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Articolo 2230 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 27/03/2024]

Prestazione d'opera intellettuale

Dispositivo dell'art. 2230 Codice Civile

Il contratto che ha per oggetto una prestazione d'opera intellettuale [202] è regolato dalle norme seguenti e, in quanto compatibili con queste e con la natura del rapporto, dalle disposizioni del capo precedente.

Sono salve le disposizioni delle leggi speciali.

Ratio Legis

La prestazione intellettuale, al pari del contratto d'opera manuale, è caratterizzata dal rilievo prevalente della persona del professionista e dalla insostituibilità. La diligenza richiesta è quella cd. qualificata, del buon professionista.

Massime relative all'art. 2230 Codice Civile

Cass. civ. n. 1792/2017

Il rapporto di prestazione d’opera professionale postula il conferimento del relativo incarico in qualsiasi forma idonea a manifestare il consenso delle parti, sicché, quando sia contestata la instaurazione di un siffatto rapporto, grava sull’attore l’onere di dimostrarne l’avvenuto conferimento, anche ricorrendo alla prova per presunzioni, mentre compete al giudice del merito valutare se gli elementi offerti, complessivamente considerati, siano in grado di fornire una valida prova presuntiva; il risultato di tale accertamento, se adeguatamente e coerentemente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità, che è invece ammissibile quando nella motivazione siano stati pretermessi, senza darne ragione, uno o più fattori aventi, per condivisibili massime di esperienza, una oggettiva portata indiziante.

Cass. civ. n. 18450/2014

In tema di attività professionale svolta da avvocati, mentre la procura "ad litem" è un negozio unilaterale col quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio, il contratto di patrocinio è un negozio bilaterale col quale il professionista viene incaricato di svolgere la sua opera secondo lo schema del mandato. Pertanto, come presupposto di riconoscimento del compenso per le prestazioni svolte dal difensore nel giudizio, occorre accertare, anche d'ufficio, il valido conferimento della procura, non potendo l'invalidità di questa essere superata dal contratto di patrocinio, che può riferirsi solo ad un'attività extragiudiziaria svolta dal professionista in favore del cliente sulla base di un rapporto interno di natura extraprocessuale.

Cass. civ. n. 4705/2011

Il mandato professionale per l'espletamento di attività di consulenza e comunque di attività stragiudiziale non deve essere provato necessariamente con la forma scritta, "ad substantiam" ovvero "ad probationem", potendo essere conferito in qualsiasi forma idonea a manifestare il consenso delle parti e potendo il giudice - nella specie in sede di accertamento del relativo credito nel passivo fallimentare - tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza, ammettere l'interessato a provare, anche con testimoni, sia il contratto che il suo contenuto; inoltre, l'inopponibilità, per difetto di data certa ex art. 2704 c.c., non riguarda il negozio, ma la data della scrittura prodotta, pertanto il negozio e la sua stipulazione in data anteriore al fallimento possono essere oggetto di prova, prescindendo dal documento, con tutti gli altri mezzi consentiti dall'ordinamento, salve le limitazioni derivanti dalla natura e dall'oggetto del negozio stesso.

Cass. civ. n. 22233/2004

Nel contratto di prestazione di opera professionale la qualità di cliente può non coincidere con quella del soggetto a favore del quale l'opera del professionista deve essere svolta, di tal che chiunque può, per le più svariate ragioni, dare incarico ad un professionista affinché questi presti la propria opera a favore di un terzo, con la conseguenza che il contratto si conclude tra il committente ed il professionista, il quale resta obbligato verso il primo a compiere la prestazione a favore del terzo, mentre il primo resta obbligato al pagamento del compenso.

Cass. civ. n. 8850/2004

Il mandato professionale può essere conferito anche in forma verbale, dovendo in tal caso la relativa prova risultare, quantomeno in via presuntiva, da idonei indizi plurimi, precisi e concordanti; né, sotto altro profilo, la prova dell'attività asseritamente svolta in esecuzione del medesimo può ritenersi assolta mediante la dichiarazione unilaterale dal professionista resa, ai fini dell'emissione del parere di congruità sull'emessa parcella, al Consiglio dell'Ordine, attesa la mancanza in capo a quest'ultimo di alcun potere di accertamento al riguardo.

Cass. civ. n. 11922/2000

Nell'ipotesi di associazione tra professionisti il mandato rilasciato dal cliente ad uno di essi non può presumersi, atteso il carattere personale e fiduciario del rapporto, con esso instaurato, rilasciato impersonalmente e collettivamente a tutti i professionisti dello studio medesimo.

Cass. civ. n. 7309/2000

Cliente del professionista non è necessariamente il soggetto nel cui interesse viene eseguita la prestazione d'opera intellettuale, ma colui che, stipulando il relativo contratto, ha conferito l'incarico al professionista ed è, conseguentemente, tenuto al pagamento del corrispettivo

Cass. civ. n. 1244/2000

Il rapporto di prestazione d'opera professionale la cui esecuzione sia dedotta dal professionista come titolo del diritto al compenso, postula l'avvenuto conferimento del relativo incarico in qualsiasi forma idonea a manifestare inequivocabilmente la volontà di avvalersi della sua attività e della sua opera da parte del cliente convenuto per il pagamento di detto compenso. Ció comporta che il cliente del professionista non è necessariamente colui nel cui interesse viene eseguita la prestazione d'opera intellettuale, ma colui che stipulando il relativo contratto ha conferito incarico al professionista ed è conseguentemente tenuto al pagamento del corrispettivo. La prova dell'avvenuto conferimento dell'incarico, quando il diritto al compenso sia dal convenuto contestato sotto il profilo della mancata instaurazione di un siffatto rapporto, grava sull'attore.

Cass. civ. n. 2345/1995

Presupposto essenziale ed imprescindibile dell'esistenza di un rapporto di prestazione d'opera professionale, la cui esecuzione sia dedotta dal professionista come titolo del suo diritto al compenso, è l'avvenuto conferimento del relativo incarico, in qualsiasi forma idonea a manifestare, chiaramente ed inequivocabilmente, la volontà di avvalersi della sua attività e della sua opera, da parte del cliente convenuto per il pagamento di detto compenso. La prova dell'avvenuto conferimento dell'incarico, quando il diritto al compenso sia dal convenuto contestato sotto il profilo della mancata instaurazione di un simile rapporto, grava sull'attore e compete al giudice di merito valutare se, nel caso concreto, questa prova possa o meno ritenersi fornita, sottraendosi il risultato del relativo accertamento, se adeguatamente e coerentemente motivato, al sindacato di legittimità.

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Consulenze legali
relative all'articolo 2230 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

Anonimo chiede
giovedì 14/02/2019 - Veneto
“Il mio avvocato mi rappresentava in tre procedimenti civili. Ha disertato tutte le udienze dopo la prima per tutti i procedimenti, pure inviandomi comunicazione email che le cose andavano bene. Infine è divenuto irrintracciabile. Mi sono quindi attivato con altro avvocato scoprendo che, nel frattempo (4 mesi circa), tutte le cause erano andate a sentenza a mio sfavore perché nessuno mi aveva rappresentato, anche facendo decadere i testi e quindi rendendomi impossibile ricorrere in appello. L'avvocato è tuttora iscritto all'albo, ma non ho idea di cosa gli sia successo.
Domanda: come faccio a quantificare il danno patrimoniale, dato che non posso provare che l'esito delle sentenze sarebbe stato a mio favore in caso di corretta opera professionale ? So che si può chiedere parere equitativo al giudice, ma lo stesso non può certo deliberare sulle cause che ho già perso.
Mi sembra troppo comodo essere pagati in acconto per l'attività e poi lasciar perdere tutto senza timore di dover corrispondere nessun risarcimento: nessuno più si rivolgerebbe ad un avvocato, sarebbe assurdo.”
Consulenza legale i 20/02/2019
Nel caso in esame, siamo di fronte ad un’ipotesi di responsabilità c.d. omissiva dell’avvocato, il quale non avrebbe compiuto gli atti processuali necessari per dare impulso all’ulteriore corso del giudizio e per esercitare il diritto di difesa, causando decadenze anche in relazione all’assunzione dei mezzi di prova e di fatto abbandonando ben tre procedimenti civili. Inoltre, il legale sarebbe venuto meno anche ai doveri di informazione nei confronti del cliente, addirittura mentendo circa l’andamento delle pratiche affidategli.
L’interrogativo che il cliente si pone, cioè quello riguardante la necessità, ai fini del risarcimento, di provare che l’esito dei giudizi sarebbe stato a lui favorevole in caso di corretto adempimento del mandato professionale, è sicuramente fondato ma trova una soluzione “confortante” nella giurisprudenza recente della Corte di Cassazione.
Esiste, infatti, un consolidato orientamento giurisprudenziale, ricordato da Cass. Civ., Sez. VI, ord. 27720/2018, secondo cui, in materia di responsabilità civile e nell’accertamento del nesso causale, vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” (a differenza che nel processo penale, in cui vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”).
Tale criterio, prosegue la Corte nella sentenza in esame, va tenuto fermo anche nei casi di responsabilità professionale per condotta omissiva (come nel caso che ci interessa).
In tali casi il giudice, se accerta l’omissione di un’attività invece dovuta in base alle regole della professione praticata, nonché l’esistenza di un danno che probabilmente ne è la conseguenza, può ritenere, in assenza di fattori alternativi, che tale omissione abbia avuto efficacia causale diretta nella determinazione del danno.
In sostanza - afferma la Cassazione - nei casi come quello in esame, l’accertamento del nesso causale si estende con i medesimi criteri probabilistici anche alle conseguenze dannose risarcibili sul piano della causalità giuridica, ossia al mancato vantaggio che, ove l’attività professionale fosse stata svolta con la dovuta diligenza, il cliente avrebbe conseguito.
Ciò comporta che, di tale danno, in queste circostanze, non può richiedersi una prova rigorosa e certa, incompatibile con la natura di un accertamento necessariamente ipotetico, in quanto riferito a un evento non verificatosi, per l’appunto, proprio a causa dell’omissione del professionista.
I medesimi principi si ritrovano, con ulteriori precisazioni, anche in Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 25112/2017, secondo cui però occorre distinguere fra l'omissione di condotte che, se tenute, sarebbero valse ad evitare l'evento dannoso, dall'omissione di condotte che, viceversa, avrebbero prodotto un vantaggio. In entrambi casi possono ricorrere gli estremi per la responsabilità civile, ma nella prima ipotesi l'evento dannoso si è effettivamente verificato, quale conseguenza dell'omissione; nell'altra, il danno (che, se patrimoniale, sarebbe da lucro cessante cioè da mancato guadagno) deve costituire oggetto di un accertamento prognostico (cioè di previsione circa l’esito), dato che il vantaggio patrimoniale che il danneggiato avrebbe tratto dalla condotta altrui, che invece è stata omessa, non si è realmente verificato e non può essere empiricamente accertato.
Nel caso di responsabilità professionale omissiva degli avvocati, ricorre la seconda delle ipotesi innanzi considerate, poiché l'esito del giudizio che si sarebbe dovuto intraprendere (o proseguire, nel nostro caso) e rispetto al quale, invece, il professionista ha lasciato decorrere i termini, non può essere accertato in via diretta, ma solo in via presuntiva e prognostica.
Pertanto, in tema di responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell'attività professionale, quando si tratta di attività del difensore, l'affermazione della responsabilità per colpa implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell'azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata.
Quanto alla circostanza dell’avvenuta corresponsione di acconti, occorre evidenziare che un comportamento quale quello descritto nel quesito costituisce senz’altro inadempimento “di non scarsa importanza” degli obblighi contrattualmente assunti dal professionista ai sensi e per gli effetti dell’art. 1455 del c.c., con la conseguenza che il cliente potrà domandare la risoluzione del contratto d'opera ex art. 1453 del c.c. e, contestualmente, sia il risarcimento del danno subito (nei limiti e con le precisazioni di cui sopra), sia la restituzione degli acconti già percepiti dal legale.
In proposito la recente Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 6347/2014 ha ricordato che la totale inesecuzione della prestazione professionale rende il pagamento dell’acconto privo di una valida causa giustificatrice, e quindi indebito.
Il consiglio, pertanto, è quello di rivolgersi ad altro legale (cosa che peraltro il cliente sembra aver già fatto), allo scopo di esaminare le iniziative da assumere in concreto nei confronti dell’avvocato inadempiente. In proposito appare opportuna, anzi quasi doverosa, la presentazione di un esposto al Consiglio dell’Ordine di appartenenza per l’adozione di sanzioni disciplinari, dal momento che una condotta quale quella descritta costituisce sicuramente, oltre che un illecito civilistico, anche una violazione dei doveri imposti dal Codice Deontologico Forense.

FEDERICO D. chiede
martedì 24/07/2018 - Campania
“PAGAMENTO ONORARIO AD AVVOCATO
Un avvocato mi ha patrocinato in una causa civile depositando la COMPARSA CONCLUSIONALE l’ 11/03/14; nella SENTENZA dell’ 11/09/14 la parte soccombente viene condannata al pagamento a favore del sottoscritto delle spese di lite liquidate in € XXXX.
Con PEC del 27/12/17 l’avvocato mi chiede il pagamento di detta somma, a cui non rispondo avendo notato vari e gravi inadempimenti nella condotta della causa che mi riservo di precisare.
Il 23/05/18 l’avvocato mi notifica ricorso giudiziario per il pagamento della somma maggiorata più del doppio.
Le mie richieste sono:
1) sono io tenuto a pagare le somme imputate alla parte soccombente senza che l’avvocato dimostri di averle inutilmente richieste alla medesima;
2) è intervenuta la prescrizione di tre anni dalla sentenza e/o dall’ultima prestazione fatta (comparsa conclusionale) ?
3) può l’avvocato esibire in giudizio ulteriori ed eventuali altre richieste di pagamento fatte in date antecedente a quella citata nel ricorso ?
4) è giustificata la maggiorazione abnorme della somma da Lui precedentemente richiesta ?
Chiedo inoltre se il Vs studio può patrocinare il sottoscritto e con quali modalità.
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In attesa di risposta, porgo distinti ossequi.

Consulenza legale i 01/08/2018
Il rapporto tra avvocato e cliente trova la sua disciplina normativa nel contratto di opera intellettuale previsto dagli artt. 2230 e ss. del codice civile.
Oggetto del contratto è la prestazione di un’opera intellettuale che viene dal cliente commissionata al professionista, nel caso di specie l’avvocato.
Il rapporto si instaura tra il cliente e l’avvocato motivo per cui, se la parte soccombente non paga le spese legali dell’avvocato della parte vittoriosa, quest’ultima è tenuta comunque a pagare il suo legale.
La somma che la controparte viene condannata a rimborsare non ha alcuna rilevanza nei rapporti interni con il suo legale, che può anche chiedere una somma maggiore dell’importo liquidato dal giudice.
Pertanto, nel caso di specie, Lei sarà tenuta a pagare il Suo avvocato e poi cercare di recuperare l’importo dalla controparte.
Il Suo avvocato non è tenuto ad agire dapprima nei confronti della controparte per ottenere il pagamento della parcella, potendo ben chiedere direttamente a Lei il pagamento del compenso.
È stata, difatti, Lei ad incaricare l’avvocato per la difesa dei proprio diritti.

In merito alla prescrizione del compenso, gli avvocati hanno un tempo piuttosto ristretto per poter chiedere il pagamento della parcella al loro cliente.
Tale termine è di 3 anni. Scaduto tale periodo, il cliente potrà rifiutarsi di pagare l’onorario al professionista.
Anche quando il professionista abbia ottenuto un decreto ingiuntivo, il cliente potrà opporsi eccependo la prescrizione e, quindi, non dover pagare alcunché. Si parla al riguardo di prescrizione presuntiva ai sensi dell’art. 2956 c.c.
La prescrizione presuntiva è un istituto in forza del quale determinati diritti si presumono prescritti una volta che sia decorso un determinato arco temporale. La prescrizione presuntiva non opera quando il credito trae origine da un contratto stipulato in forma scritta (Cass.n. 763 del 2017).
Per la prescrizione del compenso dell’avvocato, il termine decorre dalla decisione della lite con sentenza passata in giudicato, dalla conciliazione delle parti o dalla revoca del mandato; per gli affari non terminati, la prescrizione decorre dall’ultima prestazione.
Nel caso in esame la prescrizione decorre dal passaggio in giudicato della sentenza.
Una sentenza passa in giudicato se non viene impugnata nei termini stabiliti dalla legge. I termini possono essere brevi, ossia di 30 giorni e decorrono dalla notifica della sentenza, ovvero lunghi, cioè di 6 mesi che decorrono , in mancanza di notifica, dalla pubblicazione della sentenza.
Alla luce di quanto detto, non essendo specificato nel quesito se la sentenza sia stata notificata e/o impugnata, non possiamo stabilire se sia o meno decorso il termine di 3 anni.

Quanto alla domanda se l’avvocato può chiedere una somma maggiore, la risposta è affermativa. L’avvocato può chiedere un compenso maggiore rispetto a quello liquidato dal giudice per le attività svolte. Ovviamente dovrà documentare le attività a giustificazione del maggior importo richiesto.

Infine, se Lei ritiene che la somma maggiorata sia sproporzionata, dovrà impugnare la parcella mediante opposizione al decreto ingiuntivo notificato. Riteniamo, tuttavia, che l’opposizione non possa essere più proposta essendo decorso il termine di 40 giorni dalla notifica del decreto ingiuntivo. La notifica è avvenuta, difatti, il 23 maggio 2018 e, pertanto, l’opposizione andava proposta entro il 2 luglio 2018.
Potrà eventualmente far valere eventuali profili di responsabilità dell’avvocato nello svolgimento dell’incarico (se ovviamente vi è prova che lo stesso non abbia eseguito correttamente l’incarico a lui affidato) in quanto i termini dell’azione sono di 10 anni.


Sergio D. G. chiede
domenica 01/04/2018 - Toscana
“La Cassazione con sentenza 18 febbraio 2016, n. 3176 ha stabilito che il Professionista risponde per i danni causati al proprio cliente per 10 anni dal verificarsi dell'evento dannoso. Essendo io cliente effettivo per la prestazione di un legale di cui ho pagato tutte le spese, ho fornito tutta la documentazione inequivocabile, ho fatto le relazioni trattandosi di materia bancaria (sono ex dirigente bancario), tutti gli esposti in Banca d'Italia, etc, ma l'avvocato, per la mia posizione di allora mi fece intestare la pratica alla allora convivente, che si è poi appropriata indebitamente della pratica con la complicità dell'avvocato, che aveva attestato anche in una mail, al primo presentarsi di problemi che avrebbe testimoniato a mio favore in ogni sede. Chiaramente senza la mia presenza la pratica non ha avuto riscontri positivi, essendo l'unico a conoscenza dei fatti e l'avvocato si muoveva solo dietro mie dettagliatissime relazioni (io allora pagai anche per la iscrizione di ipoteca giudiziale). Questo il sommo riassunto (ho tante altre prove oggettive). Volevo sapere se, essendo io il titolare effettivo dimostrabile in ogni sede, la prescrizione decennale vale anche nei miei confronti in modo che possa esercitare l'azione per danni contro l'avvocato.”
Consulenza legale i 17/04/2018
Va premesso che le scarne indicazioni contenute sia nel quesito che nei chiarimenti consentono di fornire una risposta in termini generali, che non può tener conto delle caratteristiche del caso concreto perché queste ultime non sono state sufficientemente esplicitate.
Il rapporto tra cliente e avvocato deve essere inquadrato nell’ambito del contratto d'opera intellettuale, disciplinato dagli artt. 2230 ss. c.c.
La responsabilità del professionista intellettuale rientra pacificamente nella responsabilità contrattuale di cui all’art. 1218 del c.c.
La relativa azione, pertanto, si prescrive nell’ordinario termine decennale stabilito dall’art. 2946 del c.c.
È opportuno ricordare anche che l’obbligazione del professionista intellettuale è considerata un’obbligazione di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo.
Ciò significa che l'avvocato può ritenersi inadempiente non per il mancato raggiungimento del risultato auspicato dal cliente, ma solo per la violazione dei doveri inerenti allo svolgimento dell'attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza (tra le tante Cass. Civ. 2954/2016).
Legittimato ad agire nei confronti del professionista per far valere i diritti derivanti dal contratto (compreso il diritto al risarcimento) è il soggetto che ha sottoscritto il mandato all'avvocato; soggetto che normalmente, salvo casi particolari, coincide col titolare della situazione giuridica da tutelare in via giudiziale o stragiudiziale. Solo nei suoi confronti sarà applicabile il termine di prescrizione ordinario decennale, essendo relativo a responsabilità contrattuale.
Gli elementi forniti in questo caso non consentono di stabilire se sia eventualmente configurabile, nei confronti di chi pone il quesito, una responsabilità extracontrattuale (che sarebbe comunque soggetta a prescrizione quinquennale ex art. 2947 del c.c.).

Daniele G. chiede
venerdì 28/10/2016 - Veneto
“Gent.mi Sig.ri, vi espongo il fatto:
sono un ingegnere e vengo incaricato verbalmente da un committente di eseguire una progettazione a stralci, ho inviato le relative parcelle dal 2008 al 2011 e sulle stesse ho emesso le fatture.
Non vi è mai stata alcuna contestazione nè sulle parcelle nè sulle fatture.
Il cliente non mi paga il saldo, inizia il contenzioso, dove io chiedo la sola somma portata dal decreto ingiuntivo (il saldo) e l'avvocato di controparte ha svolto domanda riconvenzionale volta ad ottenere la restituzione di una parte degli importi già versati al sottoscritto. Viene disposta la consulenza tecnica d'ufficio volta ad accertare l'attività svolta e la congruità degli importi richiesti al fine di verificare se siano dovuti ancora ulteriori importi o se invece sia io a restituire al committente importi già versati.
Ora vi chiedo: le parcelle e le fatture (mai contestate) non suggellano dei saldi parziali delle attività realmente svolte e accettate dalla committente relative al periodo che va dal 2008 al 2011 ?
Di fondamentale importanza è il rapporto avuto con la committente, mai contestato, le fatture emesse dallo Studio costituiscono valido elemento di prova in ordine alle prestazioni eseguite, specie nell’ipotesi reale in cui la mia committente ha accettato, senza muovere alcuna contestazione, le fatture stesse nell’esecuzione del rapporto ?
Domanda: dal punto di vista legale è corretta la mia interpretazione?Vi sono degli articoli del Codice Civile che ci vengono incontro e avvalorano la mia tesi ?
Rimango in attesa di un vostro riscontro.
Distinti saluti.”
Consulenza legale i 08/11/2016
La fattispecie giuridica che viene in esame nel caso di specie è quella del contratto di prestazione d’opera professionale intellettuale.
Le norme relative a tale contratto sono contenute libro V, Titolo III, Capo II del codice civile, dall’art. 2229 all’articolo 2238, subito dopo la disciplina del contratto d’opera.
L’art. 2230 c.c., rubricato “prestazione d’opera intellettuale” recita testualmente che “Il contratto che ha per oggetto una prestazione di opera intellettuale è regolato dalle norme seguenti e, in quanto compatibili con queste e con la natura del rapporto, dalle disposizioni del capo precedente”.
Vi è dunque un intreccio di disciplina tra tale norma e la disciplina residuale dettata per il contratto d’opera in genere, simile a sua volta a quella dettata per il contratto di appalto.

Presupposto essenziale ed imprescindibile per l’esistenza di un rapporto di prestazione d’opera professionale, la cui esecuzione sia dedotta dal professionista come titolo del suo diritto al compenso, è l’avvenuto conferimento del relativo incarico in qualsiasi forma idonea a manifestare inequivocabilmente la volontà di avvalersi della sua attività e della sua opera da parte del cliente convenuto per il pagamento del compenso (così Cass. 3016/2006, Cass. 1244/2000).

Trattandosi di un contratto, requisito necessario per il suo perfezionamento è la sussistenza di uno scambio di consensi, costituito dalla proposta contrattuale (in genere rappresentata dal conferimento dell’incarico) nonché dall’accettazione (in genere espressa per fatti concludenti) del professionista, che esegue la prestazione richiesta.

Secondo la Cass. sopra citata n. 1244/2000, la prova dell’avvenuto conferimento dell’incarico, quando il diritto al compenso sia contestato dal punto di vista della mancata instaurazione di un rapporto contrattuale, dovrà essere fornita dall’attore/professionista, il quale avrà l’onere di dimostrare l’an del credito vantato e l’entità delle prestazioni eseguite al fine di consentire la determinazione quantitativa del compenso; a tal fine, precisa la S.C., non ci si potrà giovare della parcella da lui stesso unilateralmente predisposta, essendo questa priva, in sede di ordinario giudizio di cognizione, di rilevanza probatoria (così Cass. 5321/2003, Cass. 3024/2002,Cass. 635/2000, Cass. 3627/99, Cass. 2176/97).

Pertanto, al fine di evitare inconvenienti di tal sorta, seppure non risulti obbligatoria per legge la sottoscrizione di un accordo scritto tra professionista e committente, il rispetto della forma scritta sarà comunque consigliabile in tutte le fattispecie di incarico professionale.
Pare opportuno ricordare a tal proposito che il decreto “liberalizzazioni” (D.l. n. 1/12 convertito nella Legge 27/2012, successivo dunque al rapporto intercorso tra le parti) introduce l’obbligo per ogni professionista di pattuire il compenso al momento dell’incarico, rendendo noto al committente il grado di complessità dell’incarico, gli oneri ipotizzabili fino alla sua conclusione nonché il compenso pattuito, con specifica indicazione di tutte le prestazioni svolte e le relative voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi.

Va altresì evidenziato che in caso di contenzioso il DM n. 140/2012 del 20 luglio 2012, nel definire i parametri con i quali i giudici valuteranno le controversie professionali, stabilisce anche che venga data una “valutazione negativa” all’assenza di un contratto tra le parti.
Ciò posto, considerato tuttavia che la normativa appena citata è successiva al rapporto in esame, e seppure secondo la predetta giurisprudenza la parcella unilateralmente predisposta è da ritenere priva, in sede di ordinario giudizio di cognizione, di rilevanza probatoria, si ritiene che sussistano comunque tutti gli elementi per potersi dire che il contratto nel caso di specie si sia concluso per facta concludentia, fattispecie negoziale prevista e disciplinata dall’art. 1327 c.c. e che ricorre nell’ipotesi in cui il consenso venga manifestato attraverso comportamenti inequivocabilmente diretti ad accettare una determinata proposta.

L'art. 1327 c.c., in proposito, stabilisce che “qualora, su richiesta del proponente o per la natura dell'affare o secondo gli usi, la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta, il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l'esecuzione”.
Per comprendere meglio in quali situazioni possa rendersi conveniente un simile schema negoziale, si pensi all'appaltatore che, di fatto, inizia a compiere le opere commissionate, assecondando tutte le richieste del committente/proponente (si ricordi che, come detto prima, al contratto di appalto è per certi versi assimilabile il contratto di prestazione d’opera intellettuale).

In ogni caso non essendo concepibile, neppure in presenza di un accordo tra le parti, una equiparazione tra esecuzione e dichiarazione, l’art. 1327 c.c. sarà applicabile solo in caso di contratti che non richiedono la forma scritta ad substantiam (quale è il contratto in esame per essere intercorso tra le parti in data anteriore al decreto “liberalizzazioni”).
In dottrina è stato osservato che i contratti che di regola si concludono mediante l’inizio dell’esecuzione sono quelli che presuppongono un ordine, un incarico o una autorizzazione; infatti, occorre che l’inizio dell’esecuzione abbia una rilevanza esterna e quindi un significato concludente, nel senso di dare luogo ad un comportamento non equivoco.

Tutti questi elementi si ritiene che ricorrano nel caso di specie, dovendosi attribuire alla progettazione svolta rilevanza esterna e non essendovi stata alcuna contestazione sulle parcelle e sulle fatture nel corso del tempo emesse, il che lascia presumere una tacita accettazione del corrispettivo richiesto per la prestazione professionale resa in esecuzione del contratto così concluso.

In ogni caso, nella determinazione del compenso particolare rilevanza si ritiene possa assumere per la soluzione del caso la norma di cui all’art. 2233 c.c., rubricato “Compenso”, norma la quale dispone che “il compenso, se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene”.

Pertanto, sarebbe stato opportuno, in sede di ricorso per ingiunzione di pagamento, richiedere alla propria associazione professionale di vistare le parcelle sulla cui base emettere il decreto ex art. 633 n. 3 cpc., fine a cui si ritiene possa egualmente giungersi a seguito della espletata CTU.

Anonimo chiede
venerdì 07/10/2016 - Sardegna
“Spett.le studio legale,
vi scrivo per un consiglio, ma in realtà so già il da farsi, ma ho visto che voi date delle info accurate e precise anche con i riferimenti giurisprudenziali e vi pongo il quesito: com'è meglio agire? Il fatto: Nel marzo 2011, vedendo trascorsi ben 18 anni, per una causa civile che come attore mi ha visto citare in giudizio la cooperativa per la restituzione delle mie quote di costruzione. Una cooperativa dalla quale ero uscito nel 1991, citandola in giudizio nel 92 visto che non restituiva quello che mi era dovuto. Ho incaricato l'avvocato F. di presentare la domanda di risarcimento per i danni da ritardo per la legge Pinto. Ci siamo accordati per un acconto spese di 320 0 340 euro (non ricordo meglio al momento) e quello che avrebbe liquidato il giudice per le spese legali. Non c'era dubbio possibile per l'accoglimento. I ritardi erano dovuti a cause che non potevano essermi addebitate in alcun modo. La dr.ssa F. ha ricevuto da me tutto il materiale necessario e certificazioni varie e ha predisposto un buon testo per il ricorso in corte d'appello a Roma, valutando, secondo i parametri della CEDU, 36.000 euro il danno per i 18 anni di ritardo del procedimento. Mi disse di averlo presentato attraverso un suo corrispondente a Roma e non ci pensai più. Avevo presentato poco prima un altro ricorso, sempre per il ritardo di una causa civile, appena 4 anni, con un altro avvocato. Ogni tanto chiedevo all'avvocato notizie del ricorso e mi diceva per email che non era ancora andato in camera di consiglio per la prima udienza. Nel 2014, il procedimento affidato ad altro avvocato andò in camera di consiglio e chiesi notizie all'avv. F. che avrebbe chiesto al suo corrispondente a Roma. Dopo qualche giorno seppi per email che era andato in camera di consiglio per il 14 ottobre 2014. In seguito a nuova richiesta info mi disse che era stato rinviato al 15 Giugno 2015. Ebbi altri impegni e non ci pensai più, comunque certo che se ci fossero state novità me le avrebbe comunicate. Nell'estate 2016, era luglio, il primo avvocato mi informò che dovevo mandare i miei dati alla banca d'Italia perché il 6 novembre 2015 era stata accolta quella domanda e volevano l'iban per il bonifico che entro sei mesi avrebbero risarcito il danno. Cercai di contattare anche l'avvocato F., ma non riuscivo a trovarla al telefono e non rispondeva alle mie email. Infine mi telefonò lei, dopo circa un mese e mezzo dalle mie insistenti telefonate ed email. Mi disse che il mio ricorso era stato accolto, ma non aveva la sentenza da darmi perché il suo corrispondente a Roma non gliel'aveva mandato e non aveva ricevuto nemmeno il numero di RG per poter fare una ricerca io stesso. Doveva contattare la sua corrispondente che non si trovò perché, nel frattempo, mi disse l'avv. F., aveva lasciato la libera professione per un impiego fisso. Mi assicurò che stava cercando con una collega di studio della sua corrispondente di capire che fine avesse fatto la mia pratica di ricorso. Sinceramente preoccupato chiesi attraverso l'email alla cancelleria della corte d'appello sezione equa riparazione di Roma, se potesse aiutarmi a trovare il procedimento smarrito, anche se non ho i numeri di RG. Dopo circa tre giorni ebbi la risposta per email. La cancelliera mi comunicava che a mio nome c'era un ricorso avente numero di RG che è quello corrispondente al ricorso del quale sono in attesa di liquidazione della banca d'Italia. Non ne risultavano altri. Nominai un avvocato a Roma che andasse per me in corte d'appello a cercare meglio. Dopo qualche giorno anche questo confermò che c'è un solo ricorso a mio nome, quello che mi stanno liquidando. Ho fatto presente questi risultati all'avv. F. la quale mi ha prima detto che sta concludendo le sue ricerche con i corrispondenti da Roma e dopo qualche giorno l'ammissione che ormai era ovvia. Non era stato presentato il mio ricorso. La corrispondente l'aveva lasciato in studio e credeva di averlo presentato. Le notizie che mi fava sulla situazione del ricorso, erano un errore, la corrispondente gli dava notizie di un altro ricorso, non mio, e le me le passava a me. Il mio ricorso non è mai stato in camera di consiglio ne il 14 ottobre 14 e ne il 15 giugno 2015. La dr.ssa F. si è mostrata dispiaciuta con la sua email e mi ha consolato dicendo che però non ho perso nulla, perché la causa è ancora pendente e potrò ripresentare il ricorso, il fascicolo gliel'hanno restituito ed è a mia disposizione. Ho replicato che non è così. Io ho perso 5 anni di inutile attesa per ritrovarmi con un pugno di mosche in mano! Mentre potevo avere 36 mila euro o forse più, perché il procedimento è un esempio di malagiustizia e di mancata valutazione delle prove. Inoltre, le nuove norme per i ricorsi Pinto sono ancora più difficoltosi e costosi proprio per scongiurare i troppi ricorsi per i ritardi. Adesso bisogna consegnare in copia autentica tutto il fascicolo con delle spese enormi e considerano gli anni necessari chi lo presenta un nuovo ricorso? Ho consigliato all'avv. F. di chiudere l'increscioso incidente con una constatazione amichevole, come si fa negli incidenti automobilistici presentando assieme la richiesta alla sua assicurazione che copre fino a 500.000 euro di danni. Le ho detto di rifletterci serenamente e di farmi sapere. In caso contrario avrei nominato un avvocato per contattare la sua assicurazione e procedere con la citazione in giudizio se non si offriranno di risarcire i miei danni anche morali per tutto questo comportamento. Questo è ciò che credo che dovrò fare, voi cosa consigliate? Grazie.”
Consulenza legale i 13/10/2016
Il legale che non ha depositato il ricorso si è reso sicuramente responsabile sotto diversi profili.

In primo luogo sotto il profilo deontologico, perché ha violato le norme che regolano il rapporto tra il professionista ed il cliente, che è rapporto fiduciario, oltre che i principi generali della deontologia, quali lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza. Ciò legittimerebbe quindi il cliente leso a presentare un esposto al Consiglio dell’Ordine di appartenenza dell’avvocato in questione, ai fini della comminazione a quest’ultimo di un’eventuale sanzione disciplinare.

Evidentemente, però, questa strada non consente di ottenere soddisfazione in via risarcitoria, risolvendosi – come detto – semplicemente nella comminazione di una sanzione disciplinare a carico del legale riconosciuto responsabile.
Ai fini del risarcimento del danno subito, invece, il cliente potrà e dovrà intentare un’azione civile di responsabilità per negligenza professionale davanti al Tribunale competente con onere di procedere prima del giudizio con un tentativo di soluzione stragiudiziale della controversia attraverso l’istituto della negoziazione assistita (quest’ultima, infatti, è prodromica al giudizio nelle cause aventi ad oggetto la domanda di pagamento di somme di denaro non eccedenti gli € 50.000,00 a qualsiasi titolo).

Bene ha fatto il danneggiato, perché trattasi di soluzione ragionevole dal punto di vista del risparmio di tempi e costi, a proporre l’intervento dell’assicuratore per la r.c. professionale del legale (che peraltro quest’ultimo avrebbe dovuto attivare, ad avviso di chi scrive, immediatamente), assicuratore che, comunque, dovrebbe essere chiamato in causa dal legale responsabile anche nel caso di contenzioso giudiziale.

Per quanto riguarda la possibilità di agire ancora, allo stato attuale delle cose, per ottenere un risarcimento ai sensi della legge Pinto, va detto che – purtroppo – l’art. 4 della medesima recita: “La domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva”.
Vi è stato un nutrito dibattito, nel tempo, sulla possibilità di agire in via risarcitoria (secondo l’ordinario termine di prescrizione decennale, trattandosi in realtà di indennità e non di vero e proprio risarcimento) già in corso di giudizio; ma nel caso concreto al nostro esame, il giudizio da cui origina la domanda ai sensi della legge Pinto si è da tempo concluso ed è venuta, quindi, meno ogni possibilità di ripresentare ricorso.

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