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Articolo 153 Codice di procedura civile

(R.D. 28 ottobre 1940, n. 1443)

[Aggiornato al 02/03/2024]

Improrogabilità dei termini perentori

Dispositivo dell'art. 153 Codice di procedura civile

I termini perentori non possono essere abbreviati o prorogati, nemmeno sull'accordo delle parti (1).

La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell’articolo 294, secondo e terzo comma(2).

Note

(1) La norma fa espresso divieto al giudice di ridurre o prorogare i termini perentori. Inoltre, la dottrina prevalente ritiene che il divieto operi per il giudice anche in caso di forza maggiore o caso fortuito non imputabili comunque alle parti.
(2) Questo comma è stato così modificato dalla legge 69/2009 che ha così abrogato l'art. 184 bis del c.p.c.. La nuova collocazione dell'istituto della rimessione in termini determina con evidenza il carattere generale dell'istituto stesso.
Le cause che consentono la rimessione in termini, non imputabili alla parte, sono quelle dovute a ragioni di forza maggiore o inadeguatezza del termine.

Ratio Legis

La norma in esame sancisce il divieto di proroga e di abbreviazione dei termini perentori da parte del giudice. Anche la decadenza dovuta al mancato rispetto del termine è una conseguenza, di regola, irrevocabile. Fa eccezione a tale conseguenza, la rimessione nei termini, ovvero la concessione di nuovi termini, istituto che è stato recentemente modificato dalla legge 69/2009. Il secondo comma dell'articolo in commento consente infatti alla parte che è incorsa nella decadenza per causa a lei non imputabile, di rivolgersi al giudice al fine di richiedere di essere rimessa in termini. La modifica di tale comma ha abrogato la previsione di cui all'art. 184 bis del c.p.c., e la nuova collocazione dell'istituto de quo ha reso così più evidente la sua natura generale.

Spiegazione dell'art. 153 Codice di procedura civile

A seguito delle modifiche introdotte dalla Legge n. 69/2009, la norma in esame risulta composta da due parti, e precisamente una prima parte relativa alle regole sulla prorogabilità del termine perentorio ed una seconda parte la quale detta un principio che oggi può definirsi di natura generale.

Il primo comma della norma esclude che i termini perentori possano essere in qualche modo modificati per effetto di un ordine giudiziale o anche su accordo delle parti, sussistendo tuttavia alcune norme speciali che prevedono delle ipotesi di abbreviazione.

Così, i termini perentori possono essere abbreviati ex art. 165 del c.p.c. in materia di costituzione in giudizio dell’attore ed ex art. 190 del c.p.c. in tema di deposito delle comparse conclusionali.
Possono essere prorogati ex art. 155 del c.p.c. se il giorno di scadenza è festivo.

Per effetto della introduzione dell’art. 81 bis delle disp. att. c.p.c., le fasi del processo sono state programmate mediante la fissazione di un calendario degli adempimenti processuali, i cui termini possono essere prorogati d’ufficio soltanto se ricorrono gravi motivi sopravvenuti e purchè la proroga sia richiesta dalle parti prima della scadenza dei termini; il fatto che tale norma non abbia precisato la natura dei termini prorogabili, ha fatto sorgere il dubbio se il legislatore abbia voluto rendere più rigorosa la disciplina dei termini ordinatori o se piuttosto abbia voluto introdurre un’eccezione al principio di improrogabilità assoluta dei termini perentori.

Con riferimento ai termini dilatori, non presi in considerazione dal legislatore in questo capo, è possibile individuare nel codice di rito alcune norme eccezionali (non suscettibili di interpretazione analogica) per effetto delle quali viene attribuito al giudice il potere di dispensare le parti dall’osservanza del termine; un esempio si può individuare all’ art. 482 del c.p.c., il quale autorizza il Presidente del Tribunale competente per l’esecuzione a dispensare dal termine ad adempiere qualora si presenti un grave pericolo nel ritardo.

Sia i termini ordinatori che quelli perentori, invece, sono soggetti a sospensione o interruzione.

Come si è accennato all’inizio, la Legge 69/2009 ha modificato la restituzione in termini abrogando l’art. 184 bis c.p.c. ed inserendo il secondo comma della norma in commento; ciò ha contribuito ad attribuire all’istituto della rimessione in termini una connotazione di carattere generale.
Può osservarsi che il testo è rimasto invariato rispetto a quello dell’art. 184 bis c.p.c., fatto salvo per la circostanza che non vi è più un richiamo al giudice istruttore , ma al “giudice” in generale (il che confermerebbe che la rimessione in termini ha adesso una valenza di carattere generale).

Tale istituto rappresenta ancora oggi l’unico strumento idoneo a superare l’ostacolo del decorso del termine perentorio e con esso si mira essenzialmente ad evitare che le intervenute decadenze possano danneggiare chi vi sia incorso senza colpa.

A seguito della rimessione il processo non regredisce nella sua totalità alla situazione precedente, ma riapre la precedente fase con riferimento ai quei soli poteri per i quali la parte abbia ottenuto la rimessione in termini.
Essa, inoltre, non comporta soltanto la reintegrazione della parte nell’esercizio di quelle attività processuali da cui era decaduta, ma attribuisce anche alla controparte un analogo potere di reazione in tema di eccezioni, prova contraria, ecc.

La rimessione può anche essere ottenuta più di una volta nel corso dello stesso giudizio, purchè eventi diversi, in ogni caso non imputabili alla parte, abbiano fatto incorrere la medesima in decadenze successive.
Presupposto essenziale perché la parte possa essere rimessa in termini è la non imputabilità della causa ((in ordine a tale concetto ci si può rifare alla casistica formatasi in ordine all’art. 294 del c.p.c., relativo alla rimessione in termini del contumace).
E’ anche necessario che il concetto di non imputabilità presenti il carattere dell’assolutezza, non potendosi considerare sufficiente la semplice difficoltà dell’impedimento (c.d. impossibilità relativa).

Per quanto concerne il procedimento di rimessione in termini, vengono espressamente richiamati il secondo e terzo comma dell’art. 294 c.p.c.
In particolare tali commi riguardano i presupposti (la verosimiglianza dei fatti allegati) ed il provvedimento di rimessione, il quale deve avere la forma dell’ordinanza.
La parte che intende essere rimessa in termini dovrà dedurre nella prima istanza o difesa utile che il mancato rispetto del termine di decadenza non è imputabile a propria responsabilità, ma ad una causa non imputabile, al caso fortuito o forza maggiore, ovvero in generale ad impedimenti che non potrebbero essere rimossi con una condotta mediamente diligente.

Il giudice, previo giudizio di verosimiglianza e l’eventuale assunzione delle prove dell’impedimento, ammette o rigetta l’istanza con ordinanza.

Massime relative all'art. 153 Codice di procedura civile

Cass. civ. n. 21304/2019

L'istituto della rimessione in termini richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte o al suo difensore, perché cagionata da un fattore estraneo alla volontà degli stessi, tale potendosi considerare anche lo stato di malattia del difensore costituito da un malessere improvviso che determini un totale impedimento a svolgere l'attività professionale. (Fattispecie in tema di definizione agevolata in cui la S.C. ha accolto l'istanza di sospensione del processo tributario ex art. 6 del d.l. n. 119 del 2018 proposta due giorni oltre il termine di legge dal difensore colpito, nella notte anteriore alla scadenza, da un malore grave, improvviso ed imprevedibile che aveva reso impossibile il deposito tempestivo).

Cass. civ. n. 6102/2019

Nel processo tributario, come in quello civile, il provvedimento di rimessione in termini, reso sia ai sensi dell'art. 184 bis c.p.c., che del vigente art. 153, comma 2, c.p.c., presuppone una tempestiva istanza della parte che assuma di essere incorsa nella decadenza da un'attività processuale per causa ad essa non imputabile. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha annullato la decisione impugnata per avere il giudice, di propria iniziativa, in mancanza di istanza dello stesso, rimesso in termini il contribuente, non costituitosi nel giudizio di appello).

Cass. civ. n. 4135/2019

La rimessione in termini per causa non imputabile, in entrambe le formulazioni che si sono succedute (artt. 184 bis e 153 c.p.c.), ossia per errore cagionato da fatto impeditivo estraneo alla volontà della parte, che presenti i caratteri dell'assolutezza e non della mera difficoltà e si ponga in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza, non è invocabile in caso di errori di diritto nell'interpretazione della legge processuale, pur se determinati da difficoltà interpretative di norme nuove o di complessa decifrazione, in quanto imputabili a scelte difensive rivelatesi sbagliate. (Principio affermato in relazione ad un ipotesi in cui il difensore aveva rinunciato ad impugnare il lodo per errori di diritto, ritenendo tale possibilità esclusa dalla lettera dell'art. 27 del d.l.vo n. 40 del 2006 anche in riferimento a convezione arbitrale risalente, come nella specie, a data anteriore all'entrata in vigore della norma, interpretazione smentita dalla S.C. solo successivamente all'impugnazione del lodo medesimo).

Cass. civ. n. 30512/2018

L'istituto della rimessione in termini, astrattamente applicabile anche al giudizio di cassazione, presuppone, tuttavia, la sussistenza in concreto di una causa non imputabile, riferibile ad un evento che presenti il carattere dell'assolutezza - e non già un'impossibilità relativa, né tantomeno una mera difficoltà - e che sia in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza in questione. (Nel caso di specie, non sono stati ravvisate le condizioni per la rimessione in termini invocata dalla ricorrente, che, nell'impugnare tardivamente per cassazione la sentenza che aveva dichiarato lo stato di adottabilità delle figlie minori - benché la decisione fosse stata regolarmente comunicata all'indirizzo pec del suo difensore - allegava la difficoltà a conoscerla, in ragione del proprio stato di detenzione, del suo essere apolide di fatto e della scarsa dimestichezza con la lingua italiana).

Cass. civ. n. 6664/2017

L’incapacità di intendere e di volere della parte non è causa di sospensione del processo (nella specie, il procedimento di opposizione alla dichiarazione dello stato di adottabilità), con la conseguenza che, in caso di tardività dell’impugnazione, l’unico rimedio è costituito dalla richiesta di rimessione in termini ai sensi dell’art. 153, comma 2, c.p.c.

Cass. civ. n. 23430/2016

La rimessione in termini, disciplinata dall'art. 153 c.p.c., non può essere riferita ad un evento esterno al processo, impeditivo della costituzione della parte, quale la circostanza dell'infedeltà del legale che non abbia dato esecuzione al mandato difensivo, giacché attinente esclusivamente alla patologia del rapporto intercorrente tra la parte sostanziale e il professionista incaricato ai sensi dell'art. 83 c.p.c., che può assumere rilevanza soltanto ai fini di un'azione di responsabilità promossa contro quest'ultimo, e non già, quindi, spiegare effetti restitutori al fine del compimento di attività precluse alla parte dichiarata contumace, o, addirittura, comportare la revoca, in grado d'appello, di tale dichiarazione.

Cass. civ. n. 12544/2015

In tema di contenzioso tributario, l'istituto della rimessione in termini, previsto dall'art. 184 bis c.p.c. (abrogato dall'art. 46 della l. n. 69 del 2009, e sostituito dalla norma generale di cui all'art. 153, comma 2, c.p.c.), è applicabile al rito tributario, operando sia con riferimento alle decadenze relative ai poteri processuali "interni" al giudizio, sia a quelle correlate alle facoltà esterne e strumentali al processo, quali l'impugnazione dei provvedimenti sostanziali. (Nel caso in esame, la S.C. ha, tuttavia, rigettato il ricorso, escludendo che lo stato di malattia sopravvenuta ed il successivo decesso del difensore, incaricato della riassunzione del giudizio dieci mesi prima rispetto alla scadenza del termine, potessero integrare causa di non imputabilità della decadenza).

Cass. civ. n. 12405/2015

Nel procedimento civile, l'istanza di rimessione in termini può essere contestuale all'atto scaduto, nessuna disposizione imponendo alla parte di avanzare la richiesta separatamente ed anteriormente. (Principio enunciato circa un ricorso in opposizione ex art. 5 ter della legge 24 marzo 2001, n. 89, recante contestuale istanza di rimessione nel termine di impugnazione).

Cass. civ. n. 7393/2013

Lo smarrimento del fascicolo d'ufficio e di quello di parte, relativi al giudizio di primo grado, non può considerarsi causa impeditiva della proposizione dell'impugnazione entro il termine di cui all'art. 327 cod. proc. civ., tale da giustificare una richiesta di rimessione in termini, potendo la parte chiedere al giudice la ricostituzione di detti fascicoli e l'eventuale integrazione dei motivi d'appello.

Cass. civ. n. 6304/2013

Qualora il giudice dell'impugnazione ravvisi, anche d'ufficio, la grave difficoltà per l'esercizio del diritto di difesa, determinata dal non avere il cancelliere reso conoscibile la data di deposito della sentenza prima della pubblicazione della stessa, avvenuta a notevole distanza di tempo ed in prossimità del termine di decadenza per l'impugnazione, la parte può essere rimessa in termini, ai sensi dell'art. 153, secondo comma, c.p.c., ed, a tal fine, il difensore è legittimato, anche nel corso della discussione orale, a produrre i documenti da cui emerga la data di pubblicazione della sentenza.

Cass. civ. n. 9792/2012

L'istituto della rimessione in termini, di cui all'art. 184 bis c.p.c. (nella formulazione anteriore all'abrogazione disposta dall'art. 46 della legge 18 giugno 2009, n. 69, operante nella specie "ratione temporis"), dovendo essere letto alla luce dei principi costituzionali di effettività del contraddittorio e delle garanzie difensive, trova applicazione non solo nel caso di decadenza dai poteri processuali di parte interni al giudizio di primo grado, ma anche nel caso di decadenza dall'impugnazione per incolpevole decorso del termine. Ne consegue che deve ritenersi incorsa in decadenza per causa ad essa non imputabile, in relazione al termine di venti giorni dalla comunicazione, previsto dall'art. 170 del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, la parte che abbia dimostrato che il decreto di pagamento delle spettanze dell'ausiliario del giudice era stato spillato ad un biglietto di cancelleria, rimesso all'ufficiale giudiziario per la notifica, riguardante altro procedimento, avendo ciò precluso all'interessato la completa conoscenza del provvedimento ai fini dell'esercizio della facoltà di opposizione, senza che possa ritenersi equipollente, per la decorrenza di detto termine, la conoscenza che la parte abbia avuto "aliunde" del decreto di liquidazione, in quanto allegato alla richiesta di pagamento recapitata dall'ausiliario.

Cass. civ. n. 4841/2012

La rimessione in termini prevista dall'art. 153, comma 2, c.p.c. (ovvero, in precedenza, dall'art. 184 bis dello stesso codice) deve essere domandata dalla parte interessata senza ritardo e non appena essa abbia acquisito la consapevolezza di avere violato il termine stabilito dalla legge o dal giudice per il compimento dell'atto.(In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto inammissibile l'istanza di fissazione di un nuovo termine per la rinnovazione di una notificazione non andata a buon fine, proposta a distanza di un anno e mezzo dall'infruttuoso tentativo della prima notifica).

Cass. civ. n. 27086/2011

L'intervento regolatore delle Sezioni Unite, derivante da un preesistente contrasto di orientamenti di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, induce ad escludere che possa essere ravvisato un errore scusabile, ai fini dell'esercizio del diritto alla rimessione in termini ai sensi dell'art. 153 c.p.c. o dell'abrogato art. 184 bis c.p.c., in capo alla parte che abbia confidato sull'orientamento che non è prevalso.

Cass. civ. n. 23561/2011

La rimessione in termini, tanto nella versione prevista dall'art. 184 bis c.p.c., quanto in quella di più ampia portata prefigurata nel novellato art. 153, secondo comma, c.p.c., presuppone la tempestività dell'iniziativa della parte che assuma di essere incorsa nella decadenza per causa ad essa non imputabile, tempestività da intendere come immediatezza della reazione della parte stessa al palesarsi della necessità di svolgere un'attività processuale ormai preclusa. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva dichiarato inammissibile per tardività la domanda di manleva proposta da un convenuto nei confronti di altro convenuto solo in sede di precisazione delle conclusioni, non risultando specificato se il primo, ricorrente in cassazione, avesse, o meno, avanzato immediata istanza di rimessione in termini, ai fini della proposizione di quella domanda, in conseguenza di quanto già emerso a seguito di un'ordinanza istruttoria di esibizione documentale).

Cass. civ. n. 19836/2011

La rimessione in termini, tanto nella versione prevista dall'art. 184 bis c.p.c. che in quella di più ampia portata contenuta nell'art. 153, secondo comma, c.p.c., come novellato dalla legge 18 giugno 2009 n. 69, richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà. (Nella specie la S.C. ha negato la sussistenza del nesso causale tra la situazione di forza maggiore e le carenze del ricorso per cassazione, posto che la sopravvenuta possibilità di consultare i fascicoli d'ufficio e di parte, prima impedita dal terremoto accaduto nella città dell'Aquila, non aveva determinato variazioni nei motivi d'impugnazione, ma solo nella formulazione dei quesiti di diritto rispetto ai quali la concreta disponibilità di copia degli atti non poteva ritenersi avere avuto alcuna incidenza eziologica).

Cass. civ. n. 15144/2011

Il mutamento della propria precedente interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia (c.d. "overruling"), il quale porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, opera - laddove il significato che essa esibisce non trovi origine nelle dinamiche evolutive interne al sistema ordinamentale - come interpretazione correttiva che si salda alla relativa disposizione di legge processuale "ora per allora", nel senso di rendere irrituale l'atto compiuto o il comportamento tenuto dalla parte in base all'orientamento precedente. Infatti, il precetto fondamentale della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.) impedisce di attribuire all'interpretazione della giurisprudenza il valore di fonte del diritto, sicché essa, nella sua dimensione dichiarativa, non può rappresentare la "lex temporis acti", ossia il parametro normativo immanente per la verifica di validità dell'atto compiuto in correlazione temporale con l'affermarsi dell'esegesi del giudice. Tuttavia, ove l'"overruling" si connoti del carattere dell'imprevedibilità (per aver agito in modo inopinato e repentino sul consolidato orientamento pregresso), si giustifica una scissione tra il fatto (e cioè il comportamento della parte risultante "ex post" non conforme alla corretta regola del processo) e l'effetto, di preclusione o decadenza, che ne dovrebbe derivare, con la conseguenza che - in considerazione del bilanciamento dei valori in gioco, tra i quali assume preminenza quello del giusto processo (art. 111 Cost.), volto a tutelare l'effettività dei mezzi di azione e difesa anche attraverso la celebrazione di un giudizio che tenda, essenzialmente, alla decisione di merito - deve escludersi l'operatività della preclusione o della decadenza derivante dall'"overruling" nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità dell'arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa, la quale, sebbene soltanto sul piano fattuale, aveva comunque creato l'apparenza di una regola conforme alla legge del tempo. Ne consegue ulteriormente che, in siffatta evenienza, lo strumento processuale tramite il quale realizzare la tutela della parte va modulato in correlazione alla peculiarità delle situazioni processuali interessate dall'"overruling". (Fattispecie relativa a mutamento di giurisprudenza della Corte di cassazione in ordine al termine di impugnazione delle sentenze del TSAP; nella specie, la tutela dell'affidamento incolpevole della parte, che aveva proposto il ricorso per cassazione in base alla regola processuale espressa dal pregresso e consolidato orientamento giurisprudenziale successivamente mutato, si è realizzata nel ritenere non operante la decadenza per mancata osservanza del termine per impugnare e, dunque, tempestivamente proposto il ricorso stesso).

Cass. civ. n. 8127/2011

Il principio secondo cui, alla luce della norma costituzionale del giusto processo, la parte che abbia proposto ricorso per cassazione facendo affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimità, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo incorre in un errore scusabile ed ha diritto ad essere rimessa in termini ex art. 184 bis cod. proc. civ., si applica solamente nell'ipotesi in cui il mutamento giurisprudenziale abbia reso impossibile una decisione sul merito delle questioni sottoposte al giudice scelto dalla parte e non quando la pretesa azionata sia stata compiutamente conosciuta dal giudice dotato di giurisdizione secondo le norme vigenti al momento dell'introduzione della controversia, come all'epoca generalmente interpretate, atteso che in tale ipotesi il ricorrente, senza poter lamentare alcuna lesione del suo diritto di difesa, già pienamente esercitato, mira ad ottenere un nuovo pronunciamento sul merito della questione. (Nella specie, relativa all'impugnazione della sanzione disciplinare della destituzione ai sensi dell'art. 58 del r.d. n. 149 del 1931 per il personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in concessione, il TAR aveva rigettato il ricorso, con conseguente formazione del giudicato implicito sulla giurisdizione che non era mai stata oggetto di contestazione; nelle more del giudizio di impugnazione, le S.U., innovando sul punto, avevano affermato che la materia a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 29 del 1993 era devoluta al giudice ordinario e il Cons. Stato aveva affrontato d'ufficio la questione - pur ormai preclusa - affermando, in ogni caso, la giurisdizione del giudice amministrativo; contro questa decisione il ricorrente ha proposto ricorso ex art. 362 cod. proc. civ., che la S.C. ha dichiarato inammissibile).

Cass. civ. n. 7003/2011

La rimessione in termini, tanto nella versione prevista dall'art. 184 bis cod.proc. civ. che in quella di più ampia portata contenuta nell'art. 153, secondo comma, cod. proc. civ., richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte perchè dettata da un fattore estraneo alla sua volontà del quale è necessario fornire la prova ai sensi dell'art. 294 cod. proc. civ. Ne consegue che non rientrano in tale categoria le scelte discrezionali della parte, quale quella di non eccepire la prescrizione di un diritto finchè sono in corso trattative con la controparte.

Cass. civ. n. 5260/2011

La rimessione in termini, disciplinata dall'art. 184 bis c.p.c., "ratione temporis" applicabile, non può essere riferita ad un evento esterno al processo, impeditivo della costituzione della parte, quale la circostanza dell'infedeltà del legale che non abbia dato esecuzione al mandato difensivo, giacchè attinente esclusivamente alla patologia del rapporto intercorrente tra la parte sostanziale e il professionista incaricato ai sensi dell'art. 83 c.p.c. che può assumere rilevanza soltanto ai fini di un'azione di responsabilità promossa contro quest'ultimo, e non già, quindi, spiegare effetti restitutori al fine del compimento di attività precluse alla parte dichiarata contumace, o, addirittura, comportare la revoca, in grado d'appello, di tale dichiarazione.

Cass. civ. n. 2799/2011

Il principio secondo cui, alla luce della norma costituzionale del giusto processo, la parte che abbia proposto ricorso per cassazione facendo affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimità, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo incorre in un errore scusabile ed ha diritto ad essere rimessa in termini ex art. 184 bis c.p.c., non si applica nel caso in cui la giurisprudenza ha fornito l'interpretazione di una nuova norma entrata in vigore anteriormente al deposito del ricorso, senza in alcun modo innovare una posizione pregressa. (In applicazione del principio la S.C. ha respinto l'istanza avanzata dal ricorrente, ex art. 378 c.p.c., di essere rimessa in termini per non avere formulato il quesito previsto dall'art. 366 bis c.p.c. in modo corretto, ed in particolare senza la sintesi originale ed autosufficiente della censura, in quanto tale modalità di formulazione del quesito era stata ritenuta indispensabile dalla giurisprudenza, formatasi dopo la proposizione del ricorso).

Cass. civ. n. 17704/2010

L'istituto della rimessione in termini di cui all'art. 184 bis c.p.c. (nella formulazione anteriore all'abrogazione disposta dall'art. 46 della legge 18 giugno 2009, n. 69) applicabile "ratione temporis", deve essere letto alla luce dei principi costituzionali di effettività del contraddittorio e delle garanzie difensive; tale istituto, pertanto, può trovare applicazione non solo nel caso di decadenza dai poteri processuali di parte interni al giudizio di primo grado, ma anche nel caso di decadenza dall'impugnazione per incolpevole decorso del termine.

Cass. civ. n. 14627/2010

Alla luce del principio costituzionale del giusto processo, la parte che abbia proposto ricorso per cassazione facendo affidamento su una consolidata giurisprudenza di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, incorre in errore scusabile ed ha diritto ad essere rimessa in termini ai sensi dell'art. 184 bis c.p.c., "ratione temporis" applicabile, anche in assenza di un'istanza di parte, se, esclusivamente a causa del predetto mutamento, si sia determinato un vizio d'inammissibilità od improcedibilità dell'impugnazione dovuto alla diversità delle forme e dei termini da osservare sulla base dell'orientamento sopravvenuto alla proposizione del ricorso.

Cass. civ. n. 2899/2005

Il termine perentorio fissato dal giudice per il compimento di atti processuali (nella specie, per la rinnovazione della notifica dell'appello incidentale, ex art. 291 c.p.c.) non può essere sospeso o prorogato, neanche per accordo delle parti, senza che l'interessato abbia provato una difficoltà a lui non imputabile.

Cass. civ. n. 1014/2003

L'art. 184 bis c.p.c. (introdotto dall'art. 19 della legge 26 novembre 1990, n. 353 e modificato quanto al primo comma dall'art. 6 del decreto legge 18 ottobre 1995, n. 432, convertito nella legge 29 dicembre 1995, n. 534) consente, nella sua attuale formulazione, alla parte che sia incorsa in una decadenza per causa ad essa non imputabile, di chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termine nello svolgimento dell'attività processuale dalla quale è decaduta; la qualificazione dei fatti addotti come «causa non imputabile», operata dalla parte, non è però vincolante per il giudice, il quale può ritenere che l'evento addotto dalla parte non sia in rapporto causale con il verificarsi della decadenza. In questo caso, il giudice non è tenuto a motivare sotto il profilo della imputabilità o meno del fatto alla parte, essendo esclusa in radice la possibilità della rimessione in termini.

Cass. civ. n. 11279/2000

La rimessione in termini è un istituto certamente non incompatibile con il rito del lavoro che, prima della novella introdotta dalla legge n. 353 del 1990 (in vigore dal 30 aprile 1995), trovava il suo fondamento nell'art. 421 c.p.c., e, a seguito dell'entrata in vigore della suddetta riforma, trova riscontro nella nuova formulazione dell'art. 184 bis c.p.c. che in analogia con quanto previsto per la parte contumace dall'art. 294 c.p.c. dispone che «la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini».

Cass. civ. n. 13188/1999

Il principio per cui, quando una domanda debba essere proposta entro un termine perentorio nei confronti di più contraddittori, è sufficiente la tempestiva proposizione anche nei confronti di uno solo di essi, dovendo poi il giudice provvedere e ordinare l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, opera solo nei casi in cui il giudizio ha inizio (o ex novo, o in una fase o in grado nuovo), non già quando avendo, avuto luogo tale inizio con pretermissione di taluni litisconsorti e avendo il giudice ordinato l'integrazione del contraddittorio, la parte onerata abbia evocato in giudizio solo alcuni litisconsorti, così solo parzialmente osservando il suddetto ordine, non potendo, in tal caso, essere consentita l'assegnazione di un ulteriore termine per il completamento della già disposta integrazione, sia perché difetterebbe in tale ipotesi il presupposto che rende applicabile l'art. 102 c.p.c. (cioè l'introduzione ex novo del giudizio), sia perché l'assegnazione di un ulteriore termine equivarrebbe alla concessione di una proroga del termine perentorio precedentemente fissato, proroga espressamente vietata dall'art. 153 c.p.c.

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Chiara D. B. chiede
venerdì 14/02/2020 - Veneto
“buongiorno<br />
vorrei sapere se in una causa ereditaria per lesione legittima dopo aver depositato la documentazione inerente donazioni crediti e debiti del de cuius durante la fase di confronto con il Ctu si puo presentare documentazione aggiuntiva a quella depositata per ulteriori donazioni , debiti e crediti riscontratit del de cuius<br />
grazie<br />
chiara”
Consulenza legale i 21/02/2020
Va premesso che il processo civile si articola in una serie ben precisa di quelle che, nel linguaggio giuridico, vengono chiamate “preclusioni”. In altre parole, le varie attività del processo devono essere compiute entro dati termini, che sono appunto termini perentori, nel senso che la loro inosservanza fa perdere il potere di compiere quel determinato atto (decadenza).
Ciò avviene, tra l’altro, per l’indicazione di mezzi di prova e la produzione di documenti, adempimenti rispetto ai quali è indispensabile rispettare le scadenze previste dall’art. 183 del c.p.c.
I termini previsti da tale norma fissano, infatti, anche il limite temporale per la produzione di prove documentali.
Invece, l’espletamento della consulenza tecnica d’ufficio avviene in una fase successiva, nella quale di regola non sarebbe consentito allegare ulteriori documenti: certamente, le parti non possono approfittare della C.T.U. per rimediare ad una eventuale loro inerzia nell'indicare mezzi di prova.
Sullo specifico argomento la giurisprudenza (si veda Cass. Civ., Sez. III, sent. n. 12921/2015) ha chiarito che “il consulente tecnico di ufficio ha il potere di acquisire ogni elemento necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli, anche se risultanti da documenti non prodotti in giudizio, sempre che non si tratti di fatti che, in quanto posti direttamente a fondamento delle domande e delle eccezioni, debbono essere provati dalle parti”.
Pertanto non potrà essere considerato ammissibile, ad esempio, depositare - fornendola al C.T.U. - documenti che la parte ben avrebbe potuto produrre nei termini assegnati dal giudice, in quanto con ciò si aggirerebbero le sopra citate preclusioni istruttorie.
Quanto ai documenti formatisi successivamente alla scadenza dei termini o per i quali la parte possa provare di non aver potuto produrli tempestivamente, occorre considerare che l’art. 153 del c.p.c. prevede ora, in via generale, l’istituto della rimessione in termini.
Tale norma, dopo aver precisato che “i termini perentori non possono essere abbreviati o prorogati, nemmeno sull'accordo delle parti”, aggiunge che “la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini”.
In proposito la Cassazione (Sez. III Civile, ord. n. 17729/2018), ha affermato che “la rimessione in termini, sia nella norma dettata dall'art. 184 bis c.p.c. che in quella di più ampia portata contenuta nell'art. 153, secondo comma, c.p.c., come novellato dalla l. n. 69 del 2009, richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà”.

L. L. chiede
martedì 07/06/2022 - Emilia-Romagna
“Sono stato denunciato per sfruttamento di immagine e per concorrenza sleale da una SPA. In prima comparizione (15 dic 2021) il Giudice del tribunale di Bologna fissa la data della seconda comparizione il 14 di aprile 2022 e fissa la data per la consegna delle memorie a partire dal 10 gennaio 2022 COMPRESO.
Il mio avvocato riceve qualche giorno dopo il fascicolo dalla Cancelleria del Giudice con la scadenza dei termini:
- 9 Febbraio 1ma memoria
- 11 Marzo 2nda memoria
- 31 Marzo 3za memoria
Durante la seconda comparizione gli avvocati della parte attrice si oppongono dicendo che le memorie consegnate erano fuori dai termini. Il mio avvocato ha fatto immediatamente una istanza al Giudice dicendo che si era attenuto alla disposizione scritte sul fascicolo inviato dalla di lui Cancelleria.
Circa un mese fa riceviamo la comunicazione dal giudice che considera le nostre memorie fuori termini perché lui aveva detto a decorrere dal 10 gennaio COMPRESO. Nulla ha scritto per l’errore fatto dalla cancelleria.
Io ora mi trovo ad affrontare una causa senza prove di difesa.
Il mio avvocato ha fatto altra istanza. Siamo in attesa, ed io sono fuori di testa.
Il cittadino e’ sempre colui che paga gli errori giudiziari? Non c’è soluzione a questo caso? I Giudici hanno sempre ragione?
Grazie”
Consulenza legale i 15/06/2022
Dalla lettura degli atti è emerso effettivamente che il giudice, nel verbale di udienza con cui sono stati concessi i termini di cui all’art. 183 c.p.c., li ha assegnati “a decorrere, come richiesto dalle parti, dalla data del 10 gennaio 2022 compresa”.
Ora, la precisazione circa la decorrenza del termine dal 10 gennaio si è resa necessaria perché i termini stessi sono stati concessi all’udienza del 16 dicembre: dunque si tratta di una decorrenza posticipata, avvenuta sull’accordo delle parti, almeno stando a quanto riportato nel provvedimento. Ciò che suscita perplessità è appunto la parola "compresa”.
Infatti l’art. 155 c.p.c. stabilisce la regola “dies a quo non computatur”, ovvero “nel computo dei termini a giorni o ad ore, si escludono il giorno o l'ora iniziali”. Appare dubbio che il giudice possa derogarvi, sia pure in presenza di una espressa e concorde richiesta delle parti in tal senso, anche perché l’art. 153 c.p.c. prevede che i termini perentori (quali sono quelli concessi dal giudice ex art. 183 c.p.c.) non possono essere abbreviati o prorogati, nemmeno sull’accordo delle parti.
Ora, è vero che nel nostro caso il termine di per sé non viene “abbreviato” in termini assoluti; tuttavia, proprio perché il giorno iniziale ex art. 155 c.p.c. non va conteggiato, anticipandone la decorrenza viene di fatto ridotto il tempo a disposizione delle parti per compiere l’atto (nel nostro caso, deposito delle tre memorie successive previste dalla norma).
Non assume però rilevanza la circostanza che la cancelleria abbia calcolato i termini diversamente, annotandoli, come di solito avviene, nel fascicolo d’ufficio.
Purtroppo, qualora il giudice dovesse persistere nel proprio convincimento, non resterebbe che far valere eventualmente l’errore procedurale in sede di impugnazione, nell’ipotesi di esito sfavorevole della causa.