestazione di ultima volontà, riconducibile ai negozi "mortis causa", non è necessario che il dichiarante faccia espresso riferimento alla sua morte ed all'intento di disporre dei suoi beni dopo la sua scomparsa, essendo sufficiente che lo scritto sia espressione di una volontà definitiva dell'autore, compiutamente e incondizionatamente manifestata allo scopo di disporre attualmente dei suoi beni, in tutto o in parte, per il tempo successivo alla propria morte. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito che aveva qualificato come testamento olografo un biglietto autografo del "de cuius" recante la clausola "nessuno faccia osservazione a questo biglietto essendo scritto di sua propria mano").

Cass. civ. n. 6449/2008

Ai fini dell'attuazione delle disposizioni testamentarie, occorre far riferimento alla situazione patrimoniale esistente al momento dell'apertura della successione, ben potendo il testatore disporre anche di beni che non gli appartengono al momento della redazione del testamento ma rientranti nel suo patrimonio al momento della sua morte.

Cass. civ. n. 21477/2007

L'atto col quale taluno eriga una fondazione, disponendo che i beni ed i redditi di essa siano destinati, dopo la morte del fondatore, ad un proprio erede legittimario, costituisce un legato disposto con un testamento assimilabile a quello olografo, a nulla rilevando che l'atto costitutivo della fondazione non sia stato scritto di pugno del testatore, ove comunque sia incontestabile l'autenticità della sua sottoscrizione. Ne consegue che, nel suddetto caso, l'acquisto effettuato dal beneficiario ha natura successoria ed è assoggettabile all'imposta sulle successioni.

Cass. civ. n. 4022/2007

Nell'interpretazione del testamento il giudice deve accertare, secondo il principio generale di ermeneutica enunciato dall'art. 1362 c.c., applicabile, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria, quale sia stata l'effettiva volontà del testatore comunque espressa, considerando congiuntamente ed in modo coordinato l'elemento letterale e quello logico dell'atto unilaterale mortis causa salvaguardando il rispetto, in materia, del principio di conservazione del testamento. Tale attività interpretativa del giudice del merito, se compiuta alla stregua dei suddetti criteri e con ragionamento immune da vizi logici, non è censurabile in sede di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, rilevandone la congruità della motivazione in base alla quale si era ritenuto che il testatore non aveva voluto istituire un erede, ma aveva, invece, previsto soltanto un onere a carico dell'erede, individuato secondo le norme della successione legittima in mancanza di istituzione testamentaria di erede, pur col singolare esito di utilizzazione dell'intero patrimonio ereditario per il soddisfacimento di quell'onere, volto alla realizzazione di un asilo nido, in apposita località, a beneficio di bambini extracomunitari).

Cass. civ. n. 20204/2005

In tema di interpretazione del testamento,qualora dall'indagine di fatto riservata al giudice di merito risulti già chiara,in base al contenuto dell'atto, la volontà del testatore, non è consentito — alla stregua del primario criterio ermeneutico della letteralità — il ricorso ad elementi tratti aliunde ed estranei alla scheda testamentaria.

Cass. civ. n. 15130/2005

In tema di interpretazione del testamento, al fine di stabilire se sia stata prevista l'attribuzione separata e simultanea a soggetti diversi della nuda proprietà e dell'usufrutto dei beni ereditari ovvero se sia configurabile la sostituzione fedecommissaria di colui che, essendo stato designato erede universale, sia obbligato — in virtù di una duplice chiamata secondo un ordine successivo — a conservare e restituire alla propria morte i beni a favore del sostituito, al quale viene trasmesso il medesimo diritto attribuito all'istituito, l'indagine non può limitarsi a valorizzare esclusivamente l'espressione «vita natural durante» usata dal testatore con riferimento alla disposizione a favore di uno dei soggetti onorati; infatti, la durata della vita del beneficiario assume rilievo sia nel caso in cui sia attribuito il diritto di usufrutto, sia nell'ipotesi in cui venga conferito il diritto di proprietà piena a favore dell'istituito nella sostituzione fedecommissaria, atteso che la durata della vita dell'usufruttuario costituisce la misura temporale del diritto reale conferito ed è al termine della vita dell'onorato che diventa operante la chiamata dei sostituiti nella sostituzione fedecommissaria.

Cass. civ. n. 7422/2005

L'interpretazione della volontà del testatore espressa nella scheda testamentaria, risolvendosi in un accertamento di fatto demandato al giudice di merito, è compito esclusivo di questo, nel senso che a lui è riservata la scelta e la valutazione degli elementi di giudizio più idonei a ricostruire la predetta volontà, potendo egli avvalersi in tale attività interpretativa, ovviamente con opportuni adattamenti per la particolare natura dell'atto, delle stesse regole ermeneutiche di cui all'art. 1362 c.c.; con la conseguenza che, se siffatta operazione è compiuta nel rispetto del predette regole e se le conclusioni che vengono tratte sono aderenti alle risultanze processuali e sorrette da logica e convincente motivazione, il giudizio formulato in quella sede non è sindacabile in sede di legittimità.

Cass. civ. n. 14548/2004

Nell'interpretazione di una scheda testamentaria, da condurre essenzialmente sulla base del dato testuale, possono legittimamente assumere rilievo anche elementi estrinseci (purché riferibili al testatore), quali, ad esempio, il grado di cultura del de cuius atteso che l'interpretazione degli atti di ultima volontà è sempre caratterizzata, rispetto all'ermeneutica contrattuale, da una più intensa ricerca della volontà concreta e da un più frequente ricorso all'integrazione con elementi estrinseci ad essi, sicché l'identificazione della persona onorata dalla disposizione testamentaria, fatta dal testatore in modo impreciso ed incompleto, non rende nulla la disposizione stessa quando, dal contesto del testamento o altrimenti, sia possibile determinare, in modo serio e senza possibilità di equivoci, il soggetto che il testatore ha voluto beneficiare.

Cass. civ. n. 3939/2001

L'esistenza o meno di un patrimonio nella disponibilità del de cuius non incide sulla validità del testamento non essendo prescritta detta condizione da alcuna norma di legge. Peraltro, di tale patrimonio possono far parte non solo i beni che appartengono al testatore al momento della morte, ma anche l'eventuale diritto di veder riconosciuta la proprietà su beni che apparentemente appartengono ad altri, nel qual caso l'erede istituito è legittimato a proporre tutte le azioni che avrebbe potuto iniziare il suo dante causa per conseguire la proprietà contestata, nonché a coltivare tutte le azioni che quest'ultimo aveva già proposto.

Cass. civ. n. 12861/1993

L'interpretazione del testamento è caratterizzata, rispetto a quella contrattuale, da una più penetrante ricerca, al di là della mera dichiarazione, della volontà del testatore, la quale, alla stregua delle regole ermeneutiche di cui all'art. 1362 c.c. (applicabili, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria), va individuata sulla base dell'esame globale della scheda testamentaria, con riferimento, essenzialmente casi dubbi, anche ad elementi estrinseci della scheda, come la cultura, la mentalità e l'ambiente i vita del testatore. Ne deriva che il giudice di ferito può attribuire alle parole usate dal testatore un significato diverso da quello tecnico letterale, quando si manifesti evidente, nella valutazione complessiva dell'atto, che esse siano state adoperate in senso diverso, purché non contrastante ed antitetico, e si prestino ad esprimere, in modo più adeguato e coerente, la reale intenzione del de cuius (nel ribadire tali principi, la S.C. ha annullato la decisione di merito che, in relazione ad un'istituzione di erede risolutivamente condizionata, aveva equiparato, al fine dell'avveramento della condizione si sine liberis decesserit, i figli adottivi a quelli legittimi, alla stregua esclusivamente dei parametri normativi di cui agli artt. 536 e 567 c.c.).

Cass. civ. n. 8668/1990

Nell'interpretazione del testamento il ricorso ad elementi estrinseci è consentito soltanto in via sussidiaria, ove cioè dal testo dell'atto non emerga con certezza l'effettiva volontà del de cuius, sempreché trattisi di elementi riferibili allo stesso, quali ad esempio la sua mentalità, cultura, condizione sociale, consuetudine di rapporti ecc., e non anche ai fini dell'indagine volta a stabilire se una lettera, e cioè uno scritto non avente la veste formale di un testamento, abbia il contenuto di una disposizione di ultima volontà dell'autore, senza che al riguardo possa attribuirsi rilevanza ad una dichiarazione resa ad un notaio dal coniuge del de cuius, dovendo l'anzidetta indagine essere condotta alla stregua dell'esclusivo esame dell'atto.

Perché si abbia una disposizione di ultima volontà e quindi esista un negozio mortis causa, è necessario che lo scritto contenga la manifestazione di una volontà definitiva dell'autore nel senso che essa si sia compiutamente ed incondizionalmente formata e manifestata e sia diretta a disporre attualmente, in tutto o in parte, dei propri beni per il tempo successivo alla morte.

Cass. civ. n. 2107/1990

Il giudice del merito, nell'interpretazione del testamento, la quale si risolve in un accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se immune da vizi logici e giuridici, può attribuire alle espressioni adoperate nell'atto un significato diverso da quello tecnico o letterale, purché non contrastante o antitetico, quando valutando la scheda nel suo complesso e tenendo conto dell'ambiente di vita del de cuius, tale diverso significato si presti ad esprimere in modo più adeguato e coerente la reale intenzione del defunto.

Cass. civ. n. 2632/1984

Per l'esistenza di un legato non basta l'espressione della volontà del testatore che quel determinato bene sia di proprietà del beneficiario, ma occorre la volontà di attribuire il bene per causa di morte, secondo l'espresso disposto dell'art. 587 c.c., con la conseguenza che non può configurarsi un siffatto negozio testamentario, qualora il testatore, nella scheda testamentaria, abbia adottato una dichiarazione di scienza col riconoscere la proprietà attuale di determinati beni in capo ad un determinato soggetto al momento della confezione del testamento. (Nella specie, il testatore nel lasciare in eredità ad un terzo un proprio immobile, aveva dichiarato, nel testamento, che tutto ciò che si trovava in tale immobile era già di proprietà del terzo istituito. In tale dichiarazione il giudice del merito, sulla base del rilievo che intenzione del testatore era quella di attribuire al terzo la proprietà anche di tali mobili, aveva ravvisato l'istituzione di un legato, attesa la consapevolezza del testatore circa la non rispondenza della dichiarazione alla reale situazione e per l'irrilevanza giuridica della formulazione letterale della disposizione. La S.C., sulla base del principio di cui alla massima ha
cassato la decisione).

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Consulenze legali
relative all'articolo 587 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

Ermanno C. chiede
martedì 09/04/2019 - Friuli-Venezia
“Testamento e acquiescenza.
Situazione:
Vedova muore lasciando testamento olografo. Dispone che gli immobili X-Y vadano a figlio1, gli immobili A-B al figlio2 e la liquidità ( gli importi non sono specificati) dei conti correnti al nipote1 (figlio di un figlio premorto). Il verbale di pubblicazione del testamento redatto dal notaio, riporta che i convenuti prestano "piena acquiescenza al testamento suddetto e alle disposizioni testamentarie come sopra interpretate". La frase riportata significa che:
A) i presenti dichiarano di aver avuto notizia del testamento, del suo contenuto e ne riconoscono la validità
B) come opzione A e in più ne accettano le disposizioni rinunciando a successive azioni?
Il mio avvocato propende per opzione A, citando la sentenza Cassazione n.168/2018.
Il notaio che ha redatto il verbale è orientato sulla opzione B.
Grazie”
Consulenza legale i 19/04/2019
La questione che è stata posta impegna, da oltre mezzo secolo, la giurisprudenza, anche di legittimità e la migliore dottrina (Ferri, Azzariti, Santoro-Passarelli tra gli altri).
Si cercherà, quindi, di fornire una risposta esauriente ma sintetica, considerata la complessità della materia, partendo da una breve analisi del negozio testamentario.

Esso è disciplinato dall’art. 587 c.c., che afferma: “Il testamento è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse”. Si tratta di un negozio giuridico formale che si deve estrinsecare nelle forme previste dal legislatore agli artt. 601 e seguenti del c.c.: testamento olografo, per atto di notaio (segreto o pubblico) e testamenti speciali.

Nel caso che ci occupa, il testamento è olografo, quindi, è: scritto, datato e sottoscritto di mano del testatore (ex art. 602 c.c.). I requisiti di tale tipo di testamento sono la scritturazione per intero di mano del testatore, la data, la sottoscrizione. Alla morte del testatore, chiunque è in possesso di un testamento olografo deve presentarlo ad un notaio per la pubblicazione.
Quest’ultimo procede predisponendo il verbale di pubblicazione alla presenza di due testimoni. All’atto viene allegato: un estratto dell’atto di morte e la carta su cui è scritto il testamento, vidimata dal notaio e dai testimoni (art. 620 c.c.).
Nel verbale di pubblicazione del testamento olografo il notaio provvede alla mera trascrizione del contenuto del testamento.
La pubblicazione del testamento non è requisito di validità o efficacia dello stesso ma ne consente l’esecuzione (ex art. 620, comma V, c.c.). La pubblicazione, quindi, è l’atto prodromico per procedere all’esecuzione coattiva del testamento, alla trascrizione dei legati, alla denuncia di successione e alla volturazione delle intestazioni catastali.

Nel caso di specie è avvenuto che i chiamati all’eredità fossero presenti al momento della pubblicazione del testamento e avanti il notaio avrebbero dichiarato di prestare: “…omissis… piena acquiescenza al testamento suddetto e alle disposizioni testamentarie come sopra interpretate”.
Si può, quindi, presumere che successivamente alla pubblicazione, il notaio abbia anche provveduto alla trascrizione delle disposizioni testamentarie ai sensi dell’art. 2648 c.c..

È quindi, necessario, ora, analizzare l’istituto dell’acquiescenza.
L’acquiescenza conosciuta nell’ambito processualcivilistico (art. 329 cpc) è un fatto giuridico non un negozio. Essa consiste nella consapevole accettazione di effetti sfavorevoli, pur se non per mezzo di una dichiarazione di volontà espressa. Essa è un istituto giuridico che presupponendo un conflitto di interessi tra il titolare del diritto leso e la controparte, necessita di una pronuncia giudiziale per ottenere una valutazione di preminenza dell’uno rispetto all’altro.
L’acquiescenza, per poter riverberare i propri effetti in concreto, necessita di una pronuncia giudiziale. In altre parole, non può che essere il Tribunale chiamato a decidere, a valutare se tutti i fatti e gli atti compiuti dai chiamati siano idonei, o meno, a confermare la volontà di dar corso alle disposizioni testamentarie. Pertanto, l’istituto dell’acquiescenza, in sé e per sé considerato, è estraneo all’ambito dell’autonomia privata e, conseguentemente, anche all’attività notarile.

Pertanto, sembrerebbe potersi già concludere sostenendo che la mera dichiarazione di acquiescenza resa dai chiamati all’eredità al momento della pubblicazione del testamento, non sia idonea a precludere agli stessi la possibilità di agire, ad esempio, con un’azione di riduzione per lesione di legittima.
Parrebbe, quindi, di poter aderire alla conclusione a cui è giunto il collega precedentemente interpellato.

Si potrebbe, però, giungere ad una conclusione diametralmente opposta, qualora si potessero analizzare nello specifico, ulteriori elementi della fattispecie che ci occupa.
Se, infatti, successivamente alla pubblicazione del testamento, nella dinamica della regolazione dei reciproci rapporti tra chiamati all’eredità, questi ultimi hanno dato corso alle disposizioni testamentarie, ponendo in essere, ad esempio, gli atti successivi e prodromici alla trascrizione degli acquisti immobiliari in favore degli assegnatari in conformità a quanto riportato nel testamento, eventualmente, anche disponendo degli stessi immobili o beni mobili caduti in successione (mediante ad esempio, successivi atti inter vivos), ciò non potrebbe che far propendere per la perdita della possibilità di agire per la tutela di eventuali diritti lesi.
Vero è che la sola dichiarazione di acquiescenza e la mera pubblicazione del testamento non sono idonee alla conferma dello stesso (Cass. 2273/1969) ma è anche vero che qualora fosse stato dato corso alle successive trascrizioni ed intestazioni da parte dei chiamati all’eredità, tale dichiarazione, unita agli atti successivi, ben potrebbe far propendere per la conferma della volontà di dare attuazione all’atto mortis causa, con conseguente perdita del diritto ad agire per ottenere ragione di eventuali diritti lesi dalle disposizioni del de cuius.

In conclusione, la dichiarazione prestata dai chiamati, in sé e per sé considerata, non pregiudica la possibilità per gli stessi di agire.
Qualora, invece, alla dichiarazione fossero seguiti ulteriori atti a conferma ed in esecuzione delle disposizioni testamentarie, coloro che li avessero posti in essere o, comunque, assecondati e/o accettati, vedrebbero preclusa la possibilità di ottenere in sede giudiziale quanto preteso.
In quest’ultimo caso, solamente una pronuncia del Tribunale competente potrebbe statuire in ordine ai precisi effetti conseguenti alla dichiarazione resa ed atti scaturiti dalla volontà dei chiamati.
E tale la valutazione sarebbe rimessa al prudente apprezzamento del Giudice.

Giovanni V. chiede
domenica 16/04/2017 - Sicilia
“Sono Giovanni V., ho inviato copia del testamento olografo di mia Zia, sorella di mio padre. la predetta ha quattro sorelle germane e un fratello unilaterale. Ognuno di essi, tutti già defunti , ha prole e sono elencati nella colonna sinistra del testamento , mentre le prole è indicata nella colonna di destra. Si desidera conoscere a chi ha lasciato tutti i beni e con quali percentuali . In particolare, ha lasciato ai fratelli in parti uguali, che a sua volta devolvono ai figli in proporzione al numero di questi o ha lasciato direttamente ai nipoti in parti uguali ?”
Consulenza legale i 26/04/2017
Il testamento non lascia dubbi sul fatto che si tratti di istituzione di erede a titolo universale senza predeterminazione di quote: “Le disposizioni testamentarie, qualunque sia l'espressione o la denominazione usata dal testatore, sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede, se comprendono l'universalità o una quota dei beni del testatore. Le altre disposizioni sono a titolo particolare e attribuiscono la qualità di legatario (…)” (art. 588 cod. civ., 1° comma).
La testatrice, infatti, scrive “lascio tutto” e poi “tutto quello che c’è”.

Quando l’intero venga attribuito a più soggetti congiuntamente, senza ulteriori specificazioni, si presume l’uguaglianza delle quote (specialmente quando, come in questo caso, non vi sia contestualmente nel testamento l’assegnazione di beni determinati).
Dunque, anche in questo caso, coloro che sono stati nominati eredi universali (chiunque essi siano) godranno di una quota dell’intero compendio ereditario di pari valore.

Ad avviso di chi scrive, gli eredi istituiti sono senz’altro i nipoti, ovvero i soggetti elencati nella colonna di destra del testamento, in parti uguali, e ciò per diverse ragioni, alcune dettate dalla logica ed altre fondate sul diritto.

In primo luogo la testatrice scrive definendo sé stessa come “zia Nina”, per cui si presume che si stia rivolgendo direttamente ai nipoti e a questi ultimi voglia lasciare i suoi beni nella speranza che non entrino in contrasto tra loro;

In seconda battuta, tutti i fratelli e le sorelle della defunta sono deceduti anni prima della redazione del testamento: la de cuius, evidentemente, era perfettamente consapevole della situazione ed il fatto che a destra abbia elencato i nomi dei suoi fratelli e sorelle, ad avviso di chi scrive, è motivata solamente da ragioni di chiarezza, di scrupolo, di precisazione; essendo, infatti, numerosi i nipoti, e non volendo tralasciarne nessuno, la zia ha preferito specificare per ogni fratello/sorella chi e quanti fossero i figli. Una sorta di memorandum anche per ella stessa mentre attendeva alla stesura del testamento.

Infine, al di là del fatto che nel testamento siano nominati tutti i parenti, compresi i fratelli e le sorelle, non esiste alcun termine né alcuna espressione nel documento che lasci presumere o intuire che la chiamata dei nipoti sia da considerarsi “successiva” rispetto a quella dei propri genitori.

E’ prevista, infatti, dalla legge, l’ipotesi della “sostituzione ordinaria”, che si ha quando il testatore istituisce un erede ma individua già, per il caso in cui quest’ultimo non voglia o non possa accettare l’eredità, il soggetto che dovrà prenderne il posto (si tratta di vero e proprio subentro nella medesima posizione dell’erede istituito/sostituito).
La fattispecie è prevista dall’art. 688 cod. civ.: “Il testatore può sostituire all'erede istituito altra persona per il caso che il primo non possa o non voglia accettare l'eredità.”.

Ebbene, nel caso del testamento in esame, si potrebbe dunque in astratto ipotizzare che la testatrice abbia inteso operare una “sostituzione” nei termini anzidetti - ovvero (come ipotizzato anche nel quesito) che la testatrice abbia voluto istituire nell’ordine prima i fratelli e le sorelle, al fine di ripartire ugualmente le quote tra essi, e solo successivamente i figli di questi ultimi per il caso di premorienza dei genitori (come in effetti è avvenuto).
Il risultato pratico, in questa eventualità, sarebbe allora diverso: il patrimonio, infatti, dovrebbe dapprima essere diviso in 5 parti (numero di quote, uguali, pari al numero dei fratelli) e solo successivamente ciascuna di queste dovrebbe essere divisa per il numero dei figli.
In concreto:
- il fratello D. ha un solo figlio: la quota di 1/5 si traferisce per intero a lui;
- il fratello A. ha tre figlie: la quota di 1/5 si divide per tre, 1/15 a ciascun figlio;
- la sorella G. ha quattro figli: la quota di 1/5 si divide per quattro, 1/20 a ciascun figlio;
- la sorella L. ha tre figli: la quota di 1/5 si divide per tre, 1/15 a ciascun figlio;
- la sorella M. ha due figli: la quota di 1/5 si divide per due, 1/10 a ciascun figlio

Questa l’ipotesi, come già detto, se e solo se si ritenga che l’inserimento nel testamento dei nomi dei fratelli e sorelle premorti della testatrice debba essere inteso come espressione della volontà di quest’ultima di operare una “sostituzione” della natura di quella prevista e disciplinata dall’art. 688 cod. civ..

Abbiamo già osservato, però, come diversi elementi inducano a ritenere questa interpretazione abbastanza improbabile.
Si aggiunga, peraltro, che secondo gli studiosi del diritto il testamento deve essere interpretato in modo da attribuire alle parole ed espressioni utilizzate dal testatore il senso che quest’ultimo voleva dare loro. In parole più semplici: è poco probabile, mancando nel testamento in oggetto qualsiasi espressione che possa far pensare in modo chiaro alla “sostituzione” di cui sopra, che la de cuius abbia formulato il testamento pensando a questo istituto giuridico abbastanza particolare; è, invece, ossia più probabile che abbia steso il testamento ignorando del tutto l’istituto in questione.
In pratica, se avesse voluto operare la sostituzione ex art. 688 cod. civ. avrebbe, molto probabilmente, scritto: “Io sottoscritta lascio tutto quello che c’è ai miei fratelli e sorelle oppure, nel caso in cui questi ultimi non ci siano più, ai miei nipoti”.

Si ribadisce, in conclusione, che appare molto più probabile e fondata un’interpretazione del documento secondo cui gli eredi universali istituiti (direttamente) dalla signora sono i suoi nipoti.

Gaetano S. chiede
martedì 13/09/2016 - Sicilia
“La zia di mia moglie con una sola figlia interdetta per infermità mentale - ha redatto testamento nominando mia cognata tutore e mia moglie protutore e affidataria della figlia interdetta. Ambedue i genitori ( nel caso specifico lo zio e la zia di mia moglie) hanno per testamento disposto che tutti i loro beni alla loro dipartita passassero alla figlia interdetta ( e questo mi sembra regolare trattandosi di unica figlia) ed alla dipartita della loro figlia ( di cui mia moglie e' stata nominata protutore ed affidataria ) che tutti i beni restanti passassero unicamente a mia moglie in quanto affidataria. ( la zia - cioè la madre della interdetta - e' nel frattempo defunta) .lo zio ( il padre della interdetta ) 90enne e' al momento in casa di riposo . Non ci sono fratelli/sorelle/nonni della interdetta- ci sono solo cugini e(al momento) zii . Alla dipartita della interdetta il testamento redatto in questa forma ( l'affidataria erede unica dei restanti beni) e' impugnabile da qualcuno ?”
Consulenza legale i 19/09/2016
Il caso che si propone prospetta, al di là del quesito finale, una serie di problematiche che si ritiene utile affrontare per giungere ad una conclusione più esauriente.
In particolare, gli aspetti da esaminare e che la fattispecie propone all’attenzione si ritiene siano i seguenti:
a) Ammissibilità della nomina per testamento di un tutore e di un protutore al figlio interdetto;
b) Validità di un testamento congiuntivo o reciproco;
c) Individuazione dei soggetti a favore dei quali la legge riserva una quota di eredità;
d) Limiti e forme della sostituzione fedecommissaria.

Ammissibilità della nomina per testamento di un tutore e di un protutore al figlio interdetto
Si legge che la zia, madre dell’interdetta, ha redatto testamento con il quale ha nominato un tutore ed un protutore alla figlia interdetta, indicando il protutore quale affidatario dell’interdetto.
Al riguardo si ritiene opportuno precisare che il fondamento normativo di tale disposizione va rinvenuto nell’art. 587 codice civile, al cui secondo comma si legge che "le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento, hanno efficacia, se contenute in un atto che ha la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale". Alcune di tali disposizioni sono espressamente disciplinate dal codice, quale per l’appunto la designazione del tutore dell’interdetto ex art. 424 codice civile.
Va precisato, tuttavia, che trattasi soltanto di designazione, in quanto la nomina vera e propria resta sempre di competenza del giudice tutelare il quale, per gravi motivi, può non attenersi all’indicazione testamentaria.

Validità di un testamento congiuntivo o reciproco
Da una semplice lettura del caso potrebbe ricavarsi l’impressione che lo zio e la zia abbiano disposto in favore della figlia interdetta con il medesimo testamento, il che legittimerebbe la sussistenza di forti dubbi sulla validità di tale forma testamentaria.
Infatti, ai sensi dell'art. 589 cod.civ. non si può fare testamento da due o più persone nel medesimo atto, né a vantaggio di un terzo, né con disposizione reciproca.
La violazione del divieto, secondo la prevalente opinione, cagionerebbe la nullità del testamento per motivi di carattere sostanziale (per ragioni assimilabili a quelle sottostanti al divieto dei patti successori ex art. 458 cod.civ. ).
Si ritiene opportuno precisare che il testamento congiuntivo consiste in quell'atto di ultima volontà che vede la partecipazione di più soggetti all'atto (es.: noi Tizio e Tizia lasciamo il nostro appartamento a nostro figlio Caio.), mentre diverso sarebbe il caso sia dei testamenti simultanei, in cui più testatori esprimano le proprie volontà, ciascuna distinta dall'altra, tutte veicolate dal medesimo supporto documentale (es.: Tizio scrive su un foglio a quattro facciate il proprio testamento che occupa la sola prima facciata; Tizia a propria volta redige sulla terza facciata interna dello stesso foglio il proprio testamento in modo del tutto autonomo) sia dei testamenti corrispettivi con i quali due persone dispongono a vantaggio reciproco (testamenti c.d. corrispettivi reciproci) o di un terzo (testamenti c.d. congiuntivi), ma lo fanno con due atti mortis causa separati.
Pertanto, il testamento della zia e dello zio sarà da ritenere valido ed efficace nei limiti in cui non sia stato confezionato nelle forme del testamento congiuntivo.

Individuazione dei soggetti a favore dei quali la legge riserva una quota di eredità
Nel nostro diritto ereditario sono presenti due principi in apparente contrasto: da un lato la libertà di disporre per testamento, dall’altro l’interesse della famiglia.
L’istituto della quota di legittima riservata ad alcune categorie di successibili (i legittimari, appunto), vale a bilanciare le due diverse esigenze.
Il legislatore ha stabilito, attraverso un’elencazione tassativa (art. 536 c.c.), che il coniuge, i figli e, in mancanza di questi, gli ascendenti, all’apertura della successione, acquistano diritto ad una quota del patrimonio del de cuius, che si calcola aggiungendo al relictum (ciò che è stato lasciato dal defunto depurato dei debiti) il donatum , cioè i beni donati in vita.
Rientrano tra i legittimari inoltre, sempre per espressa previsione dell’art. 536 c.c., i discendenti dei figli legittimi o naturali, i quali vengono alla successione in luogo di questi, mentre ai figli legittimi vengono equiparati i figli legittimati e adottivi.
La frazione di patrimonio di cui il testatore non può disporre è detta legittima (o anche quota indisponibile o quota di riserva) e coloro che ne hanno diritto sono detti appunto legittimari (o anche eredi necessari).
La successione dei legittimari è definita comunemente successione necessaria in quanto destinata ad operare in ogni caso, anche contro atti di disposizione del defunto. L’ultimo comma dell’art. 457 c.c. stabilisce, infatti, che «le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari».
Ciò posto, pertanto, nel caso di specie non ricorre alcuna categoria di legittimario (non avendo la persona della cui eredità si tratta parenti che possano farsi rientrare in alcuna di dette categorie), con la conseguenza che sarà pienamente valida ed efficace la disposizione testamentaria in favore della zia designata quale protutore ed affidataria della persona interdetta.

Limiti e forme della sostituzione fedecommissaria
Per espressa disposizione dell’art. 692 c.c. è valida ed efficace la disposizione con cui il testatore impone all’erede o legatario (istituito incapace) l’obbligo di conservare e restituire alla sua morte quanto attribuitogli ad altra persona che avrà avuto cura di lui in vita (sostituito), con la conseguenza che alla morte dell’istituito incapace i beni passeranno automaticamente al sostituito.
Presupposti affinché tale disposizione possa operare sono che:
a) l’istituito sia figlio del testatore
b) sia stato interdetto
c) il suo stato di incapacità permanga per tutta la durata della prima istituzione
In mancanza di uno di tali requisiti, che nel caso prospettato sembrano sussistere tutti, la disposizione sarà nulla e non potrà essere sanata ex art. 590 c.c.
Si tratta dell’unica ipotesi di delazione successiva consentita dall’ordinamento, e l’acquisto del sostituto (cioè la zia affidataria) avverrà ipso iure, ossia automaticamente al momento della morte dell’istituito.
Poiché si tratta senza dubbio di un istituto giuridico con carattere assistenziale, assume particolare rilievo la cura morale e materiale dell’incapace, cura che costituirà un vero e proprio onere per il sostituto.
Infine si tiene a precisare che dei dubbi potrebbero essere sollevati circa la capacità del protutore di ricevere per testamento, dubbi alimentati dalla disposizione di cui all’art. 596 c.c., che parla di incapacità del tutore e del protutore di ricevere per testamento dalla persona sottoposta a tutela.
Va detto tuttavia che tale norma non può trovare applicazione nel caso di specie, riguardando l’ipotesi in cui sia la stessa persona incapace a disporre per testamento in favore del tutore, volendosi con ciò evitare una sorta di captazione della sua volontà.
Inoltre, la medesima norma estende il suo ambito di applicazione al protutore soltanto in via sussidiaria e per il caso in cui il testamento sia redatto nel tempo in cui lo stesso protutore sostituiva il tutore, ipotesi del tutto da escludere nel caso di specie, ove peraltro la zia, designata quale protutore, viene anche indicata come affidataria dell’interdetta, ossia come persona che dovrà prendersi cura morale e materiale di quest’ultima.

Sergio M. G. chiede
domenica 29/03/2015 - Lombardia
“Ho già sottoposto il quesito tempo fa. Ma ora Vi trasmetto il testamento integrale:
"Disposizioni testamentarie.
Il sottoscritto P.A. nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, con il presente atto rendo noto la mia volontà testamentaria:

lascio tutto il mio patrimonio mobile ed immobile a mia moglie C.G. e precisamente;
casa di abitazione sita in ..., quota del 50% dell'appartamento sito in ..., quota del 75% del capannone artigianale sito in ..., quota di un terzo dei terreni boschivi siti in ...
In fede (firma)

PS. Dispongo inoltre che in morte mia e di mia moglie tutti i beni mobile ed immobili sopradescritti vadano in parti uguali alle sorelle A. e M.

PS. Dispongo inoltre che in morte mia e di mia moglie tutto quanto sarà disponibile sul conto corrente e sul deposito titoli presso la Banca ..., vadano in parti uguali alle sorelle S. e A.

In fede (firma)"

Il testatore e' deceduto il 7-11-2014. La moglie il 10-12-2014.
Non hanno ascendenti ne discendenti.

Le sorelle A. e M. sono figlie di una sorella di P.A.
Noi siamo 5 cugini di 1 grado della moglie, eredi di grado più vicino.

Quesito: chi ha diritto alla eredità dei de cuius?
Noi come cugini abbiamo avviato le pratiche di successione tramite notaio che ha curato la pubblicazione del testamento affidatogli dalla moglie poco prima di morire.
Le sorelle A. e M. ci hanno inviato una diffida tramite l'avv. a cui si sono rivolte.”
Consulenza legale i 31/03/2015
Il testamento citato nel quesito presenta delle clausole a nostro giudizio invalide o quanto meno inefficaci.
Sembra evidente che il testatore volesse fare in modo che il proprio patrimonio andasse in primis a sua moglie e, dopo la morte di questa, alle sue nipoti (figlie di sua sorella).

Il problema, però, è che nel nostro ordinamento una persona non può decidere le sorti dell'eredità di un'altra persona: il testamento è un atto personalissimo, e può riguardare solo il patrimonio di chi lo scrive.

Riportandoci ai termini della questione, il marito poteva certamente decidere di lasciare tutto alla moglie, quale erede universale (in mancanza di figli o genitori viventi).
Poteva altresì provvedere alla sostituzione dell'erede istituito, per il caso che questi non potesse o non volesse accettare l'eredità o il legato, come nel caso in cui fosse premorto (attenzione: morto prima del testatore!). Si parla in questo caso di sostituzione ordinaria (art. 689 del c.c.), istituto che ha lo scopo di assicurare al testatore che il suo patrimonio venga devoluto comunque ad una persona di sua scelta, senza che operino le norme sulla successione legittima.

Ciò che il testatore non poteva fare era decidere a chi sarebbe stata devoluta l'eredità della moglie nel caso in cui ella fosse morta dopo di lui. Si tratta di una clausola testamentaria che non può avere alcuna applicazione, quindi nulla, ma che non per questo rende nullo tutto il testamento: rimane valida la chiamata ad erede universale della moglie.

Nel caso di specie, come già evidenziato nel precedente parere, la moglie è senza dubbio divenuta erede universale del marito, che è morto prima di lei, seppure a distanza brevissima dalla sua stessa morte.
Di conseguenza, i beni indicati nel testamento sono stati a lei devoluti.
Casomai, si potrà ragionare sulle modalità di accettazione dell'eredità del marito, visto che la moglie, probabilmente, non aveva ancora avuto il tempo di accettare formalmente: in tal caso, il diritto di accettare si sarebbe trasmesso ai suoi eredi legittimi (i cugini, parenti più prossimi).

Ci sembra di poter escludere che i beni immobili indicati in testamento possano essere stati devoluti alle nipoti del testatore, in quanto:
- se anche la frase "Dispongo inoltre che in morte mia e di mia moglie tutti i beni mobile ed immobili sopradescritti vadano in parti uguali alle sorelle A. e M." si possa interpretare come sostituzione ordinaria, non si sarebbe verificato il presupposto della morte della moglie prima di quella del marito, e quindi la clausola, seppure valida, sarebbe inefficace;
- se il testatore volle disporre dell'eredità della moglie con il suo testamento, ciò gli è impedito dalla legge, e quindi la clausola va considerata assolutamente nulla.

Le nipoti del testatore potrebbero reclamare una parte dell'eredità solo laddove il testamento possa essere impugnato per altro motivo (es. vizio di forma) e quindi fatto decadere. In tal caso, se tornasse ad operare la successione legittima, l'eredità del signore andrebbe così divisa: al coniuge vengono devoluti i due terzi dell'eredità, ai fratelli e sorelle un terzo (art. 582 del c.c.). I due terzi del coniuge sarebbero poi stati ereditati dai suoi cugini, mentre il terzo riservato ai fratelli e sorelle del testatore sarebbe potuto essere devoluto ai loro figli (nipoti del de cuius) in virtù del diritto di rappresentazione (art. 467 del c.c.).

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