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Articolo 339 Codice di procedura civile

(R.D. 28 ottobre 1940, n. 1443)

[Aggiornato al 02/03/2024]

Appellabilità delle sentenze

Dispositivo dell'art. 339 Codice di procedura civile

Possono essere impugnate con appello le sentenze pronunciate in primo grado, purché l'appello non sia escluso dalla legge o dall'accordo delle parti a norma dell'articolo 360, secondo comma.

È inappellabile la sentenza che il giudice hapronunciato secondo equità a norma dell'articolo 114 (1).

Le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell'articolo 113, secondo comma, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia (2).

Note

(1) Le sentenze inappellabili per legge o per accordo tra le parti.
Esempi del primo tipo sono le sentenze che hanno deciso una controversia individuale di lavoro, o in materia di previdenza e assistenza obbligatoria, non superiore a euro 25,82; le sentenze che decidono l'opposizione agli atti esecutivi ex art. 618 del c.p.c.; le sentenze pronunciate secondo equità ai sensi dell'art. 114 del c.p.c.; le sentenze che si pronunciano sulla nullità del lodo arbitrale.
Sono inappellabili per accordo delle parti, le sentenze del tribunale che le parti decidano di impugnare direttamente in cassazione (c.d. ricorso per saltum): in tal caso, il ricorso può proporsi solo per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro (art. 360 del c.p.c.).
(2) Comma così modificato dal d.lgs. 40/2006, che ha reso appellabile davanti al tribunale (per motivi specifici) la sentenza del giudice di pace pronunciata secondo equità ex art. 113, secondo comma, c.p.c. Si tratta di una impugnazione a critica vincolata, in quanto può essere proposta solo:
- per violazione delle norme sul procedimento, ad esempio motivi attinenti alla giurisdizione o alla competenza;
- per violazione di norme costituzionali o comunitarie e dei principi regolatori della materia, intendendosi con questi ultimi le regole fondamentali del rapporto dedotto in giudizio ricavato dal complesso delle norme con le quali il legislatore lo ha disciplinato.

Brocardi

Appellatio
Appellatione estinguitur iudicatum
Editio appellationis
Tantum devolutum quantum appellatum

Spiegazione dell'art. 339 Codice di procedura civile

Tradizionalmente l'appello viene definito come un mezzo ordinario di impugnazione delle sentenze, la cui proposizione nei termini di legge impedisce la formazione del giudicato.
In particolare, esso viene qualificato:
  1. a critica libera, ovvero a motivi illimitati, poiché per suo tramite si possono denunciare al giudice superiore tutti i vizi della sentenza impugnata, siano essi in iudicando o in procedendo;
  2. con effetto devolutivo, nei limiti della domanda d'appello: introduce un giudizio nel quale il giudice conosce lo stesso rapporto sostanziale controverso in primo grado;
  3. a carattere sostitutivo: sia in caso di accoglimento che in caso di rigetto, è diretto ad ottenere una decisione nuova che si sostituisce alla sentenza impugnata.

Il giudizio di appello, dunque, non costituisce un mero esame della sentenza impugnata, ma introduce un giudizio, c.d. di secondo grado, nel quale viene rinnovato, con esclusione di quei capi o punti della sentenza che non siano investiti dall'appello, l'esame della causa svolto in primo grado.

A seguito della riforma del 1990, l'appello, per effetto della limitazione dei nova (si veda l’art. 345 del c.p.c.), avrebbe perso le caratteristiche proprie del mezzo di gravame per avvicinarsi, nella struttura, ad un atto di impugnazione.
Inoltre, l'effetto devolutivo è stato ampiamente ridimensionato, in quanto non opera più in modo automatico, ma è delimitato dall'iniziativa di parte.

Con l'appello si attua il principio del doppio grado di giurisdizione, ossia quel principio secondo cui ogni controversia nel suo complesso deve poter passare, salvo casi eccezionali, attraverso due gradi di esame da parte del giudice, sia in fatto che in diritto.

Utilizzando un riferimento di carattere generale, la norma individua i provvedimenti soggetti ad appello nelle sentenze pronunciate in primo grado dal tribunale o dal giudice di pace, definitive e non definitive, di rito o di merito, purché l'appello non sia escluso dalla legge o dall'accordo delle parti.

Il riferimento alla sentenza si deve intendere rivolto al provvedimento del giudice che, ai sensi degli artt. 131, 132 c.p.c., ha la forma di sentenza.
Si ritiene, tuttavia, che debbano intendersi soggetti ad appello anche i provvedimenti per i quali la legge prescrive la forma della sentenza (perché hanno contenuto decisorio), ma che vengono erroneamente emanati nella forma dell'ordinanza.

La tesi prevalente in giurisprudenza è quella secondo cui non deve aversi riguardo, per il regime dell'appellabilità, alla forma del provvedimento, ma alla sua sostanza; pertanto, sono appellabili i provvedimenti di primo grado aventi contenuto decisorio (cioè contenuto sostanziale di sentenza), tanto se siano stati erroneamente emessi nella forma di ordinanza quanto se siano stati emessi sotto forma di ordinanza perché così prescritto dalla legge.
In applicazione di tale principio la giurisprudenza ritiene che anche le ordinanze e i decreti possano essere appellabili, qualora abbiano contenuto decisorio e dunque natura sostanziale di sentenza.

Per quanto concerne l'appellabilità delle sentenze dei giudici c.d. minori (espressione con cui si intendeva prima il conciliatore, poi il giudice di pace), il D.Lgs. 2.2.2006, n. 40 ha modificato l'ultimo comma della norma in esame, che prevedeva l'inappellabilità delle sentenze pronunciate dal giudice di pace secondo equità, affermando che esse sono di contro ora appellabili, anche se per motivi specifici, e precisamente:
a) violazione delle norme sul procedimento;
b) violazione di norme costituzionali;
c) violazione di norme comunitarie;
d) violazione dei principi regolatori della materia.

Sempre a seguito del D.Lgs. 2.2.2006, n. 40, la norma individua le seguenti categorie di sentenze non appellabili:
1) quelle per le quali l'appello è escluso per l'accordo delle parti ex art. 360 del c.p.c.;
2) quelle pronunciate dal tribunale secondo equità;
3) quelle per le quali l'appello è escluso dalla legge.

L'appello è escluso quando le parti concordemente decidono di proporre direttamente ricorso in cassazione c.d. per saltum, rinunciando a tutti i possibili motivi di impugnazione di cui all'art. 360, ad eccezione della violazione o falsa applicazione delle norme di diritto.

Quando la sentenza pronunciata secondo equità è inappellabile l'unico mezzo di impugnazione esperibile è il ricorso in cassazione; si tenga presente che l'equità cui fa riferimento la norma per escludere l'appellabilità delle sentenze deve essere intesa come giustizia del caso singolo, mentre restano appellabili, secondo la regola generale, le sentenze che il giudice pronuncia secondo equità in diretta applicazione di altre norme come ad es. gli artt. 1226, 1371, 2056 c.c.

Il riferimento agli altri casi di inappellabilità previsti dalla legge deve essere inteso come una sorta di riserva di legge per i casi in cui la parte può essere privata del diritto all'appello, restando ovviamente pur sempre esperibile, contro ogni provvedimento decisorio, il ricorso straordinario in cassazione ex art. 111 Cost..

Casi di inappellabilità previsti dalla legge possono essere:
  1. le sentenze emanate a seguito di controversie individuali di lavoro;
  2. le sentenze emanate a seguito di controversie in materia di previdenza e assistenza ex art. 442 del c.p.c.;
  3. le sentenze emanate a seguito di controversie in materia di locazione, comodato e affitto di valore inferiore a cinquantamila euro;
  4. le sentenze che decidono l'opposizione agli atti esecutivi.

Massime relative all'art. 339 Codice di procedura civile

Cass. civ. n. 34023/2019

La pronuncia del giudice di pace con cui - ritenendo insussistente la connessione tra una domanda di sua competenza e la riconvenzionale, per la quale sia competente il Tribunale - sia stata decisa solo la domanda principale, in via di equità, e disposto lo stralcio della causa riconvenzionale in favore del giudice superiore, è impugnabile per cassazione, come questione di diritto, pure per la denegata connessione.

Cass. civ. n. 15398/2019

Il frazionamento del credito si pone in contrasto tanto con il principio di correttezza e buona fede, quanto con il principio costituzionale del giusto processo sicché, ove si contesti l'avvenuta parcellizzazione della domanda, la sentenza pronunziata in prime cure del giudice di pace secondo equità, ex art. 113 c.p.c., è appellabile ai sensi dell'art. 339, comma 3, c.p.c., disposizione che per l'appunto include, tra i casi in cui è esperibile detto mezzo di impugnazione, anche la violazione delle norme costituzionali.

Cass. civ. n. 3302/2017

Il decreto emesso ai sensi dell'art. 317 bis c.c. ha natura sostanziale di sentenza, presentando i requisiti della decisorietà, risolvendo una controversia tra contrapposte posizioni di diritto soggettivo, e della definitività, con efficacia assimilabile, "rebus sic stantibus", a quella del giudicato; pertanto, in relazione a tale decreto, debbono applicarsi i termini di impugnazione dettati dagli artt. 325 e 327 c.p.c., trattandosi di appello da proporsi mediante ricorso, e non di reclamo ex art. 739 c.p.c..

Cass. civ. n. 12736/2016

La sentenza del giudice di pace, resa secondo equità su controversia non eccedente il valore di millecento euro e avente ad oggetto non l'accertamento di un regolamento contrattuale predisposto ex art. 1342 c.c. bensì l'esistenza stessa del contratto, è soggetta ai limiti di appellabilità previsti dall'art. 339, comma 3, c.p.c.

Cass. civ. n. 2948/2015

L'identificazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va operata, a tutela dell'affidamento della parte e quindi in ossequio al principio dell'apparenza, con riferimento esclusivo a quanto previsto dalla legge per le decisioni emesse secondo il rito in concreto adottato in relazione alla qualificazione dell'azione (giusta od errata che sia) effettuata dal giudice. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione avverso un decreto emesso, ai sensi dell'art. 21 legge fall., nel testo anteriore alle modifiche apportate con il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, dal giudice delegato anziché dal tribunale, dovendo quel decreto essere reclamato innanzi al tribunale ai sensi dell'art. 26 legge fall.).

Cass. civ. n. 22325/2014

L'appello proposto avverso la sentenza che si limita a disporre il mutamento del rito (nella specie, da ordinario a quello del lavoro per connessione) è inammissibile per difetto di interesse ad agire a meno che la parte non deduca e dimostri lo specifico pregiudizio processuale subìto in conseguenza del rito erroneamente applicato.

Cass. civ. n. 19865/2014

Il giudice investito dell'appello contro un'ordinanza (nella specie, per convalida di sfratto) qualificata dall'appellante come sentenza (nella specie, per difetto di un presupposto legale) può dichiarare ammissibile il gravame per una ragione diversa, senza incorrere in ultrapetizione, atteso che le condizioni di ammissibilità dell'impugnazione devono essere apprezzate dal giudice d'ufficio.

Cass. civ. n. 11525/2014

La legittimazione all'appello spetta esclusivamente a chi abbia assunto la qualità di parte nel giudizio di primo grado, in quanto destinatario della domanda proposta dall'attore. Ne consegue che, laddove il giudice pronunci sentenza nei confronti di soggetto rimasto estraneo al processo (nella specie, l'Azienda unità sanitaria locale, e non già la Gestione stralcio della soppressa USL evocata in lite), questi, per rilevare il proprio difetto di legittimazione passiva, non è onerato della proposizione di un tempestivo appello, essendo tale strumento di impugnazione necessario ai fini di evitare il passaggio in giudicato della decisione nei confronti delle sole parti del giudizio stesso.

Cass. civ. n. 3005/2014

In tema di impugnazione delle sentenze del giudice di pace pronunziate secondo equità, l'appello per violazione dei principi regolatori della materia è inammissibile, ai sensi dell'art. 342 cod. proc. civ., qualora non indichi il principio violato e come la regola equitativa individuata dal giudice di pace si ponga con esso in contrasto.

Cass. civ. n. 8575/2013

La sentenza di secondo grado (nella specie, di tribunale) che neghi la competenza del primo giudice e poi decida nel merito si compone di due distinte pronunce, di cui quella sulla competenza, perché emanata in appello, è impugnabile con ricorso per cassazione, mentre quella di merito, in quanto pronunciata in primo grado, è impugnabile invece con l'appello.

Cass. civ. n. 6410/2013

Avverso le sentenze pronunciate dal giudice di pace nell'ambito della sua giurisdizione equitativa necessaria, l'appello a motivi limitati, previsto dal terzo comma dell'art. 339 c.p.c., è l'unico rimedio impugnatorio ordinario ammesso, anche in relazione a motivi attinenti alla giurisdizione, alla violazione di norme sulla competenza ed al difetto di motivazione. Ne consegue che è manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale dell'art. 339, terzo comma, c.p.c., nel testo novellato dal d.l.vo 2 febbraio 2006, n. 40 del 2006, per violazione dell'art. 111, settimo comma, Cost., prospettato sotto il profilo che tra i motivi di appello avverso le sentenze secondo equità del giudice di pace non rientrerebbero quelli anzidetti, giacché esso si fonda su un erroneo presupposto interpretativo, dovendosi ritenere tali motivi ricompresi nella formula generale della violazione di norme sul procedimento, con conseguente sottrazione della sentenza al ricorso straordinario, in quanto sentenza altrimenti impugnabile.

Cass. civ. n. 793/2013

È appellabile, e non già ricorribile per cassazione, la sentenza pronunciata, secondo diritto, dal giudice di pace in una controversia avente ad oggetto l'attivazione di servizi connessi ad un contratto di utenza telefonica, pacificamente concluso secondo le modalità di cui all'art. 1342 c.c., ed instaurata successivamente all'entrata in vigore del d.l. 8 febbraio 2003 n. 18, convertito con modificazioni dall'art. 1 della legge 7 aprile 2003, n. 63.

Cass. civ. n. 9432/2012

Per stabilire se una sentenza del giudice di pace sia stata pronunciata secondo equità, e sia quindi appellabile solo nei limiti di cui all'art. 339, comma terzo, c.p.c., occorre avere riguardo non già al contenuto della decisione, ma al valore della causa, da determinarsi secondo i princìpi di cui agli artt. 10 e ss. c.p.c., e senza tenere conto del valore indicato dall'attore ai fini del pagamento del contributo unificato. Pertanto, ove l'attore abbia formulato dinanzi al giudice di pace una domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro inferiore a millecento euro (e cioè al limite dei giudizi di equità c.d. "necessaria", ai sensi dell'art. 113, comma secondo, c.p.c.), accompagnandola però con la richiesta della diversa ed eventualmente maggior somma che "sarà ritenuta di giustizia", la causa deve ritenersi - in difetto di tempestiva contestazione ai sensi dell'art. 14 c.p.c. - di valore indeterminato, e la sentenza che la conclude sarà appellabile senza i limiti prescritti dall'art. 339 c.p.c..

Cass. civ. n. 5287/2012

Le sentenze rese dal giudice di pace in cause di valore non eccedente i millecento euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi mediante moduli o formulari di cui all'art. 1342 cod. civ., sono da considerare sempre pronunciate secondo equità, ai sensi dell'art. 113, secondo comma, cod. proc. civ. Ne consegue che il tribunale, in sede di appello avverso sentenza del giudice di pace, pronunciata in controversia di valore inferiore al suddetto limite, è tenuto a verificare, in base all'art. 339, terzo comma, cod. proc. civ., come sostituito dall'art. 1 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, soltanto l'inosservanza dei principi superiori di diritto, che non possono essere violati nemmeno in un giudizio di equità. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha escluso la deducibilità in appello della violazione dell'art. 2697 cod. civ. sull'onere della prova contro la sentenza pronunciata dal giudice di pace secondo equità, trattandosi di regola di diritto sostanziale che dà luogo ad un "error in iudicando").

Cass. civ. n. 24153/2010

Nel giudizio instaurato davanti al giudice di pace, per il risarcimento dei danni ( nella specie da circolazione stradale), qualora l'attore, oltre a richiedere una somma specifica non superiore a euro 1.032,91 (nella specie euro 258,00), abbia anche concluso, in via alternativa o subordinata, per la condanna del convenuto al pagamento di una somma maggiore o minore da determinarsi nel corso del giudizio, siffatta ultima indicazione, pur non potendosi reputare mera clausola di stile, non può, tuttavia, ritenersi di per sé sola sufficiente a dimostrare la volontà dello stesso attore di chiedere una somma maggiore - ed ancor meno una somma superiore ad euro 1.032,91 - in assenza di ogni altro indice interpretativo idoneo ad ingenerare quanto meno il dubbio che le circostanze dedotte siano potenzialmente idonee a superare il valore espressamente menzionato e, in particolare, quello entro il quale è ammessa la decisione secondo equità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza del giudice di gravame che aveva dichiarato inammissibile il proposto appello avverso la sentenza resa dal giudice di pace, giacché, in totale assenza di contrarie emergenze processuali, era da ritenersi ininfluente, al fine di individuare il mezzo di impugnazione esperibile, l'ulteriore richiesta, avanzata dall'attore con l'atto di citazione, di condanna del convenuto per un importo maggiore o minore rispetto a quello espressamente indicato).

Cass. civ. n. 12030/2010

Qualora vengano proposte davanti al giudice di pace due domande, l'una principale e l'altra riconvenzionale, fra loro connesse, la prima soggetta a decisione di equità e l'altra a decisione secondo diritto, la regola è che entrambe devono essere decise secondo diritto; peraltro, ove il giudice di pace abbia deciso la domanda principale e rimesso quella riconvenzionale, per valore, al tribunale, anziché rimettere al tribunale, per connessione, l'intera decisione, la sentenza si considera emessa secondo diritto e l'impugnazione esperibile è l'appello, anche nel regime anteriore alla modifica dell'art. 339 c.p.c. disposta dall'art. 1 del d.l.vo 2 febbraio 2006, n. 40.

Cass. civ. n. 26919/2009

L'identificazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale deve essere fatta in base al principio dell'apparenza, e cioè con riferimento esclusivo alla qualificazione dell'azione proposta effettuata dal giudice "a quo", sia essa corretta o meno, e a prescindere dalla qualificazione che ne abbiano dato le parti; tuttavia, occorre altresì verificare se il giudice "a quo" abbia inteso effettivamente qualificare l'azione proposta, o se abbia compiuto, con riferimento ad essa, un'affermazione meramente generica. In tal caso, ove si ritenga che il potere di qualificazione non sia stato esercitato dal giudice "a quo", esso può essere legittimamente esercitato dal giudice "ad quem", e ciò non solo ai fini del merito, ma anche dell'ammissibilità stessa dell'impugnazione. (Nella specie, la S.C. ha qualificato come opposizione a sanzione amministrativa - e non come opposizione all'esecuzione - il giudizio introdotto per ottenere l'annullamento della cartella di pagamento, nonché dei verbali di contestazione e dell'ordinanza-ingiunzione relativi a violazione del codice della strada, ritenendo per tale ragione ammissibile l'impugnazione col ricorso per cassazione).

Cass. civ. n. 26518/2009

L'individuazione del mezzo di impugnazione esperibile avverso le sentenze del giudice di pace avviene in funzione della domanda, con riguardo al suo valore (ai sensi degli artt. 10 e segg. c.p.c.) ed all'eventuale rapporto contrattuale dedotto ("contratto di massa" o meno), e non del contenuto concreto della decisione e del criterio decisionale adottato (equitativo o di diritto), operando, invece, il principio dell'apparenza nelle sole residuali ipotesi in cui il giudice di pace si sia espressamente pronunziato su tale valore della domanda o sull'essere la stessa fondata su un contratto concluso con le modalità di cui all'art. 1342 c.c. (Nella specie la S.C. ha ritenuto che fosse impugnabile con l'appello, anziché con il ricorso per cassazione, una sentenza del giudice di pace, emessa anteriormente al D.L.vo 2 febbraio 2006, n. 40, in un giudizio nel quale l'attore aveva proposto domanda di risarcimento danni inclusa nel limite della giurisdizione equitativa ed il convenuto aveva svolto domanda riconvenzionale di accertamento negativo senza limite di valore).

Cass. civ. n. 7626/2009

Qualora il giudice di primo grado, separando due cause connesse, ne decida una soltanto e rimetta, con separata ordinanza, l'altra in istruttoria, l'appello è proponibile soltanto contro la sentenza relativa alla causa decisa, non potendo il giudice di appello, per il principio del doppio grado di giurisdizione, esaminare l'altra causa rimessa in istruttoria e non ancora decisa; ne consegue che, qualora si impugni la disposta separazione dei processi, non può essere censurata l'ordinanza con la quale il giudice provvede per l'istruttoria della causa separata, bensì il provvedimento della sentenza con il quale è stata posta in essere la separazione delle cause.

Cass. civ. n. 30201/2008

L'impugnazione di un provvedimento giurisdizionale deve essere proposta nelle forme previste dalla legge per la domanda così come è stata qualificata dal giudice (anche se tale qualificazione sia erronea), e non come le parti ritengano che debba essere qualificata. Ne consegue che ove il tribunale qualifichi come «reclamo» ai sensi dell'art. 630 c.p.c. l'impugnazione proposta avverso un provvedimento del giudice dell'esecuzione, e lo dichiari inammissibile ritenendo che nella specie si sarebbe dovuta proporre l'opposizione agli atti esecutivi, la relativa decisione è impugnabile con l'appello e non col ricorso per cassazione, non potendo applicarsi il principio dell'inappellabilità, previsto per le decisioni sull'opposizione agli atti esecutivi, ad un caso in cui quest'ultima è stata ritenuta dal giudice mai proposta.

Cass. civ. n. 5276/2008

Quando il giudice di pace, risolvendo espressamente una questione insorta sulla regola di decisione (sotto il profilo della individuazione del valore della controversia o della qualificazione del contratto alla stregua dell'art. 1342 c.c.), afferma che la causa dev'essere decisa secondo equità e la decide, la regola di decisione della causa deve intendersi necessariamente corrispondente a tale affermazione, con conseguente nullità della sentenza ove detta regola sia stata erroneamente individuata, non potendo il giudice dell'impugnazione, quale esso sia, valutare se la decisione sia stata in concreto assunta secondo diritto, dovendo, bensì, disporre, in base alla disciplina propria del giudizio di impugnazione alla quale è tenuto a conformarsi, la rinnovazione della decisione sulla base di una motivazione in diritto se trattasi del giudice di appello ovvero, se si tratta della Corte di cassazione, pervenendosi alla cassazione con rinvio affinché il giudice di rinvio provveda alla rinnovazione della decisione secondo diritto, a meno che non ricorrano le condizioni per la decisione direttamente nel merito, nel qual caso sarà la stessa S.C. che procederà a tale rinnovazione.

Cass. civ. n. 19271/2007

Quando il giudice d'appello pronuncia sentenza, con la quale in via pregiudiziale risolva questioni inerenti l'ammissibilità dell'appello e, quindi, risolvendo una questione di competenza di cui pure sia stato investito con l'appello, dichiari che la competenza spettava ad un giudice diverso da quello che ha deciso in primo grado e rimetta le parti avanti al giudice dichiarato competente, la decisione è una sentenza che decide sul «merito» e sulla competenza. Ne consegue che, se la parte rimasta soccombente sia sulla questione di «merito» inerente l'ammissibilità dell'appello, sia su quella di competenza intende impugnare entrambe le statuizioni, il mezzo esperibile è soltanto il ricorso per cassazione ordinario (con il quale la Corte di cassazione sarà investita quanto alla questione di competenza) ai sensi del n. 2 dell'art. 360, mentre se la parte intende impugnare la decisione solo sulla competenza e non quanto alla ritenuta ammissibilità dell'appello, il mezzo di impugnazione è il regolamento facoltativo di competenza. Ne consegue che ove la parte abbia proposto cumulativamente ricorso per cassazione ordinario sulla decisione relativa all'ammissibilità dell'appello (nella specie sia sotto il profilo che la sentenza di primo grado non sarebbe stata appellabile perché resa in causa equitativa, sia sotto il profilo del difetto di specificità dei motivi di appello) e una subordinata istanza di regolamento di competenza in riferimento alla decisione sulla competenza, quest'ultima istanza è da considerare assorbita dal ricorso ordinario (nella fattispecie – concernente la decisione con cui il tribunale giudice d'appello aveva annullato la sentenza di primo grado, con cui il giudice di pace aveva accolto la domanda di restituzione di quote di premio assicurativo corrisposte in forza di intesa restrittiva della concorrenza, dichiarando la competenza della corte d'appello ai sensi dell'art. 33 della legge n. 287 del 1990 – la Suprema Corte ha, peraltro, anche rilevato che non risultava nemmeno dedotta una censura sulla competenza e, nel rigettare il ricorso ha fissato per la riassunzione dinanzi alla Corte d'appello termine ai sensi dell'art. 50 c.p.c.).

Cass. civ. n. 13019/2007

Dall'assetto scaturito dalla riforma di cui al D.L.vo n. 40 del 2006 e particolarmente dalla nuova disciplina delle sentenze appellabili e delle sentenze ricorribili per cassazione, emerge con certezza assoluta che, riguardo alle sentenze pronunciate dal giudice di pace nell'ambito del limite della sua giurisdizione equitativa necessaria, l'appello a motivi limitati, previsto dal terzo comma dell'art. 339 c.p.c., è l'unico rimedio impugnatorio ordinario ammesso (se si esclude la revocazione per motivi ordinari). Tale conclusione – non desumibile esplicitamente da detta norma, posto che l'avverbio «esclusivamente» che in essa figura potrebbe apparire riferibile non al mezzo esperibile, bensì ai motivi deducibili con il mezzo stesso, onde l'interprete potrebbe avere il dubbio (peraltro per il solo vizio di cui al n. 5 dell'art. 360 c.p.c.) che contro la sentenza sia esperibile, prevedendolo altra norma, altra impugnazione ordinaria per i motivi esclusi e segnatamente il ricorso per cassazione – si giustifica, oltre che per un'elementare ragione di coerenza, che esclude un concorso di mezzi di impugnazione non solo per gli stessi motivi, ma anche per motivi che rispetto a quelli ammessi in riferimento ad un mezzo rappresenterebbero un loro allargamento, si giustifica in forza della lettura dell'art. 360 nuovo testo, là dove nel primo comma prevede l'esperibilità del ricorso per cassazione soltanto contro le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado. Poiché la sentenza equitativa del giudice di pace non è né una sentenza pronunciata in grado di appello né una sentenza pronunciata in unico grado (atteso che è, sia pure per motivi limitati, appellabile e, dunque, è sentenza di primo grado), appare evidente che essa non è sottoponibile a ricorso per cassazione per i vizi diversi da quelli indicati dal terzo comma dell'art. 339 e particolarmente per quello di cui al n. 5 dell'art. 360. Nè, d'altro canto è ipotizzabile la configurabilità del ricorso per cassazione per il motivo di cui al n. 5 dell'art. 360 sulla base dell'ultimo comma del nuovo testo dello stesso art. 360, che ammette il ricorso per cassazione contro le sentenze ed i provvedimenti diversi dalla sentenza per i quali – a norma del settimo comma dell'art. 111 Cost. – è ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge per tutti i motivi di cui al primo comma e, quindi, nelle intenzioni del legislatore, anche per quello di cui al n. 5 citato. Invero, la sentenza del giudice di pace pronunciata nell'ambito della giurisdizione equitativa, essendo appellabile, sia pure per motivi limitati, sfugge all'ambito di applicazione del suddetto settimo comma, che pertiene alle sentenze ed ai provvedimenti aventi natura di sentenza in senso c.d. sostanziale, per cui non sia previsto alcun mezzo di impugnazione e non riguarda i casi nei quali un mezzo di impugnazione vi sia, ma limitato a taluni motivi e la decisione riguardo ad esso possa poi essere assoggettata a ricorso per cassazione (com'è quella resa dal giudice d'appello sulle sentenze del giudice di pace ai sensi del terzo comma dell'art. 339, la quale, naturalmente, lo sarà con adattamento dei motivi di ricorso all'ambito di quelli devolvibili al giudice d'appello stesso).

Cass. civ. n. 1505/2007

L'impugnazione con cui l'appellante si limiti a dedurre soltanto vizi di rito avverso una pronuncia a lui sfavorevole (anche) nel merito è ammissibile nei soli limiti in cui i vizi denunciati, se fondati, imporrebbero una rimessione del procedimento al primo giudice ex artt. 353 e 354 c.p.c., e non anche nel caso in cui i vizi medesimi non rientrino nelle ipotesi tassativamente elencate dalle norme predette. Ne consegue che nella prima ipotesi, è ammissibile la deduzione di soli vizi di rito, mentre, nella seconda, l'appello deve essere dichiarato inammissibile qualora non contenga la richiesta di una pronuncia nel merito della domanda.

Cass. civ. n. 7519/2003

La sentenza che in sede di impugnazione provveda su una pluralità di rapporti processuali (afferenti, nella specie, a distinti contratti di locazione facenti capo a locatori diversi), i quali, ancorché riuniti, conservano autonomia e individualità, è solo formalmente unica, scindendosi in tante pronunce quanti sono i rapporti che definisce, con la conseguenza che, come ciascuna parte di ogni singolo rapporto è tenuta ad impugnarla per evitare la formazione del giudicato in relazione al rapporto che la concerne, così il giudice deve pronunciare su ogni singola impugnazione, senza che la pronuncia sull'una possa influenzare quella sull'altra sì da potere ritenere l'una assorbita nell'altra, incorrendo altrimenti nel vizio di omessa pronuncia, deducibile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360, n. 4, c.p.c., risolventesi nella violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ed integrante error in procedendo da accertare con esame diretto degli atti da parte del giudice di legittimità.

Cass. civ. n. 5456/2003

La statuizione di ammissibilità di una consulenza tecnica d'ufficio, pur se contenuta in una sentenza non definitiva, ha natura di ordinanza; in quanto priva di efficacia decisoria, essa non può essere oggetto di impugnazione immediata, potendo la censura essere rivolta attraverso la successiva impugnazione della sentenza definitiva, che abbia mantenuto fermo il provvedimento stesso, utilizzando i risultati della disposta c.t.u.

Cass. civ. n. 4256/1997

In conseguenza del richiamo contenuto nell'art. 23 della legge 6 marzo 1987, n. 74, anche ai giudizi di separazione personale tra i coniugi si applicano, nel limite della compatibilità, le regole di cui al precedente articolo 4 della stessa legge, fra le quali quella relativa alla decisione dell'appello con il rito camerale. Ne consegue che l'impugnazione di sentenza di separazione personale va proposta con ricorso da depositarsi nei termini perentori di cui agli articoli 325-327 c.p.c. e che tale impugnazione, se proposta con citazione, è inammissibile quando il deposito del relativo atto sia avvenuto oltre i termini suddetti, senza possibilità alcuna di rimessione in termini sul rilievo di un errore scusabile (la cui configurabilità sarebbe comunque esclusa con riguardo ad impugnazione irritualmente proposta dopo diversi anni dall'entrata in vigore della menzionata disciplina e dal manifestarsi al riguardo di un univoco orientamento giurisprudenziale) non contrastando tale impossibilità con precetti costituzionali.

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Consulenze legali
relative all'articolo 339 Codice di procedura civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

Giovanni F. chiede
venerdì 14/07/2017 - Lombardia
“Sono in attesa della pubblicazione di sentenza del Giudice di Pace di Milano per causa civile da me intentata (senza assistenza di un avvocato) nei confronti di un mio vicino (assistito da legale). Chiedo di volermi cortesemente fornire chiarimenti sul comportamento che dovrò tenere dopo la pubblicazione (prevista a settembre) soprattutto per quanto attiene la "notifica". Non mi è chiaro infatti a chi spetti effettuarla. Ringraziandovi, porgo distinti saluti.”
Consulenza legale i 19/07/2017
Non appena una sentenza viene pubblicata, si aprono diversi scenari a seconda che la parte che ha intentato il processo sia vittoriosa o meno.

a) In caso di soccombenza (cioè nel caso in cui si perda la causa), non vi sarà altro incombente se non quello di ottemperare alla sentenza ed eventualmente di pagare l’imposta di registro calcolata dall’Agenzia delle Entrate sul valore della controversia (in genere è chi perde che versa l’imposta, salvo diversi accordi tra le parti). Si potrà, evidentemente, anche impugnare la sentenza (con i limiti che si preciseranno di seguito), ma anche in tale eventualità non si rende necessaria la notifica del provvedimento, quanto piuttosto la notifica dell’atto di appello, al quale va allegata copia della sentenza.

b) Nel caso invece di vittoria, la notifica della sentenza alla controparte non è sempre necessaria: infatti, con la pubblicazione del provvedimento, tutte le parti ne conoscono (o hanno l’onere di conoscerne) il contenuto. Tuttavia, si può rendere necessaria la notifica in due casi:

1) quando si vogliono accorciare i tempi per l’impugnazione: vale a dire che per impugnare una sentenza avanti al Giudice di grado superiore a quello che ha reso la sentenza stessa (in questo caso sarebbe il Tribunale) c’è tempo fino a sei mesi dalla pubblicazione oppure fino a 30 giorni dal momento in cui si riceve la notifica del provvedimento. Nel caso di specie, quindi, se si notifica la sentenza alla controparte, quest’ultima avrà solo 30 giorni di tempo (anziché sei mesi) per decidere se vuole impugnare e per farlo, a pena di decadenza. La notifica, in questa ipotesi, va fatta – attenzione – al procuratore costituito nel primo grado (in buona sostanza, all’avvocato della controparte nel suo Studio).

2) Quando, invece, la controparte non ottemperi alla sentenza e ci sia dunque bisogno di farla eseguire forzosamente, occorrerà notificare il provvedimento alla controparte direttamente e personalmente (dunque non al suo avvocato, si noti bene), previa apposizione della formula esecutiva alla sentenza ad opera della Cancelleria competente, su richiesta della parte (con la formula la sentenza diviene titolo esecutivo). Tale notifica darà, poi, modo alla parte vittoriosa, se sarà opportuno e/o necessario, di procedere con l’esecuzione forzata nei confronti del soccombente moroso.

Come si anticipava poc’anzi, si segnala che non sempre è possibile impugnare la sentenza.
Infatti, nei procedimenti di modico valore (fino ad € 1.100,00) ed in cui la causa sia stata decisa secondo equità (ovvero il Giudice ha deciso non secondo un parametro prestabilito ma secondo buon senso cercando una soluzione equa della controversa), la legge pone dei limiti ai motivi di appello: “Appellabilità delle sentenze. (…) Le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell'articolo 113, secondo comma, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia” (art. 339 c.p.c.).

Enzo B. chiede
giovedì 09/01/2014 - Lazio
“L'appello nei confronti di una sentenza emessa dal giudice di pace di valore di €.670,00 impugnabile in tribunale in base al disposto dell'art. 113, 2° comma c.p.c, ed in particolare per violazione dei principi regolatori della materia, deve essere redatto secondo quanto richiesto dall'art. 342 c.p.c.
La risposta è di interesse in quanto interpellati diversi operatori della giustizia nessuno ha saputo fornire una risposta esauriente.”
Consulenza legale i 09/01/2014
L'art. 339 del c.p.c. disciplina espressamente all'ultimo comma l'appellabilità delle sentenze del giudice di pace pronunciate ai sensi del secondo comma dell'art. 113 del c.p.c. per violazione dei principi regolatori della materia.
L'art. 342 del c.p.c. è contenuto nel medesimo capo (Capo II - Dell'Appello) del titolo III, libro II del codice di procedura civile, pertanto non si ravvisano ragioni per escludere la sua applicabilità anche al caso specifico di impugnazione della sentenza del giudice di pace.
Per un esempio concreto, si veda la recente sentenza del Tribunale di Verona, sezione terza, 28 maggio 2013 n. 66968, che ha fatto applicazione del c.d. "filtro in appello" previsto dal riformato articolo 342 c.p.c.

Sabrina A. chiede
martedì 12/03/2013 - Liguria
“Ho sollevato eccezione di inammissibilità dell'appello per inappellabilità di una sentenza pubblicata nel 2008 che decideva sull'opposizione agli atti esecutivi. Vorrei sapere se tale eccezione (di inammissibilità appello per inappellabilità sentenza impugnata) è rilevabile d'ufficio o meno. Grazie”
Consulenza legale i 13/03/2013
L'inammissibilità dell'appello per inappellabilità della sentenza impugnata può essere rilevata d'ufficio sia dal giudice d'appello che dalla Corte di cassazione, ai sensi del secondo comma dell'art. 382 del c.p.c..
In tal senso si veda la sentenza della Suprema corte del 21 novembre 2001, n. 14725, attinente proprio ad una pronuncia di opposizione agli atti esecutivi emessa dal giudice di pace e appellata al tribunale, che aveva deciso nel merito. La Cassazione ha stabilito in quel caso che la decisione del tribunale non poteva essere resa, in quanto la sentenza del giudice di pace non avrebbe potuto essere impugnata mediante appello, ma semmai con il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.. Infatti, non è impugnabile con i mezzi ordinari la sentenza resa nella materia dell'opposizione agli atti esecutivi (art. 618, secondo comma, c.p.c.). Nella sentenza si legge: "Il tribunale di Roma, al quale con l'impugnazione, era stata devoluta la questione della regolarità della sottoscrizione dell'atto di precetto, non poteva essere investito dell'appello sulla questione riguardante la regolarità formale dell'atto di precetto e, quindi, avrebbe dovuto dichiarare l'appello inammissibile e non pronunciarsi in merito ad essa.
L'inammissibilità dell'appello può essere rilevata d'ufficio anche in questa sede di legittimità, in quanto attiene ad un presupposto dell'impugnazione
".