Il primo comma di questa norma sancisce la regola generale secondo cui il giudice civile deve osservare le norme di stretta legalità.
Tale principio, tuttavia, soggiace a delle eccezioni, una delle quali è quella enunciata nella parte iniziale del 2° co., ove è detto che “
il giudice di pace decide secondo equità”.
Ulteriore eccezione all'eccezione (che ripristina il regime ordinario) è quella contenuta nella seconda parte del secondo comma, secondo cui sono decise secondo diritto le controversie relative a contratti conclusi con moduli o formulari, anche se di competenza del
giudice di pace e di minimo valore economico.
Cominciando dall’analisi della regola generale della legalità nella decisione giudiziaria, contenuta come detto nel primo comma, essa deve considerarsi come espressione del principio costituzionale di legalità, desumibile dal combinato disposto del primo comma dell’
art. 24 Cost. e del secondo comma dell’
art. 101 Cost., il quale si pone come obbligo per tutti gli organi dell'ordinamento giuridico di osservare come dato ineliminabile la norma giuridica generale e astratta di diritto positivo; in particolare, in forza di quanto statuito dal secondo comma dell’art. 101cost., i singoli giudici nell'esercizio delle loro funzioni giurisdizionali sono sottratti a qualsiasi condizionamento esterno, compreso quello eventualmente derivante da altri giudici.
Lo stesso principio di legalità deve, a sua volta, considerarsi strettamente connesso sia a quello della separazione dei poteri (il quale comporta che la creazione del diritto esula dalle prerogative e dai compiti del giudice), che a quello di sovranità popolare, contenuto nell’
art. 1 Cost..
Corollario del principio di legalità è la c.d. regola
iura novit curia, in forza della quale il giudice stabilisce autonomamente quale norma di diritto (generale e astratta) è applicabile alla fattispecie concreta sottoposta alla sua decisione, senza alcun vincolo rispetto alle affermazioni e indicazioni fatte dalla parte.
Tale regola si traduce, nel contempo, in capo al giudice, da un lato nella libertà nella sua attività di ricerca ed individuazione della norma di diritto applicabile e, dall'altro, nel dovere di svolgere e compiere ogni iniziativa possibile per pervenire a una conoscenza piena, immediata e diretta della medesima norma di diritto.
Inteso in tal senso, il principio
iura novit curia comporta che, malgrado le norme dedicate alla domanda giudiziale (il n. 3 dell’
art. 163 del c.p.c. per l'
atto di citazione ed il n. 4 dell’
art. 414 del c.p.c. per il ricorso nel processo del lavoro) impongano alla parte, tra l'altro, “l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto”, deve escludersi che in capo alle parti sussista un onere in senso tecnico di indicare le norme di diritto di cui si chiede l'applicazione.
In particolare, si afferma che il giudice, ove intenda decidere la controversia in base a una norma di diritto diversa da quella prospettata dalle parti, ha l'obbligo di provocare su tale questione un preventivo contraddittorio, e ciò per evitare le c.d. pronunce a sorpresa o la c.d. terza via.
Inoltre, nel compito che il giudice ha di individuare la norma generale ed astratta applicabile alla fattispecie specifica e concreta tra tutte quelle che compongono l'ordinamento giuridico, va compreso anche l’onere dello stesso di considerare l'evoluzione che il medesimo subisce con il trascorrere del tempo.
Ciò significa che il giudice deve applicare il diritto vigente non al momento della proposizione della domanda, ma al momento della pronuncia, salvo che le norme sopravvenute non siano irretroattive (da ciò ne consegue anche che il giudice, in ogni stato e grado del processo, deve d'ufficio considerare le eventuali pronunce d'illegittimità costituzionale intervenute in corso di causa).
Il principio
iura novit curia, in conformità al principio costituzionale della soggezione del giudice soltanto alla legge, va inteso anche nel senso di libertà per il giudice di interpretare la norma di diritto applicabile, senza essere vincolato alle richieste delle parti.
Al riguardo, peraltro, va evidenziato che le prescrizioni di diritto positivo sull'interpretazione e sull'applicazione del diritto in generale sono norme che hanno carattere giuridico e che stabiliscono un ordine graduato delle operazioni interpretative da compiersi.
L'art. 12 delle preleggi, infatti, impone un ordine dei criteri di ermeneutica cui far ricorso per applicare la legge: innanzitutto, si deve procedere all'interpretazione letterale, al secondo livello c'è l'
analogia legis ed, infine, l’analogia
iuris, a cui ricorrere esclusivamente se il caso rimane ancora dubbio.
Norme speciali di interpretazione sono dettate per le fonti esterne.
In particolare, ai sensi dell'art. 15, L. 31.5.1995, n. 218, la legge straniera richiamata dalle norme italiane di diritto internazionale privato deve essere “
applicata secondo i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo”.
Si deve anche tenere presente che l'ordinamento giuridico italiano pone un limite all'interpretazione della legge straniera; infatti, l’art. 16 della Legge 31.05.1995 n. 218 stabilisce che “
La legge straniera non è applicata se i suoi effetti sono contrari all'ordine pubblico”, nel qual caso il giudice deve applicare la legge richiamata mediante altri criteri di collegamento ovvero in subordine la legge italiana.
Il secondo comma prevede la prima eccezione al principio di legalità, e ricorre, come accennato, con riferimento alla pronuncia secondo equità del giudice di pace.
Nell'ordinamento vigente manca una definizione positiva di
equità, ed infatti, a fronte di tale lacuna, il primo e principale sforzo della dottrina è stato quello di compiere delle classificazioni dei diversi tipi di equità.
La fondamentale distinzione che è stata prospettata è tra equità “integrativa o correttiva” (prevista al fine di integrare e completare la disciplina di diritto positivo) e “sostitutiva o formativa” (la quale permette al giudice di decidere la controversia esclusivamente in base all'equità, per questo, dunque, sostitutiva del diritto positivo).
La distinzione dell'equità in integrativa e sostitutiva non esclude che le stesse abbiano almeno due caratteri in comune.
Innanzi tutto, il richiamo all'equità può assumere un significato soltanto in quanto contrapposto alla stretta legalità, da intendere nel senso che il ricorso all'equità è ammissibile unicamente in presenza di un'espressa disposizione di diritto positivo che lo consenta.
In secondo luogo, il richiamo all'equità può assumere un significato soltanto in quanto rimesso a un soggetto terzo rispetto alle parti interessate dal rapporto da regolarsi integralmente o parzialmente secondo equità; ciò significa che luogo di elezione dell'equità non può che essere il giudizio, sia davanti a giudici che dinanzi ad arbitri (rituali e irrituali).
Con riferimento all'ambito di applicabilità del secondo comma, deve sottolinearsi che il giudice di pace deve sempre, attraverso una valutazione di stretta legalità, stabilire, in
limine litis (contestualmente alla risoluzione della questione della sussistenza della propria competenza), se la causa che si sta svolgendo dinanzi a lui deve decidersi secondo equità, ovvero
stricto iure; infatti, è indispensabile che le parti sappiano, sin dall'inizio del processo, in quale dei due possibili modi sarà decisa la loro lite, e ciò principalmente per poter predisporre adeguate strategie difensive.
È pacifico in dottrina che nelle cause di valore inferiore a 1.100 euro di competenza del giudice di pace ed in cui non operi l'eccezione della seconda parte del 2° co., le parti non possono derogare al regime legale dell'equità necessaria: anche se le parti chiedessero concordemente al giudice di pace di decidere la causa di valore non eccedente il suddetto valore secondo stretto diritto, il giudice di pace dovrebbe comunque legittimamente deciderla secondo equità, indipendentemente dalla circostanza che oggetto della controversia siano diritti disponibili o indisponibili ovvero che la materia sia regolata da norme imperative.
Deve, inoltre, ritenersi che il giudice di pace possa decidere secondo equità anche le cause in cui sia parte una
pubblica amministrazione, seppure questa invochi l'applicazione della stretta legalità in forza dei poteri che le sono attribuiti dalla legge.
Una particolare ipotesi che può presentarsi è quella di un
simultaneus processus di cause sottoposte a diversi criteri di decisione.
Secondo l'opinione maggioritaria, in casi del genere tutte le cause devono essere risolte secondo diritto, salvo che il giudice, nelle ipotesi di cumulo soggettivo, non ritenga preferibile separarle, considerato che non ha senso semplificare l'attività decisoria di una causa quando contestualmente altre devono essere decise secondo la stretta legalità.
In contrario, ritenendosi che il giudizio di equità del giudice di pace non possa considerarsi rito speciale, si è affermato che il
simultaneus processus non osta a che l'art. 113, 2° co. si applichi a quella sola, fra le cause connesse, per la quale sia prevista dalla legge.
Secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, invece, occorre distinguere a seconda che le domande cumulate avanti al giudice di pace siano o meno tra loro legate da un rapporto di connessione.
Anche qualora la decisione debba essere presa secondo equità, la Suprema Corte è fermissima nell'affermare che il giudice di pace è obbligato al rispetto di tutte le norme processuali, nonché di quelle sostanziali cui le norme processuali facciano rinvio.
Tale posizione è stata peraltro espressamente accolta dal diritto positivo; infatti, il terzo comma dell’
art. 339 del c.p.c., come sostituito dal D.Lgs. 2.2.2006, n. 40, stabilisce espressamente che le sentenze d'equità del giudice di pace sono impugnabili “
per violazione delle norme sul procedimento”; da ciò se ne fa conseguire che il giudice onorario deve decidere secondo equità esclusivamente le questioni di merito.
Al fine di evitare che il giudice di pace travalichi il suo compito di interprete del diritto e diventi creatore del diritto, in violazione dei fondamentali principi costituzionali di legalità, divisione dei poteri, sovranità popolare, deve ritenersi che l'equità necessaria possa soltanto assurgere a forma di auto integrazione dell'ordinamento giuridico; di conseguenza, deve escludersi che il giudice di pace possa individuare la regola equitativa con cui decidere la controversia nei valori etici, morali o sociali diffusi e non ancora recepiti in norme di diritto positivo.
In ogni caso, al fine di evitare la pronuncia di sentenze a sorpresa e la sostanziale violazione del diritto costituzionalmente garantito di difesa, il giudice di pace deve sempre, prima di pronunciare definitivamente, provocare il contraddittorio sulla regola equitativa che intende porre a fondamento della decisione.
Si tenga ben presente che il giudice di pace, nell'individuare la regola d'equità, non può mai derogare ai precetti costituzionali né può divergere dalle norme di diritto scritto nelle materie coperte da riserva assoluta da legge.
Tale conclusione è stata recepita positivamente dal D.Lgs. 2.2.2006, n. 40, che ha sostituito il 3° co. dell'art. 339, prevedendo espressamente che le sentenze pronunciate secondo equità dal giudice di pace sono appellabili, tra l'altro, per violazione di norme costituzionali o comunitarie.
Le considerazioni secondo cui l'equità necessaria assolve, da un lato alla funzione di semplificazione del processo e, dall'altro lato, viene imposta dal legislatore a prescindere dalla volontà delle parti, impongono di ritenere che il giudice di pace abbia non il “
dovere” ma il “
potere” di decidere secondo equità, potendo, qualora lo reputi più facile, semplice o rapido, pronunciare applicando le norme di diritto.
Per quanto riguarda il regime di
impugnazione della sentenza emessa ai sensi dell'art. 113, 2° co., prima del D.Lgs. 2.2.2006, n. 40, l'art. 339 si limitava a stabilire che le stesse fossero inappellabili; ciò trovava spiegazione, oltre che in esigenze di economia processuale, invocando l'incompatibilità di qualsiasi decisione di equità con il riesame del merito, proprio dell'appello.
Con il D.Lgs. 2.2.2006, n. 40, il nuovo terzo comma dell’art. 339 ha stabilito che tali pronunce sono soggette ad appello esclusivamente:
1) “
per violazione delle norme sul procedimento”;
2) “
per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi ispiratori della materia”.
La formula “
violazione delle norme sul procedimento” sembra comprendere al proprio interno, sia i “
motivi attinenti alla giurisdizione” di cui al n. 1 dell’art. 360cpc sia la “
violazione delle norme sulla competenza”, sia la “
nullità della sentenza o del procedimento” (ex art. 360, n. 4), sia i vizi della motivazione (disciplinati dal n. 5 dell’art. 360).
Come già anticipato, il 2° co. dell'articolo in esame si chiude inserendo un'eccezione all'eccezione e così ripristinando il principio generale per le cause relative a contratti conclusi con moduli o formulari, anche se di competenza del giudice di pace e di minimo valore economico, le quali devono essere decise secondo stretta legalità.
Deve qui evidenziarsi che il rinvio viene fatto esclusivamente alla circostanza che il contratto sia stato concluso “mediante la sottoscrizione di moduli o formulari, predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali”; pertanto, l'operatore del diritto, nonostante sia solito leggere l'
art. 1342 del c.c. in stretta connessione con il precedente
art. 1341 del c.c., ai fini dell'interpretazione dell'art. 113, deve limitarsi a considerare soltanto le forme di conclusione del contratto in relazione al quale è sorta la lite.
Va anche detto che, seppure la disposizione di cui al secondo comma seconda parte dell'art. 113 faccia esclusivo riferimento ai contratti, la stessa sembra doversi estendere anche alle dichiarazioni provenienti da una sola parte.