Brocardi.it - L'avvocato in un click! CHI SIAMO   CONSULENZA LEGALE

Articolo 13 Legge professionale forense

(L. 31 dicembre 2012, n. 247)

[Aggiornato al 29/02/2024]

Conferimento dell'incarico e compenso

Dispositivo dell'art. 13 Legge professionale forense

1. L'avvocato può esercitare l'incarico professionale anche a proprio favore. L'incarico può essere svolto a titolo gratuito.

2. Il compenso spettante al professionista è pattuito di regola per iscritto all'atto del conferimento dell'incarico professionale.

3. La pattuizione dei compensi è libera: è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all'assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l'intera attività, a percentuale sul valore dell'affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione.

4. Sono vietati i patti con i quali l'avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa.

5. Il professionista è tenuto, nel rispetto del principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il livello della complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell'incarico; è altresì tenuto a comunicare in forma scritta a colui che conferisce l'incarico professionale la prevedibile misura del costo della prestazione, distinguendo fra oneri, spese, anche forfetarie, e compenso professionale.(1)

6. I parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro della giustizia, su proposta del CNF, ogni due anni, ai sensi dell'articolo 1, comma 3, si applicano quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge.

7. I parametri sono formulati in modo da favorire la trasparenza nella determinazione dei compensi dovuti per le prestazioni professionali e l'unitarietà e la semplicità nella determinazione dei compensi.

8. Quando una controversia oggetto di procedimento giudiziale o arbitrale viene definita mediante accordi presi in qualsiasi forma, le parti sono solidalmente tenute al pagamento dei compensi e dei rimborsi delle spese a tutti gli avvocati costituiti che hanno prestato la loro attività professionale negli ultimi tre anni e che risultino ancora creditori, salvo espressa rinuncia al beneficio della solidarietà.

9. In mancanza di accordo tra avvocato e cliente, ciascuno di essi può rivolgersi al consiglio dell'ordine affinché esperisca un tentativo di conciliazione. In mancanza di accordo il consiglio, su richiesta dell'iscritto, può rilasciare un parere sulla congruità della pretesa dell'avvocato in relazione all'opera prestata.

10. Oltre al compenso per la prestazione professionale, all'avvocato è dovuta, sia dal cliente in caso di determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale, oltre al rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell'interesse del cliente, una somma per il rimborso delle spese forfetarie, la cui misura massima è determinata dal decreto di cui al comma 6, unitamente ai criteri di determinazione e documentazione delle spese vive.

Note

(1) Comma così modificato dall’art. 1, comma 141, lett. d), L. 4 agosto 2017, n. 124.

Notizie giuridiche correlate all'articolo

Consulenze legali
relative all'articolo 13 Legge professionale forense

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

Dario I. chiede
sabato 29/08/2020 - Toscana
“Salve mi chiamo Dario.
Prima di tutto vi ringrazio per l'aiuto che fornite,già in passato mi avete aiutato per un altra questione e spero anche in questa fate altrettanto.
DESCRIVO I FATTI: nel 2018 dinanzi al tribunale ordinario di Arezzo mia sorella cita me e mia madre per la divisione ereditaria di mio padre. Io e mia madre veniamo seguiti dallo stesso avvocato e mia madre richiede il patrocinio gratuito a spese dello stato. Nell'atto di citazione mia sorella non specifica l'importo di cui sostiene essere lesa, ma fa solo l'elenco dei beni appartenuti a mio padre richiedendo al tribunale che gli sia retribuito un 1/3 del valore di tutti i beni, tra l'altro conteggiando nella citazione beni già suddivisi in precedenza.
Dopo 1 anno chiudiamo il procedimento con una conciliazione che riconosce a mia madre 4/6 dei beni perchè era in comunione dei beni con mio padre , a me un 1/6 e a mia sorella un 1/6 meno sette mila euro che mia sorella aveva già prelevato indebitamente 1 anno prima da un libretto condiviso di mio padre, per un totale netto retribuito a mia sorella di diciotto mila euro.
Subito dopo firmato la conciliazione il nostro Avvocato ci convoca nel suo studio per riconsegnare tutta la nostra documentazione e ci presenta una nota pro forma ciascuno identiche da sei mila e cinquecento euro ciascuna, spiegando che quella di mia madre è già in incasso a spese dello Stato e la mia e da saldare. Da subito gli faccio presente che mi sembra spropositata dato il breve decorso temporaneo del procedimento fatto solo da 6 rinvii e terminato con la conciliazione e tra l'altro gli riferisco che ho pensato io ha procurare il 95% di perizie successioni e documenti vari utili, ma lui si giustifica che sta applicando le tabelle di legge inerenti al valore della nostra causa. In seguito mi reco in tribunale per visionare copia del decreto di liquidazione dei compensi emesso dal Giudice della nostra causa e da questo documento mi rendo conto che l'avvocato ha avanzato richiesta ed è stata liquidata per l'assistenza di mia madre a spese dello Stato un compenso di euro 2716,75 oltre rimborso 15% e CAP. In seguito ritorno nel suo studio sostenendo di dovergli pagare solo 2716,75 euro oltre rimborso e cap come richiesto per la parte di mia madre, ma lui sostiene che l'ammissione al patrocinio gratuito a spese dello Stato per legge riduce della metà l'importo della parcella e dato che io non ho il patrocinio a spese dello Stato devo raddoppiare l'importo per un totale di 6498 euro, invitandomi ad effettuare il pagamento o diversamente agirà giudiziariemente. Compreso il comportamento fuorviante e disonesto, voglio procedere con una contestazione davanti al consiglio dell'ordine degli avvocati di Arezzo, visto che l'avvocato non sente ragioni, consultando parametri e tabelle forensi 55/2014 noto che in parcella non viene applicato assolutamente l'art. 4 comma 2 e oltre questo noto che la parcella riporta un valore "indeterminabile" ed è stata applicata la tabella da 52001€ a 260.000€ per redigere le 3 fasi dei compensi, come risulta dall' art. 10 c.p.c per la determinazione del valore della causa deve avvenire con esclusivo riferimento alla domanda proposta con l'atto introduttivo, ma dato che la richiesta iniziale di mia sorella era spropositatamente esagerata non tenendo conto della comunione dei beni di mia mamma e tra l'altro aggiungendo beni già suddivisi LA DOMANDA CHE VI RICHIEDO PER LA CONSULENZA E' QUESTA: sulla base di quanto predetto, come o quali articoli espongo nella contestazione al consiglio dell'ordine degli Avvocati per poter richiedere di applicare alla parcella la tabella dei parametri da 5201 a 26000€ che è quella inerente alla retribuzione di 18000€ ricevuta da mia sorella??
GRAZIE”
Consulenza legale i 01/09/2020
Prima di rispondere alla specifica domanda posta nel quesito, occorre esaminare il problema del rapporto tra liquidazione degli onorari di avvocato in base ai parametri di legge e valore della causa come dichiarato nel corso del giudizio.
Un utile “riassunto” della questione si trova nella sentenza n. 27789/2019 della II Sezione Civile della Cassazione.
In quell’occasione la Suprema Corte ha innanzitutto ricordato che, a norma dell'art. 6, comma 2, della tariffa professionale approvata con il D.M. 8 aprile 2004, n. 127, "nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, può aversi riguardo al valore effettivo della controversia, quando esso risulti manifestamento diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile".
Va precisato che, attualmente, la materia dei compensi spettanti agli avvocati trova disciplina nel D.M. 55/2014, in cui non si parla più di tariffa ma, appunto, di “parametri”. In ogni caso, anche l’art. 5 del D.M. 55/2014, in tema di determinazione del valore della controversia ai fini della liquidazione dei compensi a carico del soccombente, stabilisce che “in ogni caso si ha riguardo al valore effettivo della controversia, anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti, quando risulta manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile o alla legislazione speciale”. Inoltre, sempre secondo la stessa norma, anche per la liquidazione dei compensi a carico del cliente si ha riguardo al valore corrispondente all'entità della domanda, mentre si ha riguardo al valore effettivo della controversia quando risulta manifestamente diverso da quello presunto “anche in relazione agli interessi perseguiti dalle parti”.
Tornando alla sentenza in esame, la stessa ricorda altresì che tale norma - ovvero quella che consente di fare riferimento al valore effettivo della controversia - “trova applicazione solo in riferimento alle cause per le quali si proceda alla determinazione presuntiva del valore, in base a parametri legali, e non pure allorquando il valore della causa sia stato in concreto dichiarato, dovendosi, in tale situazione, utilizzare il disposto dell'art. 10 del c.p.c., senza necessità di motivare in ordine alla mancata adozione di un diverso criterio (cfr. Cass., S.U. n. 5615/1998; Cass. n. 8660/2010; n. 19098/2014; n. 25893/2016)”.
Per quanto riguarda lo specifico caso di controversia definita a seguito di transazione fra le parti, prosegue la Cassazione, “il valore della causa, ai fini della liquidazione degli onorari spettanti all'avvocato nei confronti del cliente, si determina, in base alle norme del codice di procedura civile, avendo riguardo soltanto all'oggetto della domanda, considerata al momento iniziale della lite, per cui nessuna rilevanza può attribuirsi alla somma concretamente liquidata dal giudice in sentenza, ovvero realizzata dal cliente a seguito di transazione”.
Infine, la Cassazione ricorda anche di aver “chiarito che l'indagine demandata al giudice di merito è quella di verificare l'attività difensiva che il legale ha dovuto apprestare tenuto conto delle peculiarità del caso specifico, in modo da stabilire se l'importo oggetto della domanda possa costituire un parametro di riferimento idoneo ovvero se lo stesso si riveli del tutto inadeguato rispetto all'effettivo valore della controversia, "come nel caso in cui il legale abbia esagerato in modo assolutamente ingiustificato la misura della pretesa azionata in evidente sproporzione rispetto a quanto poi attribuito alla parte assistita, perché in tali casi - a prescindere dai profili di responsabilità ascrivibili al professionista - il compenso preteso alla stregua della relativa tariffa non può essere considerato corrispettivo della prestazione espletata stante la sua obiettiva inadeguatezza rispetto alla attività svolta" (Cass. n. 13229/2010; n. 18507/2018)”.
Dunque, in base all’orientamento espresso nel tempo dalla Cassazione, in caso di controversia conclusasi con transazione non si può, di regola, fare riferimento all’importo su cui concretamente le parti si sono accordate, in quanto per “valore della controversia”, ai fini del calcolo degli onorari, deve intendersi quello originario della causa.
Allo stesso tempo, però, viene fatto salvo il principio per cui deve tenersi conto del valore effettivo della controversia, nel caso di manifesta sproporzione rispetto a quello presunto a norma del codice di procedura civile, anche se tale regola non trova applicazione quando il valore della controversia sia stato in concreto dichiarato.
Nel nostro caso, peraltro, risulta che controparte abbia dichiarato nell’atto introduttivo che il valore della causa era “indeterminabile”.
Ma si tratta veramente di causa di valore indeterminabile?
Sul punto sempre la Cassazione, Sez. VI - 2, con ordinanza n. 1499/2018, ha precisato che, “in tema di liquidazione dell'onorario spettante all'avvocato, per domanda di valore indeterminabile, con applicazione del conseguente scaglione tariffario, deve intendersi la domanda il cui valore non può essere determinato, non anche quella di valore indeterminato e da accertarsi nel corso dell'istruttoria, il cui ammontare può essere fissato fino al momento della precisazione delle conclusioni”.
In proposito, Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 11056/2016 ha ricordato il proprio costante orientamento, secondo cui, “tanto ai fini della competenza che ai fini della liquidazione dei compensi di avvocato, possono essere definite di valore "indeterminabile" soltanto le cause o le pratiche aventi ad oggetto beni insuscettibili di valutazione economica, in quanto tale indeterminabilità del valore va intesa in senso obiettivo, quale conseguenza, cioè, di un'intrinseca inidoneità della pretesa ad essere tradotta in termini pecuniari al momento di proposizione della domanda o di espletamento della prestazione professionale”.
Ma vi è di più. Infatti, rammenta la S.C., è errato qualificare, agli effetti della liquidazione degli onorari di avvocato, come cause di valore indeterminabile non quelle non suscettibili di valutazione economica, quanto quelle il cui valore sia soltanto non determinato o di difficile valutazione.
Tornando al caso oggetto del quesito, pertanto, è evidente che il procedimento per cui il legale ha avanzato una richiesta di pagamento che si assume sproporzionata non era affatto di valore “indeterminabile”, non trattandosi di causa insuscettibile di valutazione economica: semplicemente, il valore della causa non era stato in concreto individuato al momento dell’introduzione del giudizio, quali che ne fossero i motivi.
In materia di conferimento dell'incarico e compenso, l’art. 13 della L. n. 247/2012 (legge professionale forense) stabilisce, tra l’altro, che il compenso spettante al professionista è pattuito di regola per iscritto all'atto del conferimento dell'incarico professionale. Viene altresì affermato che la pattuizione dei compensi è libera (salvo alcuni limiti espressamente previsti), e si pone a carico dell’avvocato una serie di obblighi informativi.
Inoltre, la norma precisa che i parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro della giustizia (appunto il D.M. n. 55/2014) si applicano quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge.
Infine, per quanto interessa ai nostri fini, in mancanza di accordo tra avvocato e cliente, ciascuno di essi può rivolgersi al consiglio dell'ordine affinché esperisca un tentativo di conciliazione. In mancanza di accordo il consiglio, su richiesta dell'iscritto, può rilasciare un parere sulla congruità della pretesa dell'avvocato in relazione all'opera prestata.
Quindi, per rispondere al quesito, se si intende contestare la notula presentata dal legale ci si potrà rivolgere al consiglio dell’ordine di appartenenza di quest’ultimo, facendo riferimento sia all’art. 5 del D.M. n. 55/2014, sia alla giurisprudenza menzionata nella presente consulenza. Tuttavia occorre tenere presente che, anche nel caso in cui la richiesta del legale venisse considerata non congrua rispetto al valore effettivo della controversia, non verrebbe automaticamente applicato lo scaglione di valore corrispondente all’importo riconosciuto in sede di conciliazione; semmai, dovrebbe individuarsi, appunto, il valore effettivo della causa.
Sul punto, proprio l’art. 5 del D.M. n. 55/2014 stabilisce che, nei giudizi di divisione, per la determinazione del valore si ha riguardo alla quota o ai supplementi di quota o all'entità dei conguagli in contestazione. Inoltre, anche la Cassazione (Sez. II, sent., n. 1202/2016) ha smentito la tesi secondo cui il valore della causa al quale andrebbero ragguagliati gli onorari sarebbe quello dell'asse, trattandosi di cause ereditarie cui si applicherebbe, ai fini della determinazione del valore, l'art. 12 del c.p.c., comma 2, in tema di divisioni.
Invece, secondo la Corte, deve ritenersi che, ai fini degli onorari, il valore delle cause di divisione non vada stabilito a norma dell'art. 12 c.p.c., u.c., poiché l’art. 6 D.M. n. 127 del 2004 (ora art. 5 D.M. n. 55/2014) stabilisce, “con statuizione avente valore di principio ed applicabile anche agli onorari dovuti dal cliente, che in tali giudizi il valore va determinato in relazione al valore della "quota o dei supplementi di quota in contestazione.

Daniele F. chiede
martedì 03/03/2020 - Toscana
“Buongiorno, il mio quesito è seguente.

Ipotizziamo che il signor Tizio voglia intraprendere una causa contro il signor Caio per un risarcimento danni, ed abbia stipulato un patto con il proprio Legale che preveda un compenso composto da due parti: una parte fissa e certa (oltre le spese documentate) ed una dipendente dall’esito positivo della causa, pari al 20% percento del risarcimento ottenuto + il rimborso delle spese legali ed accessorie che sarà stabilito nella sentenza.

Vorrei capire, in quale momento si concretizza per Tizio l’obbligo del pagamento della seconda parte del compenso, cioè quella dipendente dall’esito della causa, nel caso in cui la sentenza di primo grado sia a lui favorevole ma venga impugnata dalla controparte per un ricorso in appello.

Faccio un esempio numerico: Tizio fa causa a Caio ed il Tribunale gli riconosce un risarcimento di 500.000 Euro + un rimborso di 20.000 per le spese legali. Il 20% del risarcimento corrisponderebbe a 100.000 Euro, a cui andrebbero aggiunti 20.000 Euro di rimborso per le spese legali, per un totale di 120.000 Euro (trascuro le spese accessorie, ecc.)

Ma Caio non paga il risarcimento ed impugna la sentenza ricorrendo in appello. Domanda: Tizio deve comunque versare al suo Legale i 120.000 Euro calcolati come sopra, prima ancora che si conosca l'esito dell'appello, e soprattutto: li deve pagare indipendentemente da tale esisto?

Oppure Tizio potrà attendere il giudizio della Corte di Appello (ed eventualmente quello di Cassazione) e versare al suo Legale il 20% del risarcimento che effettivamente avrà ottenuto a sentenza definitiva? Pongo questa domanda per conoscere qual è la normale prassi adottata e le norme applicabili, nel caso in cui nell’accordo tra Tizio ed il suo Legale questo aspetto non sia stato chiaramente regolato.

Un’ultima domanda: da un punto di vista puramente formale, la trattazione di un ricorso di fronte alla Corte di Appello si configura come una nuova causa, oppure come il proseguo di quella iniziata presso il Tribunale di primo grado?

Ringrazio anticipatamente per la risposta.”
Consulenza legale i 13/03/2020
La possibilità che l’avvocato pattuisca col cliente un compenso percentuale rispetto al risultato ottenuto (c.d. patto di quota lite) è stata oggetto nel corso degli ultimi anni di successivi ripensamenti e mutamenti di direzione da parte del legislatore.
Una recente pronuncia della Corte di Cassazione (Sezione III Civile, sent. n. 17726/2018) riassume efficacemente l’evoluzione normativa in materia di patto di quota lite.
Inizialmente, il terzo comma dell'art. 2233 del c.c. prevedeva il divieto per gli avvocati di stipulare ogni "patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio sotto pena di nullità e dei danni".
La ratio del divieto, ricorda la Suprema Corte, è sempre stata individuata nell'esigenza di tutelare l'interesse del cliente nonché la dignità e la moralità della professione forense, impedendo la partecipazione del professionista agli interessi economici esterni della prestazione.
In un secondo momento, il D.L. n. 223 del 2006, convertito in L. n. 248 del 2006, in un’ottica di tutela della concorrenza nel settore dei servizi professionali, ha abrogato tutte le disposizioni che prevedevano, con riferimento alle attività libero professionali ed intellettuali, "l'obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti", facendo salve le disposizioni riguardanti "le eventuali tariffe massime prefissate in via generale a tutela degli utenti".
Nello stesso tempo, il decreto legge ha previsto la nullità, se non redatti in forma scritta, degli accordi sul compenso conclusi tra gli avvocati con i loro clienti, così modificando il testo dell'art. 2233 c.c.
Successivamente, il D.L. 24 gennaio 2012, art. 9, convertito in L. n. 27 del 2012 ha previsto l'abrogazione definitiva delle tariffe delle professioni regolamentate, facendo così venir meno oltre i minimi anche i massimi ed introducendo una nuova disciplina del compenso professionale.
Rispetto agli avvocati, la nuova legge professionale forense (L. n. 247 del 2012) ha stabilito che "la pattuizione dei compensi è libera”, precisando che essa può avvenire, tra l’altro, anche “a percentuale sul valore dell'affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello personale, il destinatario della prestazione” (art. 13, comma 3). Tuttavia lo stesso art. 13 della legge professionale ha espressamente previsto (art. 13, comma 4) il divieto dei "patti con i quali l'avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa": reintroducendo in tal modo - secondo la Cassazione - il divieto del patto di quota lite.
Tali previsioni sono sostanzialmente riprodotte dall'art. 25 del nuovo codice deontologico forense.
Nella pratica non è sempre facile distinguere tra patti consentiti e non.
In ogni caso, le Sezioni Unite, con sentenza n. 25012/2014 (emessa nell’ambito in un giudizio disciplinare), pur definendo il patto di quota lite come contratto aleatorio, hanno precisato che ciò non esclude la possibilità di valutarne l'equità: se, cioè, la stima effettuata dalle parti era, all'epoca della conclusione dell'accordo che lega compenso e risultato, ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell'assunzione del rischio.
La Corte ricorda che “secondo il Consiglio nazionale forense, il rispetto della proporzionalità della pretesa costituisce canone deontologico che deve improntare la condotta dell'avvocato”: nel caso oggetto della decisione, ad esempio, era stata esclusa la proporzionalità di una percentuale del 30% del risarcimento eventualmente ottenuto, poiché si trattava di “controversia dall'esito ben prevedibile e di non così rilevante difficoltà”, confermando in tal modo la sanzione disciplinare inflitta all’avvocato.
Tornando al caso oggetto del quesito, non si conoscono le caratteristiche del giudizio e non è pertanto possibile formulare valutazioni in merito alla congruità dell’accordo sul compenso. Possiamo affermare, però, che tale accordo è alquanto scarno.
Va ricordato in proposito che l’art. 13 legge professionale stabilisce, al comma 5, che “il professionista è tenuto, nel rispetto del principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il livello della complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell’incarico; a richiesta è altresì tenuto a comunicare in forma scritta a colui che conferisce l’incarico professionale la prevedibile misura del costo della prestazione, distinguendo fra oneri, spese, anche forfetarie, e compenso professionale”.
In ogni caso, e riservata ogni valutazione in merito alla congruità e alla correttezza del patto, deve escludersi che il cliente possa considerarsi tenuto a versare una percentuale su un risarcimento non ancora “ottenuto” (la lettera dell’accordo, come riportata del quesito, è abbastanza chiara), ed oltretutto oggetto di contestazione per essere stata impugnata la sentenza di primo grado.
Tra l’altro, sempre l’art. 13, comma 9 della legge professionale prevede che, in mancanza di accordo tra avvocato e cliente, ciascuno di essi può rivolgersi al consiglio dell’ordine affinché esperisca un tentativo di conciliazione. Se il tentativo non riesce il consiglio, su richiesta dell’iscritto, può rilasciare un parere sulla congruità della pretesa dell’avvocato in relazione all’opera prestata.
La circostanza che, nel nostro caso, la proposta sia stata formulata dal cliente non esime, ad avviso di chi scrive, il professionista dal rispetto degli obblighi deontologici e di quelli previsti dalle norme regolatrici della professione.
Chiaramente, l’avvocato che pretenda l’adempimento di un patto di quota lite non congruo rischia pur sempre di incorrere in responsabilità disciplinare.

Rino E. chiede
martedì 11/02/2020 - Puglia
“Gent.Avvocati,

mi permetto sottrarvi una piccola fetta del vostro tempo per un VS.cortese parere/ consiglio.

Quale Ufficiale di Macchina della Marina Mercantile, presentai, nell'Aprile 2005, presso l' INAIL di Lecce, debita istanza per Certificazione Esposizione Amianto. Dopo innumerevoli e frustranti traversie, rinvii e ritardi, nel 2012 fui costretto a rivolgermi ad un Avvocato, qui a Lecce. Finalmente nell'Ottobre 2018 la causa presso il Tribunale del Lavoro di Lecce si concluse con esito favorevole riconoscendomi circa 15 anni di arretrati di aumento della mia pensione. A suo tempo pero', fidandomi del mio avvocato, firmai purtroppo un Mandato di Patto di Quota lite in cui per la sua parcella si riconosceva la bellezza del 40% dei miei arretrati di pensione, corrispondenti alla considerevole somma di circa 40.000€!!! (Tengo a precisare che la causa non e' stata assolutamente troppo impegnativa poiche' tutte le domande, documentazioni varie, perizie ecc.erano tutte favorevoli e da me presentate per tempo), e l' intera causa si risolse con 4 o 5 udienze.! Allora chiedo : secondo il Vs.autorevole parere non considerate non congruo e sproporzionato una tale somma, rispetto al lavoro svolto?

Come posso comportarmi considerando che in fondo si tratta di arretrati della mia pensione e non di una vincita all'enalotto ? Io sono ben grato all'avvocato per il risultato raggiunto e ben propenso a riconoscergli un ottima parcella...Ma francamente quella cifra mi sembra davvero spropositata...

In fin dei conti, per 43 anni a contatto ( reale) con l' amianto, ci sono stato io.

Nel ringraziarvi del tempo dedicatomi, in attesa di una Vs. cortese risposta,

Cordiali Saluti

Consulenza legale i 17/02/2020
La legge professionale forense (legge numero 247/2012), si occupa del patto di quota lite all'art. 13. In particolare, il comma 3 di tale articolo stabilisce che: "La pattuizione dei compensi è libera: è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfetaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all'assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l'intera attività, a percentuale sul valore dell'affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione".
Il comma 4, tuttavia, aggiunge che: "Sono vietati i patti con i quali l'avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa".

Da ciò si evince che, innanzitutto, è valido soltanto l'accordo con il quale il compenso è stabilito a percentuale sul valore dell'affare o su quanto possa giovarsene il destinatario della prestazione, mente è vietato l'accordo con il quale il compenso del legale è rappresentato in tutto o in parte da una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa.

Una simile distinzione si rinviene anche nel nuovo codice deontologico forense, che si occupa della pattuizione dei compensi all'articolo 25. Dopo aver sancito che questa è libera, fermo restando che l'avvocato non deve chiedere compensi o acconti manifestamente sproporzionati rispetto all'attività svolta o da svolgere, tale norma sancisce che "è ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfettaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all'assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l'intera attività, a percentuale sul valore dell'affare o su quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione, non soltanto a livello strettamente patrimoniale". Tuttavia "sono vietati i patti con i quali l'avvocato percepisca come compenso, in tutto o in parte, una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa".

A violazione della norma deontologica il codice deontologico prevede la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale da due a sei mesi.

Inoltre, il Consiglio Nazionale Forense (CNF) ha in più occasioni affermato "L'avvocato può determinare il compenso parametrandolo ai risultati perseguiti (art. 45 c.d.f. ora art. 25 n.c.d.f.), fermo restando che, nell'interesse del cliente, tale compenso deve essere comunque sempre proporzionato all'attività svolta; siffatta proporzione rimane l'essenza comportamentale richiesta all'avvocato, indipendentemente dalle modalità di determinazione del suo compenso" (CNF n. 260/2015; CNF n. 225/2013 ; CNF n. 11/2010).

Allo stesso modo, la Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili nella sentenza n. 25012/2014 ha precisato che "La proporzione e la ragionevolezza nella pattuizione del compenso rimangono l’essenza comportamentale richiesta all'avvocato, indipendentemente dalle modalità di determinazione del corrispettivo a fui spettante. La norma dell’articolo 45 del codice deontologico riproduce infatti la previsione contenuta nell'articolo 43, punto II, dello stesso codice, che vieta all'avvocato di richiedere compensi manifestamente sproporzionati all'attività svolta. L’aleatorietà dell’accordo quotalizio non esclude la possibilità di valutarne l’equità: se, cioè, la stima effettuata dalle parti era, all'epoca della conclusione dell’accordo che lega compenso e risultato, ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell’assunzione del rischio”.
Nel caso oggetto della pronuncia della Cassazione, con il patto di quota lite, il cliente si obbligava, appena ottenuto il risarcimento a corrispondere all'avvocato il 30% di quanto incassato.

Anche la più recente ordinanza della Corte di Cassazione, sez. II Civile, del 26 novembre 2019, n. 30837 si è espressa in maniera analoga, precisando che l'aleatorietà dell'accordo quotalizio non esclude la possibilità di valutarne l'equità, valutando se la stima effettuata dalle parti era, all'epoca della conclusione dell'accordo, ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell'assunzione del rischio.

Nel caso di specie, alla luce della normativa di riferimento e della citata giurisprudenza, considerata la riferita modesta complessità della causa, si ritiene che il patto di quota lite stabilito per una percentuale così elevata (40%) degli arretrati di pensione possa essere considerato irragionevolmente sproporzionato.

Pertanto, si consiglia di rivolgersi al Consiglio dell’Ordine di appartenenza dell’avvocato per contestare la parcella con un ricorso in prevenzione su liquidazione.

Pasquale V. chiede
lunedì 30/12/2019 - Campania
“Controversia giudiziale tra società (omissis) proprietaria di un parcheggio automatizzato e assicurazione GROUPAMA, assicurazione di autovettura che ha danneggiato colonnina di entrata.
l'avvocato che ha ricevuto incarico ha espletato tutto iter del giudizio richiedendo a suo nome le spese processuali che il giudice vorrà riconoscere, restiamo solo in attesa dello stesso.
dopo l'ultima udienza ha provveduto ad inviarci fattura e con mail allegata relative specifiche delle prestazioni professionali
abbiamo provveduto al pagamento integrale precisando "sicuri della vittoria in sentenza per quanto da noi pagato e per le competenze legali certamente vorrà ristornarci quanto da noi anticipato per le spese legali fino alla concorrenza di € ……….. (totale di spese vive+onorari)"
il nostro avvocato si offende e contesta la nostra richiesta rifiutando ogni eventuale riaccredito in virtù della Cass. 25992/18.
precisiamo che e non vi è alcun accordo tra le parti, il nostro legale afferma che in virtù della sopracitata sentenza nulla ci è dovuto .”
Consulenza legale i 08/01/2020
È vero che la pronuncia citata nel quesito (Cass. Civ., Sez. VI - 2, ord. n. 25992/2018), ha affermato che "in tema di onorari dovuti dal cliente al proprio avvocato, anche nel vigore della nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense, di cui alla l. n. 247 del 2012, la loro misura prescinde dalle statuizioni del giudice contenute nella sentenza che condanna la controparte alle spese e agli onorari di causa e deve essere determinata in base a criteri diversi da quelli che regolano la liquidazione delle spese fra le parti".
In proposito, l'art. 13 della L. n. 247/2012 ("Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense"), stabilisce al secondo comma che il compenso spettante al professionista è pattuito "di regola" per iscritto, all'atto del conferimento dell'incarico professionale.
Nel nostro caso, tuttavia, non risulta stipulata alcuna pattuizione relativa alla misura degli onorari.
La norma prosegue precisando che la pattuizione dei compensi è libera (ad esempio, sono ammesse la pattuizione a tempo, quella forfettaria, etc.).
Inoltre il medesimo articolo prevede, a carico dell'avvocato, una serie di obblighi informativi, in ossequio al principio di trasparenza: l'obbligo di rendere noto al cliente il livello di complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell'incarico; l'obbligo di comunicare in forma scritta a colui che conferisce l'incarico professionale la prevedibile misura del costo della prestazione, distinguendo fra oneri, spese, anche forfettarie, e compenso professionale.
Nel caso in cui, all'atto dell'incarico o successivamente, il compenso non sia stato determinato in forma scritta, o comunque in ogni caso di mancata determinazione consensuale, nonché in caso di liquidazione giudiziale dei compensi, si farà riferimento ad appositi parametri, indicati in un decreto emanato dal Ministro della Giustizia.
Alla luce di quanto sopra, è evidente che il legale non potrà determinare unilateralmente il proprio compenso.
Peraltro, il comma 9 della norma in esame  stabilisce che, in mancanza di accordo tra avvocato e cliente, ciascuno di essi può rivolgersi al consiglio dell'ordine cui è iscritto il professionista, affinché esperisca un tentativo di conciliazione
Qualora non si raggiunga l'accordo, il Consiglio, su richiesta dell'iscritto, potrà rilasciare un parere sulla congruità dei compensi richiesti dall'avvocato, in relazione all'opera prestata. 

Anonima chiede
martedì 21/02/2023 - Marche
“Sono nata in XXX dove ho sempre avuto la residenza. Circa 11 anni fa ho iniziato a convivere in YYY con un ragazzo del luogo e da un anno ho trasferito in questa regione la mia residenza, in rapporto di coppia di fatto (senza alcuna registrazione) e in un appartamento di sua proprietà.
E’ nata una bimba che ha quasi 11 mesi, in rapporto nutrizionale di allattamento con svezzamento iniziato.
Da alcuni mesi le cose col mio compagno non vanno bene e ci siamo separati, io ho trovato un'altra casa temporanea nella quale ho portato con me la bimba con la quale ho un rapporto indivisibile anche per ragioni di allattamento.
Sono un’insegnante di ruolo, con stipendio di inizio carriera, qui non ho amicizie tali da potermi aiutare nell’accudimento della piccola, il mercato immobiliare è molto difficile e il costo della vita molto elevato. Per cui sto pensando di tornare in XXX, dove troverei un più basso costo della vita, ampi supporti da parte dei miei genitori, compresa la disponibilità immobiliare e tenendo con me la collocazione della bimba (per la quale dunque il mio trasferimento sarebbe vantaggioso); pur mantenendo un rapporto bigenitoriale di affidamento congiunto. Il mio compagno però non mi dà il consenso.
Vorrei fare domanda di trasferimento scolastico nella mia regione d’origine (si apriranno a breve i termini), ma temo che, eventualmente ottenutala, non segua un provvedimento giudiziale favorevole al mio trasferimento congiunto con il collocamento della bimba presso di me; per cui dovrei separarmi da lei (per me inaccettabile) prendendo lavoro a considerevole distanza dal YYY. Chiedo:
- A vostro giudizio, sulla base delle argomentazioni illustrate che mi spingono a tornare in XXX quali possibilità ho che il Giudice mi autorizzi il trasferimento con collocazione della bimba a significativa distanza dal padre, indebolendone l’esercizio della paternità?
- Anziché fare domanda di trasferimento scolastico e successivamente attendere l’esito del ricorso giudiziale, già in quest’anno, sarebbe possibile invertire la successione cioè chiedere l’autorizzazione al giudice e differire al prossimo anno la domanda di trasferimento che così farei solo alla luce di un provvedimento autorizzativo sicuro. In tal caso però il Giudice dovrebbe pronunciarsi favorevolmente in riferimento ad un trasferimento lavorativo futuro ed eventuale. E’possibile?
- Quanto costa più o meno un ricorso conflittuale di primo grado?
- In caso di soccombenza c'è rischio che il giudice non compensi e accolli al perdente le spese della controparte vincente?

Grazie per l'attenzione.”
Consulenza legale i 28/02/2023
Va premesso che non è possibile formulare previsioni sulla probabilità (né, tanto meno, in termini di certezza) che un giudice adotti o non adotti un determinato provvedimento.
Di regola, la decisione del giudice dipende da una serie di variabili che sfuggono al controllo del legale, non ultimo il libero apprezzamento. Ad ogni giudizio, infatti, è inevitabilmente connaturato un certo grado di rischio (la cosidetta alea).


Ciò chiarito, possiamo però ricordare che il trasferimento del genitore collocatario non è, in linea di principio, precluso e non è necessariamente valutato in senso negativo in relazione agli interessi del minore.
In proposito si veda Cass. Civ., Sez. I, ordinanza 01/07/2022, n. 21054, secondo cui “il coniuge separato che intenda trasferire la sua residenza lontano da quella dell'altro coniuge, non perde - per ciò solo - l'idoneità ad avere in affidamento i figli minori o ad esserne collocatario, in quanto stabilimento e trasferimento della propria residenza e sede lavorativa costituiscono oggetto di libera e non coercibile opzione dell'individuo, espressione di diritti fondamentali di rango costituzionale. Per modo che, ferma restando la libera scelta del genitore collocatario di trasferire la propria residenza in altro luogo unitamente ai minori, il giudice, ove non sia in discussione l'idoneità del medesimo genitore ad essere affidatario o collocatario dei figli, deve esclusivamente valutare se sia maggiormente funzionale all'interesse della prole il collocamento presso l'uno o l'altro dei genitori, per quanto ciò ineluttabilmente incida in negativo sulla quotidianità dei rapporti con il genitore non collocatario”.
Si tratta comunque di una valutazione da effettuarsi caso per caso, in riferimento alle circostanze della singola fattispecie concreta, e "con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale" della prole (art. 337 ter del c.c.).


Per motivi diversi, non è possibile neppure fornire una risposta sul costo della procedura di natura contenziosa, dal momento che ciò dipende da una serie di fattori, quali la complessità della causa, il numero delle attività da compiere, ecc.
Occorre tenere presente che, ai sensi dell’art. 13 della legge prof. forense, comma 5, “il professionista è tenuto, nel rispetto del principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il livello della complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell'incarico; è altresì tenuto a comunicare in forma scritta a colui che conferisce l'incarico professionale la prevedibile misura del costo della prestazione, distinguendo fra oneri, spese, anche forfetarie, e compenso professionale”.


Da ultimo, è certamente possibile che il giudice condanni il soccombente alle spese: tuttavia, per i motivi già esposti all’inizio, non è possibile prevedere in anticipo il contenuto della relativa statuizione.

F. D. chiede
lunedì 05/09/2022 - Umbria
“In qualità di Funzionario comunale collocato a riposo dal 1° gennaio 2010, ho subito 2 processi davanti alla Corte dei conti (con relativi appelli) dai quali sono stato assolto. Per la difesa ho ovviamente incaricato un legale al quale ho corrisposto l'intero onorario ben prima della pubblicazione delle sentenze, dallo stesso quantificato sulla base di un accordo verbale, non avendo egli sottoposto alla mia attenzione nulla di scritto al momento dell'affidamento.
Dopo la pubblicazione delle sentenze di assoluzione, ha preteso ed ottenuto da me ANCHE le spese legali liquidate a favore del convenuto nei processi (vale a dire il sottoscritto), cosicché, allo stato attuale, il legale ha percepito sia le somme a titolo di onorario sia quelle legali indicate in sentenza dal collegio giudicante.
A posteriori, posso dire di avere raggiunto la consapevolezza di aver commesso un errore a cedere alla richiesta del mio ex legale, talché sono a chiedere:
1) se ci sono gli estremi per avviare un'azione legale (con ragionevoli possibilità di successo) con l'obbiettivo di RECUPERARE le somme che, cedendo alle sue insistenze, ho improvvidamente corrisposto al mio ex legale in ragione del fatto che egli ha conseguito quello che io ritengo essere un INDEBITO ARRICCHIMENTO, ed, in caso di esito positivo, se ci sono gli estremi per contestare altro tipo di violazione alla vigente normativa (sia in sede penale come in quella civile);
2) di essere messo a conoscenza - ove la risposta di cui al precedente punto dovesse avere esito negato - della normativa e/o dei pronunciamenti giurisorudenziali sui quali si fonda la legitimità della pretesa.

Ringrazio per l'attenzione e distintamente saluto”
Consulenza legale i 16/09/2022
Non è ravvisabile alcun profilo di illegittimità, né sotto il profilo civilistico, né sotto quello penalistico, nella circostanza che il legale incaricato della difesa abbia percepito sia gli onorari concordati con il cliente, sia quelli liquidati dal giudice in sentenza.
Infatti, secondo la giurisprudenza (si veda Cass. Civ., Sez. VI - 2, ordinanza 17/10/2018, n. 25992), “in tema di onorari dovuti dal cliente al proprio avvocato, anche nel vigore della nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense, di cui alla l. n. 247 del 2012, la loro misura prescinde dalle statuizioni del giudice contenute nella sentenza che condanna la controparte alle spese e agli onorari di causa e deve essere determinata in base a criteri diversi da quelli che regolano la liquidazione delle spese fra le parti (quali, tra gli altri, risultato e altri vantaggi non patrimoniali), in ragione del diverso fondamento dell'obbligo di pagamento degli onorari, che riposa, per il cliente, nel contratto di prestazione d'opera, e, per la parte soccombente, nel principio di causalità e dell'inefficacia nei confronti dell'avvocato della sentenza che ha provveduto alla liquidazione delle spese, in quanto non parte del giudizio”.
Questione diversa è quella relativa alla mancanza di un accordo scritto sugli onorari, pur corrisposti dal cliente.
Al riguardo infatti la recente giurisprudenza (Cass. Civ., Sez. VI - 2, ordinanza 08/09/2021, n. 24213) ha ribadito che “a pena di nullità, il patto di determinazione del compenso dell'avvocato deve essere redatto in forma scritta ai sensi dell'art. 2233 del c.c., comma 3, prescrizione che non può ritenersi implicitamente abrogata dalla L. n. 247 del 2012, art. 13 della legge prof. forense, comma 2, la quale stabilisce che il compenso spettante al professionista sia pattuito di regola per iscritto, norma, questa, che non si riferisce alla forma del patto, ma indica che il momento in cui stipularlo è quello del conferimento dell'incarico”.
Tuttavia, ciò non significa che, in mancanza di patto scritto, non spetti alcun compenso all’avvocato, anche se questo andrà quantificato sulla base dei parametri ministeriali previsti dalla L. 247/2012, secondo quanto stabilito dall’art. 13, comma 6 della medesima legge (“i parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro della giustizia, su proposta del CNF, ogni due anni, ai sensi dell'articolo 1, comma 3, si applicano quando all'atto dell'incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge”).