A seguito della riforma del 2005, l'accoglimento dell'istanza di sospensione prevista da questa norma è subordinata all’esistenza di motivi non soltanto “
gravi”, ma anche “
fondati”, con la precisazione che tali motivi possono riguardare la “
possibilità di insolvenza di una delle parti” e che l'inibitoria può essere concessa “
con o senza cauzione”.
Parte della dottrina ha affermato che i motivi posti a base dell'intervento legislativo debbano rinvenirsi nella volontà di tutelare l'appellante dinanzi ad una decisione, provvisoriamente esecutiva, che si riveli
prima facie suscettibile di riforma; sotto questo profilo, la sussistenza di “
fondati motivi” postulerebbe che dinanzi al giudice di appello, nella decisione preliminare (e sommaria), possa venire in rilievo anche la fondatezza dello stesso appello; diversamente, la valutazione della possibilità di insolvenza troverebbe la sua giustificazione nell'esigenza di evitare che l'eventuale riforma della sentenza gravata si riveli inutile per la impossibilità di ripetere le somme che possono essere state pagate ingiustamente a seguito della
esecuzione forzata intrapresa dalla parte appellata.
Per quanto riguarda il riferimento alla “
possibilità di insolvenza di una delle parti”, espressione che lascia presupporre una condanna al pagamento di una somma di denaro, si è sostenuto che la possibile (futura) insolvenza del creditore, in prospettiva di una eventuale riforma della sentenza di primo grado con conseguente obbligo di restituzione, sia stata tipizzata come “grave motivo”, idoneo da solo a sorreggere l'accoglimento dell'istanza di inibitoria.
Tuttavia, considerato che la norma fa genericamente riferimento ad “una delle parti”, anche il rischio della futura insolvenza del debitore (cioè dell’appellante) potrebbe venire in rilievo quale valida ragione per negare la sospensione dell'esecuzione.
E’ stata ritenuta del tutto innovativa la possibilità concessa al giudice d'appello di subordinare la concessione dell'inibitoria alla prestazione di una
cauzione, la quale sembrerebbe legata all'accoglimento della richiesta di inibitoria, così da dover gravare esclusivamente sul debitore istante (con tale strumento si mira evidentemente ad assicurare che il soddisfacimento delle ragioni del creditore non venga concretamente pregiudicato durante il tempo occorrente per arrivare alla decisione sull'appello).
La lettera della norma fa intendere che l'istanza possa essere formulata solo congiuntamente all'atto di gravame principale od incidentale.
Prima delle modifiche introdotte con la L. 26.11.1990, n. 353, dottrina e giurisprudenza si mostravano divise in ordine alla ammissibilità di una istanza di inibitoria autonoma e successiva rispetto all'atto di gravame: da una parte vi era chi la escludeva, dall'altra, invece, vi era chi la affermava, sul rilievo che l'interesse alla inibitoria potesse sopravvenire alla proposizione dell'
appello principale o
incidentale, qualora a quel momento l'esecuzione forzata non fosse stata già iniziata.
A seguito del nuovo sistema introdotto dal legislatore del 1990, improntato ad una generalizzata ed automatica esecutività, la dottrina sembra concorde nel ritenere definitivamente sottratto ogni spazio all'ipotesi della indebita concessione della provvisoria esecutività nei riguardi delle sentenze.
Pertanto, considerata l’ormai generale esecutorietà della sentenza di primo grado, non si pone più un problema di concessione indebita della clausola di provvisoria esecuzione, ed è per tale motivo che il nuovo testo dell'art. 283 non parla più di revoca e fa piuttosto riferimento al concetto di sospensione discrezionale, distinguendosi correttamente fra sospensione della “
efficacia esecutiva” e sospensione della “esecuzione” in entrambi i casi della sentenza impugnata (il confine fra le due ipotesi, pertanto, risulta essere di natura esclusivamente cronologica).
E’ stata poi osservato che, mentre l'inibitoria della efficacia esecutiva della sentenza potrà avvenire prima dell'inizio dell'esecuzione e ne impedirà irreversibilmente l'avvio sulla base di quella sentenza, la sospensione dell'esecuzione già iniziata può condurre solo ad un arresto del procedimento esecutivo, e non alla caducazione degli atti esecutivi già compiuti.
Prima delle modifiche del 2005, in dottrina non vi era un orientamento unitario in ordine ai presupposti per la concessione dell'inibitoria.
La tesi prevalente riteneva che la formula “gravi motivi” dovesse comprendere non solo gravi e seri pregiudizi per la parte soccombente (
periculum in mora), ma anche la necessità di una delibazione della correttezza della sentenza di primo grado (
fumus boni iuris).
Alcuni autori attribuivano al requisito del
fumus un ruolo fondamentale ai fini della concessione della inibitoria, perfino a prescindere dall'esistenza del
periculum; altri sembravano riconoscere rilievo esclusivo al
periculum, ritenendo che la sua sola esistenza potesse autonomamente giustificare l'istanza di sospensione.
A seguito della L. 263/2005, parte della dottrina ha posto in evidenza che la formula “gravi e fondati motivi” sia volta a rendere più severa la delicata verifica devoluta al giudice di appello, avvalorando l'impostazione secondo cui debbano essere valutati sia il
periculum in mora che il
fumus boni iuris.
Si è affermato, pertanto, che il giudice, nel valutare se concedere o meno la sospensione, dovrà operare una sorta di sommatoria, e concedere l'inibitoria anche quando nessuno dei due sia particolarmente rilevante, ma nel loro insieme appaiano sufficienti per inibire la prosecuzione del processo esecutivo.
E’ stato tuttavia sottolineato che solo la fondatezza dell'impugnazione sembrerebbe avere autonomo rilievo, in quanto mentre dinanzi ad una impugnazione palesemente infondata si può prescindere dalla rilevanza del danno per negare l'inibitoria (è da escludere che vi possa essere un danno ingiusto dall'esecuzione di una sentenza destinata alla conferma), al contrario, se l'appello è destinato ad un sicuro accoglimento, la sospensione potrà essere disposta anche se non vi sono profili di
periculum consistenti, e ciò al fine di evitare un'esecuzione destinata a divenire illegittima all'esito dell'impugnazione.
Per quanto concerne la valutazione della insolvenza di una delle parti, si ritiene che debba essere esaminata solo la possibile attuale situazione di insolvenza, restando irrilevante il rischio di una possibile insolvenza futura, soprattutto in mancanza di indici di dissesto patrimoniale già presenti nel momento in cui viene assunta la decisione sull'istanza inibitoria.
Circa, infine, la possibilità di subordinare il provvedimento sospensivo al rilascio di una cauzione, secondo alcuni autori tale strumento può essere imposto solo a carico della parte istante, che ottiene la provvidenza richiesta.
Vi è tuttavia chi ha proposto una lettura estensiva della norma al fine di permettere la possibilità di porre una cauzione a carico di tutte e due le parti, e dunque sia in ipotesi di concessione che di rigetto dell'istanza.
E’ stato evidenziato in dottrina che, se dopo la pronuncia dell'ordinanza ex
art. 186 quater del c.p.c., il convenuto non chieda espressamente la sentenza per le vie ordinarie, tale ordinanza si converte velocemente in sentenza e diviene da lui appellabile nei modi consueti, con una efficacia esecutiva sospendibile ai sensi della norma in esame.
L'art. 27, L. 12.11.2011, n. 183 (cd. legge di stabilità), con l'intento di disincentivare le istanze di sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza di primo grado, ha previsto l'irrogazione di una pena pecuniaria non inferiore a 250 euro e non superiore a 10.000 euro per la parte che abbia proposto la relativa istanza, quando questa sia inammissibile o manifestamente infondata.
Il legislatore ha inteso così responsabilizzare la parte soccombente che pretestuosamente richieda la sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, al sol fine di ritardare la soddisfazione in via esecutiva della parte vittoriosa.
Si tratta di una sanzione pecuniaria assimilabile a quella prevista dall'art. 408, soltanto che nel caso previsto dalla norma in esame il legislatore ha omesso di precisare se la sanzione pecuniaria è a favore della Cassa delle Ammende o della controparte.