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Articolo 535 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 07/03/2024]

Possessore di beni ereditari

Dispositivo dell'art. 535 Codice Civile

Le disposizioni in materia di possesso si applicano anche al possessore di beni ereditari, per quanto riguarda la restituzione dei frutti, le spese, i miglioramenti e le addizioni(1) [1148 ss. c.c.].

Il possessore in buona fede, che ha alienato pure in buona fede una cosa dell'eredità [1153, 1260 c.c.], è solo obbligato a restituire all'erede il prezzo o il corrispettivo ricevuto. Se il prezzo o il corrispettivo è ancora dovuto, l'erede subentra nel diritto di conseguirlo [2038](2) [1203 n.5, 2038 c.c.].

È possessore in buona fede colui che ha acquistato il possesso dei beni ereditari, ritenendo per errore di essere erede. La buona fede non giova se l'errore dipende da colpa grave [1147 c.c.].

Note

(1) Benchè non espressamente richiamata, si applica anche la norma di cui all'art. 1152 del c.c. che consente al possessore di buona fede di ritenere il bene fino a che non gli siano state corrisposte le indennità dovute.
(2) L'erede apparente in buona fede (sia rispetto alla sua qualità di erede che rispetto all'alienazione) è tenuto a restituire al vero erede il prezzo o il corrispettivo ricevuto. Se non ancora corrisposto, l'erede vero subentra nel diritto di conseguirlo.
Ove, invece, l'erede sia in male fede (quando, cioè, sappia di non essere l'erede) o l'alienazione sia avvenuta a titolo gratuito, l'erede vero può pretendere da quello apparente il valore del bene.
I medesimi criteri si applicano anche qualora l'erede apparente abbia acquisto beni con il denaro dell'eredità: se l'acquisto è avvenuto in buona fede all'erede vero spetta il bene acquistato, se avvenuto in male fede l'erede apparente deve restituire il denaro.

Ratio Legis

La norma tutela maggiormente l'erede apparente che sia in buona fede rispetto a quello in mala fede. Il primo, in caso di alienazione dei beni ereditari, è tenuto a restituire il prezzo ricevuto quale corrispettivo, il secondo deve invece deve corrispondere al vero erede il valore del bene.

Spiegazione dell'art. 535 Codice Civile

Riconosciuta all’attore la qualità d'erede, a lui dovranno essere restituite tutte le cose ereditarie: i beni con i loro incrementi, i frutti, il prezzo di quelli alienati. Ma questo principio subisce due eccezioni: l'una per l'usucapione che il possessore delle cose ereditarie (singolarmente e non nel loro complesso considerate) o di alcuni beni abbia compiuto in suo favore; l'altra - esplicitamente regolata dal codice - in dipendenza della buona o mala fede del possessore.

Al possessore che sia chiamato a restituire le cose ereditarie, spetta, tanto se versa in buona fede quanto se è in mala fede, il diritto ad essere rimborsato delle spese necessarie integralmente e di quelle utili nella somma minore tra lo speso ed il migliorato (art. 1150 c.c.); solo nel primo caso, a garanzia di tale diritto può ritenere le cose, purché i miglioramenti siano stati fatti, sussistano realmente, vengano domandati nel giudizio di petizione ed una prova della loro sussistenza sia stata comunque fornita; delle spese voluttuarie non spetta alcun rimborso ma può venir esercitato lo ius tollendi sempre che non ne sia danneggiata la cosa.

Chi va ritenuto possessore di buona fede? L'attuale codice, al terzo comma dell’articolo in esame, ha precisato che possessore di buona fede è colui che ha acquistato il possesso di beni ereditari ritenendosi erede per errore, escludendo però i casi di colpa grave.

L'articolo in esame pone l'ipotesi che il possessore abbia, in buona fede, alienato una cosa dell'eredità: in tal caso egli è tenuto a restituirne all’erede il prezzo o il corrispettivo ma, se questi sono ancora dovuti, l'erede subentra nel diritto di conseguirli. La legge parla di alienazione e di prezzo, ma è ovvio che il principio dell’art. 535 non deve essere limitato solo all’ipotesi della vendita, poiché va esteso ad ogni alienazione onerosa; inoltre, per invocare, ai fini della responsabilità, lo stesso art. 535, è necessario che l’alienazione sia stata fatta in buona fede: è necessario, cioè, che la buona fede sussista ancora nel momento in cui si compie l'alienazione e non basta la buona fede iniziale.

Ma se il possessore non conserva più il prezzo delle cose alienate, se, cioè, lo ha consumato, oppure se, invece che a titolo oneroso, ha alienato beni a titolo gratuito, quali saranno i limiti della sua responsabilità? Il codice non ipotizza siffatti casi, i quali, perciò, devono essere considerati e decisi alla stregua dei principi generali in materia di possesso di buona fede.
Non così il diritto romano, che aveva disciplinato l’istituto della petitio ed anche i suoi effetti: per l’ipotesi in esame il senato-consulto Giovenziano aveva ritenuto requisito per la restituzione da parte del possessore di buona fede l’estremo dell’arricchimento; costui, cioè, era obbligato a restituire all’erede vero le cose alienate a titolo gratuito o il prezzo di quelle alienate a titolo oneroso, consumato, solo se ed in quantum locupletior factus esset. Per il nostro diritto si deve ritenere che, verificandosi le ipotesi in esame, il possessore di buona fede nulla sia tenuto a restituire all'erede vero, poiché re sua abuli putavit: siffatto principiò è confermato dall’art. 2037 c.c. ove si stabilisce - in tema di restituzione dell’indebito, ma la regola può essere applicata con efficacia più generale - che chi ha indebitamente ricevuto una cosa deve restituirla in natura se sussiste, mentre qualora non esista più o sia deteriorata, se egli l'ha ricevuta in mala fede (sapendo, cioè, che non gli era dovuta) deve restituirne il valore, quantunque sia deteriorata o distrutta per caso fortuito; se, invece, l'ha ricevuta in buona fede, non è tenuto a restituirla che sino alla concorrenza di ciò che è stato rivolto a suo profitto.
Discende dagli stessi principi generali in materia di possesso di buona fede che il possessore non è tenuto a rispondere, verso l’erede vero, del perimento delle cose ereditarie.

Gli effetti sin qui considerati nei riguardi del possessore di buona fede non si verificano tutti per il possessore di mala fede. Questi deve restituire i frutti senza distinguere tra i percepti, gli extantes ed i percipiendi (cioè quelli che non ha raccolto ma che avrebbe potuto raccogliere se avesse usato la dovuta diligenza); risponde dei deterioramenti verificatisi per caso fortuito a meno che non provi che la cosa sarebbe perita egualmente presso l’erede; ed infine, se ha alienato beni dell’eredità, è tenuto non solo a restituire il prezzo ricevuto, ma a rimborsare l’erede del valore della cosa, che può coincidere con quello, ma può essere anche superiore.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

260 A differenza del precedente testo, nel quale gli effetti del possesso dei beni ereditarii erano fissati parte con una disposizione circa la restituzione dei frutti, che ripeteva analoga norma dettata in materia di possesso, e parte con un rinvio alle disposizioni sul possesso (artt. 80 e 81), mi sono limitato nel nuovo testo ad un rinvio generale alle disposizioni sul possesso, mantenendo qui soltanto la norma relativa alle ipotesi di alienazione in buona fede di cose dell'eredità e quella che definisce il possessore in buona fede di beni ereditari. Ho poi integrato la definizione in modo da coordinare la norma con l'art. 1147 del c.c., aggiungendo una disposizione che esclude la buona fede se l'errore circa la qualità di erede dipende da colpa grave. Ho così sistemato la materia in un solo articolo (art. 535 del c.c.).

Massime relative all'art. 535 Codice Civile

Cass. civ. n. 22005/2016

L'accoglimento dell'azione di petizione ereditaria comporta non già la semplice restituzione alla massa dei beni oggetto della domanda, ma la reintegrazione delle quote lese, sicché, ove sia ordinata la restituzione di somme di denaro, sul relativo importo deve essere riconosciuta la rivalutazione, trattandosi di credito di valore. (Nella specie, il principio è stato affermato con riguardo al "quantum" in denaro, corrispondente alle somme portate da buoni fruttiferi incassati dal soggetto passivo della domanda di petizione ereditaria, del quale era stata ordinata la restituzione).

Cass. civ. n. 640/2014

L'art. 535, primo comma, cod. civ., che rinvia alle disposizioni sul possesso in ordine a restituzione dei frutti, spese, miglioramenti e addizioni, si riferisce al possessore di beni ereditari convenuto in petizione di eredità ex art. 533 cod. civ., mentre è estraneo allo scioglimento della comunione ereditaria; esso non si applica, quindi, al condividente che, avendo goduto il bene comune in via esclusiva senza titolo giustificativo, è tenuto alla corresponsione dei frutti civili agli altri condividenti, quale ristoro della privazione del godimento "pro quota".

Cass. civ. n. 5091/2010

Il principio della presunzione di buona fede di cui all'art. 1147 c.c. ha portata generale e non limitata all'istituto del possesso in relazione al quale è enunciato; pertanto, poiché l'art. 535 c.c. stabilisce che le disposizioni in materia di possesso si applichino anche al possessore dei beni ereditari, chi agisce, con l'azione di petizione, per la rivendicazione dei beni ereditari - eventualmente previo annullamento del testamento in base al quale è stato chiamato all'eredità il possessore di buona fede - non può pretendere da quest'ultimo il risarcimento dei danni, ma soltanto i frutti indebitamente percepiti, nei limiti fissati dall'art. 1148 c.c.

Cass. civ. n. 837/1986

Al possessore di beni ereditari, al quale si applicano le disposizioni in materia di possesso concernenti la restituzione dei frutti, le spese, i miglioramenti e le addizioni, non può essere riconosciuto anche il diritto di ritenzione nei confronti dell'attore in petizione di eredità, perché tale diritto, che attua un'eccezionale forma di autotutela, è insuscettibile di applicazione analogica a casi non contemplati dalla legge.

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Consulenze legali
relative all'articolo 535 Codice Civile

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ARTUR P. chiede
giovedì 24/02/2022 - Trentino-Alto Adige
“Gentilissimi,
purtroppo ho tante ragioni per non fidarmi di mio fratello/coerede.
Sono deceduti entrambi i genitori, il padre è deceduto circa 2 anni fa, senza lasciare testamento e la madre circa 1 anno fa, lasciando un testamento, nel frattempo pubblicato, in cui dispone che ad entrambi i figli spetta il 50 % dei suoi beni (quindi, se non dovesse sopraggiungere un ulteriore testamento, ad entrambi gli eredi spetterebbe una quota pari al 50 %);
nonostante la situazione chiarissima, ha boicottato sin dall’inizio le formalità legate all'eredità, nonché la divisione dei beni facenti parte dell'asse ereditario e quindi sono stato costretto ad iscrivere una causa di divisione ereditaria che va per le lunghe...

gradirei sapere se la seguente clausola standard:
=====================================
"Le parti transigono con la sottoscrizione del presente atto ogni controversia (anche futura) in relazione alle successioni del padre, Tizio Caio nonchè della madre Maria Rossi, dichiarano di non aver più nulla da pretendere l’uno dall’altro a tale titolo"

se inserita in un contratto con cui i coeredi prendono accordi tra loro sulla divisione dei beni provenienti dall'eredità (un immobile) mi salverebbe da un eventuale testamento, in favore di mio fratello, occultato (e in assenza di prove che dimostrano l'occultamento) dal mio coerede ed eventualmente pubblicato dopo la divisione dei beni, nonché dopo l'eventuale vendita dell'immobile (purtroppo la condotta assai strana messa in atto da parte di mio fratello, che è a conoscenza della Legge Italiana, fa pensare ad una ipotesi del genere) ?
Riproposta la domanda in altri termini: se dovesse sopraggiungere un ulteriore testamento, valido, in data successiva, alla stipula dell'accordo con "la sopracitata clausola" prevarrebbe l'accordo, oppure potrei essere chiamato a restituire dalla metà del ricavato dalla vendita la differenza, a favore di mio fratello, risultante dall'eventuale ulteriore testamento (occultato, ma senza prova che sia occultato..) sopraggiunto ?”
Consulenza legale i 02/03/2022
La questione che qui si sottopone ad esame si presenta per molti versi analoga ad altra questione affrontata con il quesito 30344, mentre se ne differenzia solo per l’aggiunta di un elemento alla fattispecie descritta, ossia l’eventuale ed ipotetica scoperta successiva di un testamento.
Per quanto concerne la validità ed i limiti di operatività di una clausola quale quella che viene trascritta nel testo del quesito, non può farsi a meno di richiamare tutto quanto è stato detto nella sopra citata consulenza 30344, con riferimento alla differenza tra divisione transattiva, transazionedivisoria ed alla terza fattispecie negoziale individuata dalla giurisprudenza di legittimità, definita come negozio di preparazione divisoria con funzione transattiva (è in quest’ultima fattispecie che si è ritenuto debba farsi rientrare il contratto che le parti intendono concludere).

Prima di affrontare il nuovo elemento in relazione al quale qui si chiedono chiarimenti, si ritiene opportuno fare la seguente precisazione, per ciò che concerne il contenuto della clausola trascritta: è molto importante che dal testo della stessa si faccia anche risultare la volontà dei coeredi di rinunciare espressamente ad ogni azione di riduzione possa loro spettare sulle successioni per le quali si transige, rinuncia che trova il proprio fondamento normativo nel testo dell’art. 557 del c.c..

Per ciò che concerne il tema delle conseguenze che potrebbe avere su tale contratto la scoperta successiva di un testamento del de cuius, va detto che, purtroppo, non potrebbe non attribuirsi prevalenza alla volontà del testatore, stante il principio della predominanza della successione testamentaria, a cui si ispira tutta la disciplina successoria del codice civile italiano.
Di una tale questione si è occupata abbastanza di recente la Corte di Cassazione, Sez. II Civ., con sentenza n. 24184 del 27 settembre 2019.
In tale sentenza la S.C. affronta il caso del ritrovamento di un testamento nel corso di un giudizio di divisione ereditaria secondo le quote indicate dalla legge, affermando che va in ogni caso attribuita prevalenza alla volontà testamentaria sulla successione legittima.
In particolare, in tale fattispecie, subito dopo la conclusione del giudizio di primo grado, una delle figlie coeredi ritrovava un testamento olografo, redatto personalmente dalla madre, che ripartiva i beni ereditari in proporzioni diverse rispetto alle quote individuate dalla legge, chiedendo dunque che nel giudizio divisorio si tenesse conto di tali quote.

Giunta al vaglio della Suprema Corte, la questione veniva risolta mediante il richiamo alla prevalenza della volontà del de cuius rispetto alla delazione legale, nel rispetto dell’irripetibilità e della rilevanza delle istruzioni date dal defunto; pertanto, una volta accertata l’esistenza del testamento, il procedimento di divisione instaurato sulla scorta della successione legittima non avrebbe più potuto essere portato a termine, stante la predominanza della successione testamentaria.
Ora, il caso di specie differisce da quello preso in esame dalla S.C. per il fatto che la divisione verrebbe a trovare il proprio fondamento nella stessa volontà dei coeredi anziché nella legge, il che renderebbe astrattamente possibile il perdurare della validità ed efficacia del contratto di divisione, anche in caso di successiva scoperta del testamento.
Tuttavia, se, come si teme, il fratello sta nascondendo una diversa intenzione, avrebbe tutto il diritto di recarsi da un notaio, chiedere la pubblicazione del testamento ritrovato e pretendere, anche con ricorso all’autorità giudiziaria, l’annullamento del contratto di divisione già concluso, al fine di rispettare la diversa volontà del testatore.
A quel punto, si presume che il giudice adito non possa disattendere la volontà espressa dal testatore, e ciò non solo in forza dell’orientamento espresso dalla S.C. nella sentenza sopra citata, ma anche in virtù del principio generale della predominanza della volontà del testatore, che, come detto prima, caratterizza il regime delle successioni.

Qualora, nel frattempo, i condividenti abbiano proceduto alla vendita dell’immobile a cui si fa riferimento nel quesito, ripartendosi il ricavato della vendita secondo le quote convenute nel contratto di divisione, le conseguenze di una probabile decisione, che attribuisce prevalenza alla volontà testamentaria, si possono rinvenire nel testo dell’art. 535 c.c., norma che, dettata in tema di petizione ereditaria, può applicarsi al caso di specie.
Più precisamente, secondo quanto disposto dal secondo comma di tale norma, il possessore di buona fede (si considererebbe tale colui che rischia di perdere il bene o la quota del bene che gli è stata assegnata), che abbia alienato pure in buona fede una cosa dell’eredità (è indubbio che l’alienazione verrebbe fatta in buona fede), è solo obbligato a restituire all’erede (è tale colui al quale verrebbe assegnato il bene in forza del testamento) il prezzo o il corrispettivo ricevuto.

Pertanto, rispondendo alla domanda che viene posta, può affermarsi che, se dovesse sopraggiungere un ulteriore testamento valido, in data successiva alla stipula dell'accordo, ed il fratello coerede dovesse voler dare esecuzione alla volontà testamentaria, il giudice a cui si rivolgerebbe potrebbe dargli ragione e l’erede che perde la quota di comproprietà su quel bene sarebbe tenuto a restituire la metà del ricavato dalla vendita o, comunque, la somma spettantegli in ragione della quota di cui era titolare.

Alessandro V. chiede
mercoledì 19/05/2021 - Lazio
“Salve,
nel caso in cui un nominato in un testamento olografo pubblicato facesse la dichiarazione di successione, cosa avverrebbe se un altro nominato, ovvero altro avente concreto interesse circa l'eredità (quest'ultimo perché ritiene sia apocrifo), impugnassero il testamento successivamente entro il termine quinquennale? Od al contrario avente concreto interesse circa l'eredità impugnasse il testamento olografo perché lo ritiene apocrifo, cosa accadrebbe se nel mentre che il giudice dichiari l'invalidità, un nominato nel testamento facesse la successione? Cosa accadrebbe in entrambi i casi prospettati alla successione presentata? Inoltre quali passaggi dovrebbero considerare gli attori promoventi l'impugnazione in ambo i casi?
Nel caso di impugnazione di un testamento olografo pubblicato, come funziona l'adempimento concernente la successione entro 1 anno dalla morte del testatore? Al contrario cosa avviene in caso di mancata successione entro l'anno?
Sempre in relazione all'impugnazione di un testamento olografo pubblicato, come avviene la gestione dei beni mobili ed immobili ricadenti nell'asse ereditario; voglio dire manutenzioni, imposte da pagare, adempimenti fiscali ecc.? Grazie.
Cordiali saluti.”
Consulenza legale i 26/05/2021
Tutte le domande che vengono qui poste hanno trovato espressa ed univoca risposta in una sentenza della Corte di Cassazione del 2007, e precisamente Cass. Civ. Sez. V sent. N. 23471 del 12.11.2007.
In detta pronuncia la S.C. fa applicazione di quanto disposto dall’art. 43 del D.lgs 346/1990, c.d. Testo unico sulle successioni e donazioni, affermando che l'impugnazione del testamento in sede civile è "priva d'influenza sulla debenza dell'imposta di successione e sulla relativa procedura di liquidazione" e, precisando ulteriormente che per "successione testamentaria deve intendersi quella così qualificata nella denuncia di successione, alla quale deve essere necessariamente allegata … la copia autentica degli atti di ultima volontà dai quali è regolata la successione".

Da ciò se ne deve dedurre che in materia tributaria le "successioni testamentarie sono quelle che tali risultano all'ufficio per effetto della denunzia di successione presentata anche da uno solo dei coeredi, accompagnata da copia autentica del testamento"; anche quando la validità del testamento "sia stata contestata da altri coeredi nella competente sede giudiziaria e fino all'esito definitivo della lite".
Soltanto in tale momento il contribuente che, in sede di presentazione della denuncia di successione, abbia provveduto al pagamento delle imposte dovute, ha diritto di chiedere un rimborso d’imposta allorchè si sia verificata una variazione nella soggettività passiva (per essere stato riconosciuto come erede colui che ha impugnato il testamento) o nella diversa quantificazione dell’imposta, a seguito di una mutata devoluzione ereditaria definitivamente stabilita nelle sede giudiziaria competente.

Quanto sopra detto, dunque, comporta che colui il quale risulta nominato nel testamento pubblicato è il solo soggetto passivo dell’imposta di successione, al cui pagamento deve provvedere entro il termine di un anno dall’apertura della successione.
La mancata presentazione della denuncia di successione entro il suddetto termine (così stabilito dal primo comma dell’art. 31 del T.U. successioni e donazioni, legittima l’Agenzia delle entrare a procedere all’accertamento dell’attivo ereditario e alla liquidazione dell’imposta sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza.
In tale ipotesi, secondo quanto disposto dall’art. 35 del T.U. successioni e donazioni, verrà notificato a colui che risulta nominato erede in forza dell’avvenuta pubblicazione del testamento un avviso di liquidazione per il pagamento dell’imposta di successione dovuta e non versata, oltre alle relative sanzioni ed interessi per mancata o ritardato versamento dell’imposta.

Ciò vale sia per l’ipotesi di impugnazione dell’intero testamento che per quella di impugnazione delle singole disposizioni testamentarie, dovendosi riconoscere anche nella prima ipotesi al contribuente il diritto al rimborso dell'imposta pagata o pagata in più, in caso di accoglimento da parte del Giudice civile dell’istanza volta a far dichiarare la nullità del testamento impugnato e sulla cui base era stato versato quanto dovuto.
Peraltro, si ritiene che neppure possa invocarsi la sospensione dell' accertamento in caso d'impugnazione del testamento, in quanto tale istituto urterebbe contro la
previsione di termini di decadenza per l'azione del fisco, da esercitare nel triennio dalla denunzia di successione ex art. 27 comma 2 del D.Lgs. n. 346/1990 ovvero, ai sensi del quarto comma della medesima norma, entro il termine di cinque anni per il caso di omessa dichiarazione.

Dispone la lettera e) dell’art. 42 del T.U. successioni e donazioni che deve essere rimborsata, unitamente agli interessi, alle soprattasse ed alle pene pecuniarie eventualmente pagati, l’imposta risultante pagata o pagata in più a seguito di sopravvenuto mutamento della devoluzione ereditaria.
Tale rimborso deve essere richiesto, a pena di decadenza, entro il termine di tre anni dal giorno del pagamento o, se posteriore, da quello in cui è sorto il diritto alla restituzione (ossia, nel caso di specie, dalla data di pubblicazione della sentenza).

Per quanto concerne, invece, la problematica relativa a spese di manutenzione, gestione ed oneri, anche fiscali, relativi ai beni, mobili ed immobili, caduti in successione, trovano applicazione le norme che il codice civile detta in tema di petizione di eredità, ed in particolare quanto disposto dall’art. 535 del c.c., che a sua volta richiama le disposizioni in materia di possesso in generale, con espresso riferimento alla restituzione dei frutti, alle spese, ai miglioramenti ed alle addizioni.
Si legge, intanto, in detta norma che deve qualificarsi come possessore di buona fede colui il quale abbia acquistato il possesso dei beni ereditari ritenendo per errore di essere erede, posizione senza alcun dubbio assimilabile a quella di chi pone il quesito, salvo che l’errore dipenda da sua colpa grave (ipotesi configurabile nel caso in cui abbia personalmente concorso alla formazione del testamento falso).

In particolare, delle norme in materia di possesso, richiamate dall’art. 535 c.c., troveranno applicazione gli artt. dal 1148 al 1152 c.c., inseriti nella Sezione dedicata proprio ai diritti e obblighi facenti capo al possessore nella restituzione della cosa.
Tali norme riconoscono innanzitutto il diritto del possessore in buona fede (ossia dell’erede apparente) di far propri i frutti naturali e civili maturati fino al giorno della domanda giudiziale, con correlativo obbligo di rispondere nei confronti del rivendicante per quelli percepiti dopo tale momento o per quelli che avrebbe dovuto percepire usando la diligenza del buon padre di famiglia.

L’art. 1150 del c.c., invece, riconosce al possessore il diritto al rimborso delle spese fatte per riparazioni straordinarie, miglioramenti recati alla cosa nonché il rimborso delle spese fatte per riparazioni ordinarie nel caso in cui venga fatto gravare su di lui l’obbligo di restituzione dei frutti.

Pertanto, è facendo applicazione di tali norme che verranno regolati i rapporti tra l’erede indicato nel testamento pubblicato e colui che eventualmente assumerà la qualità di erede a seguito di mutata devoluzione ereditaria, come stabilita in sede giudiziaria.
Si ritiene, infine, opportuno precisare che, secondo quanto affermato da Cass. n. 14917/2012, gli eredi che erano stati immessi nel possesso dei beni ereditari in buona fede permangono nella condizione di buona fede sino al momento della notificazione della domanda di restituzione dei beni ereditari.