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Articolo 3 Legge sul divorzio

(L. 1 dicembre 1970, n. 898)

[Aggiornato al 28/02/2023]

Dispositivo dell'art. 3 Legge sul divorzio

Lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può essere domandato da uno dei coniugi:

  1. 1) quando, dopo la celebrazione del matrimonio, l'altro coniuge è stato condannato, con sentenza passata in giudicato, anche per fatti commessi in precedenza:
  2. a) all'ergastolo ovvero ad una pena superiore ad anni quindici, anche con più sentenze, per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici e quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale;
  3. b) a qualsiasi pena detentiva per il delitto di cui all'articolo 564 del codice penale e per uno dei delitti di cui agli articoli 519, 521, 523 e 524 del codice penale, ovvero per induzione, costrizione, sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione;
  4. c) a qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio ovvero per tentato omicidio a danno del coniuge o di un figlio;
  5. d) a qualsiasi pena detentiva, con due o più condanne, per i delitti di cui all'articolo 582, quando ricorra la circostanza aggravante di cui al secondo comma dell'articolo 583, e agli articoli 570, 572 e 643 del codice penale, in danno del coniuge o di un figlio.

Nelle ipotesi previste alla lettera d) il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio accerta, anche in considerazione del comportamento successivo del convenuto, la di lui inidoneità a mantenere o ricostituire la convivenza familiare. Per tutte le ipotesi previste nel numero 1) del presente articolo la domanda non è proponibile dal coniuge che sia stato condannato per concorso nel reato ovvero quando la convivenza coniugale è ripresa;

  1. 2) nei casi in cui:
  2. a) l'altro coniuge è stato assolto per vizio totale di mente da uno dei delitti previsti nelle lettere b) e c) del numero 1) del presente articolo, quando il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio accerta l'inidoneità del convenuto a mantenere o ricostituire la convivenza familiare;
  3. b) è stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, ovvero è stata omologata la separazione consensuale ovvero è intervenuta separazione di fatto quando la separazione di fatto stessa è iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970.

In tutti i predetti casi, per la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno dodici mesi dall'avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale, ovvero dalla data certificata nell'accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato ovvero dalla data dell'atto contenente l'accordo di separazione concluso innanzi all'ufficiale dello stato civile. L'eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta; nella separazione di fatto iniziatasi ai sensi del comma precedente, i cinque anni decorrono dalla cessazione effettiva della convivenza(1).

  1. c) il procedimento penale promosso per i delitti previsti dalle lettere b) e c) del numero 1) del presente articolo si è concluso con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, quando il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ritiene che nei fatti commessi sussistano gli elementi costitutivi e le condizioni di punibilità dei delitti stessi;
  2. d) il procedimento penale per incesto si è concluso con sentenza di proscioglimento o di assoluzione che dichiari non punibile il fatto per mancanza di pubblico scandalo;
  3. e) l'altro coniuge, cittadino straniero, ha ottenuto all'estero l'annullamento o lo scioglimento del matrimonio o ha contratto all'estero nuovo matrimonio;
  4. f) il matrimonio non è stato consumato;
  5. g) è passata in giudicato sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso a norma della legge 14 aprile 1982, n. 164.

Note

(1) Questa parte dell'art. 3, comma 1, n. 2) è stata modificata dal D. Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (c.d. riforma Cartabia), il quale ha altresì disposto (con l'art. 35, comma 1, come modificato dalla L. 29 dicembre 2022, n. 197) che "Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti".

Massime relative all'art. 3 Legge sul divorzio

Cass. civ. n. 26365/2011

Nel giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio, è necessario il ministero di un difensore ai sensi dell'art. 82, terzo comma, c.p.c., trattandosi di procedura camerale che risolve una controversia su diritti soggettivi e di natura contenziosa, anziché volontaria, definita con provvedimento suscettibile di passare in giudicato. (Nella specie la S.C. ha confermato la decisione della corte di merito che aveva dichiarato la nullità della sentenza di primo grado nel rilievo che il ricorso con cui i coniugi avevano chiesto la cessazione degli effetti civili del matrimonio era stato sottoscritto dalle parti personalmente).

Cass. civ. n. 11061/2011

Il ricorso introduttivo del giudizio volto allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio deve contenere il "petitum" richiesto al giudice, con la conseguenza che, quando esso contenga unicamente la domanda di riduzione dell'assegno di mantenimento, la successiva richiesta di eliminazione dell'obbligo di corrispondere l'assegno medesimo, formulata per la prima volta nelle conclusioni finali del giudizio di primo grado e senza che la controparte abbia accettato il contraddittorio, soggiace alla sanzione dell'inammissibilità, trattandosi di domanda nuova.

Cass. civ. n. 23510/2010

Nei giudizi di divorzio, l'art. 3, secondo comma, lett. b), della legge 1 dicembre 1970 espressamente stabilisce che l'eccezione di sopravvenuta riconciliazione deve essere proposta ad istanza di parte; pertanto, il giudice non può rilevarla d'ufficio, non investendo profili d'ordine pubblico, ma aspetti strettamente attinenti ai rapporti tra i coniugi, in ordine ai quali è onere della parte convenuta eccepire e conseguentemente provare l'avvenuta riconciliazione. (Nella fattispecie la ricorrente, contumace in primo grado, aveva per la prima volta proposto l'eccezione di riconciliazione in fase di appello con conseguente e confermata declaratoria d'inammissibilità da parte del giudice di secondo grado).

Cass. civ. n. 22346/2004

Nella disciplina della cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con il rito religioso, lo stato di separazione dei coniugi concreta un requisito dell'azione, necessario secondo la previsione dell'art. 3, n. 2, lett. b) della legge n. 898 del 1970, la cui interruzione deve essere eccepita dalla parte convenuta. (In applicazione di tale principio, la Corte di cassazione ha confermato la sentenza del merito che aveva negato l'effetto interruttivo della separazione alla riunione dei coniugi ritenendo non provata l'eccezione della convenuta).

Cass. civ. n. 9884/2001

La pendenza davanti ad un giudice francese della causa di divorzio fra cittadini italiani non esclude la giurisdizione italiana sulla causa di separazione personale fra i medesimi coniugi, atteso che tra le due cause non ricorrono i requisiti della identità di petitum e di causa petendi che costituiscono, insieme con l'identità dei soggetti, presupposti indispensabili perché possa applicarsi la disciplina della litispendenza di cui all'art. 7 della legge 31 maggio 1995, n. 218.

Cass. civ. n. 1227/2000

Nella disciplina della cessazione degli effetti civili del matrimonio, il pregresso stato di separazione tra i coniugi (concretante un vero e proprio requisito dell'azione, ex art. 3, n. 2 della L. n. 898 del 1970) può legittimamente dirsi interrotto nel caso in cui si sia concretamente e durevolmente ricostituito il preesistente nucleo familiare nell'insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali sì da ridar vita al pregresso vincolo coniugale, e non anche quando il riavvicinamento dei coniugi, pur con la ripresa della convivenza e dei rapporti sessuali, rivesta caratteri di temporaneità ed occasionalità (principio affermato dalla S.C. con riferimento ad una vicenda di riavvicinamento coniugale concretatosi nel semplice ripristino della convivenza per un limitato periodo di tempo in conseguenza dello stato di detenzione domiciliare del marito).

Cass. civ. n. 416/2000

Per promuovere il giudizio di divorzio è sufficiente — ai sensi dell'articolo 3, n. 2, lett. b), della L. n. 898 del 1970 — che sia divenuta definitiva la pronuncia di separazione, essendo irrilevante che la sentenza stessa sia stata impugnata nel solo capo relativo ai provvedimenti consequenziali (nella specie, era stato impugnato il solo capo concernente l'assegnazione della casa coniugale).

Cass. civ. n. 4462/1999

Le disposizioni della L. n. 898 del 1970 sui casi di scioglimento del matrimonio spiegano i propri effetti anche in relazione ai matrimoni precedentemente celebrati, anche se concordatari, in qualunque tempo contratti, in applicazione del principio della immediata operatività dello ius superveniens sui rapporti non esauriti, senza che ciò importi l'efficacia retroattiva di tale normativa, essendo questa destinata soltanto a regolare gli effetti del rapporto matrimoniale in corso senza incidere sul fatto generatore di esso.

Cass. civ. n. 9442/1998

Ai sensi dell'art. 3, n. 2, lett. f) della L. n. 898 del 1970, la non consumazione del matrimonio non incide, di per sé, sull'esistenza e sulla validità giuridica del matrimonio, come atto e come rapporto, ma è causa di scioglimento del matrimonio civile o di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario. Da ciò consegue che essa non tocca — di per sé — la validità e idoneità del matrimonio a produrre effetti sino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, né incide sull'applicazione della normativa relativa all'assegno di divorzio.

Cass. civ. n. 6031/1998

La dichiarazione di divorzio non consegue automaticamente alla constatazione della presenza di una delle cause previste dall'art. 3 della L. 898 del 1970 (oggi dagli artt. 1 e 7 della L. n. 74 del 1987), ma presuppone, in ogni caso, attesi i riflessi pubblicistici riconosciuti dall'ordinamento all'istituto familiare, l'accertamento, da parte del giudice, della esistenza (dell'essenziale condizione) della concreta impossibilità di mantenere o ricostituire il consorzio familiare per effetto della definitività della rottura dell'unione spirituale e materiale tra i coniugi (accertamento di ampiezza ed approfondimento diversi, secondo le circostanze emergenti dagli atti e le deduzioni svolte in concerto dalle parti). L'asserito venir meno dello stato di separazione, opposto da uno dei coniugi in presenza di una richiesta di divorzio avanzata dall'altro coniuge, ha, pertanto, come suo indefettibile presupposto, l'avvenuta riconciliazione (ossia la ricostituzione del nucleo familiare nell'insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali), e va accertato attribuendo rilievo preminente alla concretezza degli atti, dei gesti e dei comportamenti posti in essere dai coniugi — valutati nella loro effettiva capacità dimostrativa della disponibilità alla ricostruzione del rapporto matrimoniale — piuttosto che con riferimento al mero elemento psicologico, tanto più difficile da provare in quanto appartenente alla sfera intima dei sentimenti e della spiritualità soggettiva. (Nella specie, il giudice di merito aveva ritenuto la inesistenza di una insanabile frattura del vincolo coniugale per il solo fatto che il marito, pur vivendo in un'altra città e con un'altra donna, tornasse in famiglia nei soli fine settimana, provvedendo, in tali occasioni, con la moglie, al menage domestico ed all'educazione dei figli: la S.C., nell'affermare il principio di diritto di cui in massima, ha cassato la sentenza impugnata).

Cass. civ. n. 1819/1997

Il termine triennale di ininterrotta separazione fissato, dall'art. 3, n. 2, lett. b) della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (così come modificato dall'art. 4 della legge 6 marzo 1987, n. 74), per la proponibilità della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, deve essere già decorso all'atto del deposito del ricorso introduttivo del giudizio in cancelleria, il quale segna il momento in cui la domanda deve ritenersi proposta. Del resto, quando il legislatore ha inteso ricondurre la produzione di determinati effetti giuridici, non alla mera proposizione della domanda giudiziale, ma alla conoscenza che di essa abbia avuto la parte convenuta in giudizio, lo ha espressamente specificato.

Cass. civ. n. 8457/1996

In tema di divorzio, la condanna all'ergastolo o alla reclusione superiore a quindici anni, anche con più sentenze, per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici e quelli commessi per motivi di particolare valore morale o sociale, legittima di per sé l'altro coniuge a proporre ricorso per lo scioglimento del matrimonio, ai sensi dell'art. 3, comma primo, n. 1, lett. a), della L. 1 dicembre 1970, n. 898, mentre restano prive di effetto le modifiche della pena su cui si è formato il giudicato, che possano intervenire come conseguenza di provvedimenti di clemenza di qualsiasi natura, atteso che la ragione della norma è costituita dal disvalore morale e sociale riversato sul coniuge da quel tipo di condanna, che rende il vincolo matrimoniale, presumibilmente, non tollerabile.

Ai fini della proponibilità della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nel caso di cui all'art. 3, comma primo, n. 1, lett. a) della L. 1 dicembre 1970, n. 898 (condanna dell'altro coniuge, con sentenza passata in giudicato, all'ergastolo ovvero ad una pena superiore ad anni quindici, anche con più sentenze, per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici e quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale), l'accertamento della sussistenza dei motivi di particolare valore morale e sociale è rimesso al giudice penale e non spetta, quindi, al giudice del divorzio, il quale non può riconsiderare la condotta dell'imputato condannato con sentenza passata in giudicato.

Cass. civ. n. 2725/1995

È improponibile la domanda di divorzio che, fondata sulla pronuncia di separazione giudiziale (o sulla separazione consensuale) dei coniugi, sia proposta prima del passaggio in giudicato della sentenza di separazione (o della omologazione della separazione consensuale), ancorché il passaggio in giudicato (o la omologazione) siano intervenuti nel corso del giudizio.

Cass. civ. n. 11297/1994

Quando nel giudizio diretto ad ottenere la cessazione degli effetti civili o lo scioglimento del matrimonio l'attore faccia valere, quale presupposto per ottenere il divorzio, una sentenza di separazione personale emessa da un giudice straniero, la domanda che così si propone non mira a costituire nel nostro ordinamento la situazione giuridica che la sentenza straniera ha determinato, ma ad esercitare un diritto che in detta situazione trova il suo presupposto, con la conseguenza che si è al di fuori dell'ambito della delibazione della sentenza straniera, in via principale o incidentale, disciplinata dagli artt. 796 e seguenti c.p.c.

Cass. civ. n. 411/1989

La norma introdotta con l'art. 8 della L. 6 marzo 1987, n. 74 — ai sensi della quale la domanda per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, nel caso di residenza all'estero di entrambi i coniugi, può essere proposta davanti a qualsiasi tribunale della Repubblica — si applica anche ai giudizi iniziati prima della sua entrata in vigore, in mancanza al riguardo di una preesistente disposizione processuale, che a norma dell'art. 23 della stessa legge conservi efficacia, con la conseguenza che va ritenuto competente il tribunale cui la domanda sia stata a suo tempo proposta.

Cass. civ. n. 9126/1987

L'autorità giudiziaria investita della richiesta della pronuncia di divorzio fondata sulla presenza di una delle fattispecie previste alternativamente dall'art. 3, n. 2, lett. b) della L. n. 898 del 1970 (separazione di fatto e separazione giudiziale), non può pronunciare il divorzio d'ufficio accertando che esisteva una delle altre fattispecie legali (nella specie, a norma dell'art. 3, lett. e), L. 898 del 1970 per il solo fatto che ad altri effetti era stata prodotta in giudizio la sentenza di divorzio straniera).

Cass. civ. n. 8088/1987

Al fine della proponibilità della domanda di divorzio, che venga fondata su sentenza di separazione giudiziale ovvero su omologazione di separazione consensuale, e per il caso in cui vi sia stato in precedenza un altro procedimento di separazione, poi estintosi, la comparizione dei coniugi davanti al presidente del tribunale, in detta pregressa procedura, è idonea a segnare il giorno iniziale per il computo del prescritto periodo d'ininterrotta separazione, tenuto conto che tale comparizione comporta la formale constatazione della volontà dei coniugi di cessare la convivenza, e che gli effetti della stessa non restano travolti dall'estinzione del relativo processo (art. 189, disp. att. c.p.c.).

Cass. civ. n. 1341/1986

Ai fini della proposizione della domanda di scioglimento del matrimonio, da parte di coniugi già separati, ai sensi dell'art. 3 n. 2 lett. b) della L. 1 dicembre 1970, n. 898, la separazione di fatto è equiparata a quella giudiziale o convenzionale omologata, purché iniziata «almeno due anni» prima dell'entrata in vigore della stessa legge n. 893 del 1979; mentre il requisito della sua protrazione ininterrotta per un quinquennio (o per sei anni in caso di opposizione dell'altro coniuge) può utilmente maturarsi anche dopo l'entrata in vigore della detta legge.

Cass. civ. n. 6372/1985

Al fine della proponibilità della domanda di divorzio, a norma dell'art. 3 n. 2 lett. b) della L. 1 dicembre 1970, n. 898, acquistano rilevanza autonoma ed indipendente ciascuna delle situazioni contemplate da detta norma, e cioè la separazione giudiziale pronunciata con sentenza passata in giudicato, la separazione consensuale omologata e la separazione di fatto (iniziata da almeno due anni prima dell'entrata in vigore della legge). Pertanto, qualora la domanda di divorzio venga introdotta sulla base di separazione consensuale omologata, e sia rispettato il termine dilatorio all'uopo fissato, la circostanza che sia pendente, su iniziativa del coniuge convenuto nel giudizio di divorzio, un procedimento rivolto a conseguire il mutamento del titolo della separazione, con pronuncia di addebitabilità, non può essere invocata né per paralizzare detta domanda di divorzio, sotto il profilo della maggiore entità del termine dilatorio contemplato nel caso di separazione giudiziale con addebito, a carico dell'attore di divorzio, né per conseguire la sospensione del processo di divorzio, a norma dell'art. 295 c.p.c., difettando il requisito della pregiudizialità dell'una rispetto all'altra controversia.

Cass. civ. n. 3237/1982

Al fine dell'esperibilità dell'azione per lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, fondata sulla esistenza di una separazione personale, la maturazione del termine di cui ai commi quarto e quinto dell'art. 3 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 va riscontrata con riferimento non alla data della presentazione del ricorso, ma a quella della notificazione del medesimo.

Cass. civ. n. 559/1982

Nell'ipotesi in cui, nel corso della procedura di separazione giudiziale, sia sopravvenuta una separazione consensuale, o viceversa, il termine di durata della separazione richiesto dalla legge per proporre domanda di divorzio decorre dalla data della prima comparizione dei coniugi davanti al presidente del tribunale, sempre che non si dimostri che in detto periodo vi sia stata ripresa della convivenza.

Cass. civ. n. 3086/1978

Nel giudizio di divorzio, l'opposizione del coniuge convenuto, determinando il prolungamento del periodo minimo di separazione necessario per la trattazione della causa, non incide retroattivamente sulla validità della domanda proposta prima del decorso di detto maggior periodo, ma configura una condizione di proseguibilità dell'azione che preclude il compimento di ulteriori atti processuali ed impone una declaratoria di improseguibilità del procedimento, ancorché sia nel frattempo maturato l'indicato periodo, senza pregiudizio del diritto sostanziale, che potrà essere fatto valere dopo il venir meno dell'impedimento. Ove il giudice di merito non rilevi tale improseguibilità e decida sulla domanda, la relativa statuizione va cassata senza rinvio, ai sensi dell'art. 382 terzo comma c.p.c.

Cass. civ. n. 1562/1978

La reversibilità della disgregazione della comunione spirituale e materiale dei coniugi, nonostante l'infruttuoso tentativo di conciliazione, che può portare il giudice del divorzio a negare la pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, pur in presenza di una delle situazioni previste dall'art. 3 della L. 1 dicembre 1970, n. 898 (nella specie, stato di separazione legale protrattosi per il termine previsto), sussiste ove ricorrano concreti elementi idonei ad evidenziare, in termini di probabilità e non di mera possibilità, una ragionevole prevedibilità di ricostruzione di detta comunione a breve scadenza.

Al fine dei presupposti per la pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, mentre lo stato di separazione di fatto può considerarsi interrotto dalla ripresa della mera convivenza materiale, ovvero dal solo ripristino dell'intesa spirituale dei coniugi, l'interruzione della separazione legale può ravvisarsi solo nel caso di ricostruzione del consorzio familiare in tutti i suoi rapporti materiali e spirituali. Al fine indicato, pertanto, una temporanea ripresa della coabitazione, fra coniugi legalmente separati, può considerarsi interruttiva dello stato di separazione solo se evidenzi un'inequivoca intenzione di dare nuova vita alla società coniugale.

Cass. civ. n. 3079/1976

Alla stregua della testuale formulazione degli artt. 1 e 2 della L. 1 dicembre 1970, n. 898, nonché della ratio della stessa, il divorzio non viene pronunziato sulla base della mera constatazione della ricorrenza di una delle ipotesi tassativamente previste dall'art. 3 della legge, occorrendo che il giudice accerti anche l'essenziale condizione della concreta impossibilità di mantenere o ricostituire il consorzio coniugale. Tale impossibilità può essere desunta dal giudice anche presuntivamente, oltre che dal fallimento del tentativo di conciliazione, dalla lunga durata della separazione di fatto e da altre circostanze, sempre che siffatto accertamento sia sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici. Il potere inquisitorio che la legge (ultimo comma dell'art. 4 della L. 1 dicembre 1970, n. 898) riconosce al giudice istruttore in tema di divorzio può e deve essere concretamente esercitato sempreché le parti si siano comportate in modo da ingenerare il sospetto di una collusione pregiudizievole alla corretta applicazione della legge, oppure abbiano dedotto in primo ed in secondo grado elementi di fatto verso i quali possa essere utilmente indirizzata l'indagine d'ufficio.

Quando il periodo di separazione di fatto, riconosciuto dalla legge al limitato fine giuridico di valido presupposto per la pronunzia di divorzio, risulti già completato prima del passaggio in giudicato del provvedimento giudiziale che sancisce lo stato di separazione legale, questo provvedimento non può eliminare quel presupposto giuridico che era già divenuto utilmente operante, abilitando il soggetto interessato a proporre la domanda di scioglimento del matrimonio. Pertanto, nell'ipotesi considerata, il termine previsto dall'art. 3, n. 2 della L. 1 dicembre 1970, n. 898, per la proposizione della domanda di divorzio, decorre dalla data di effettiva cessazione della convivenza e non dalla data di comparizione delle parti dinanzi al giudice.

Cass. civ. n. 1595/1976

La valutazione del giudice del merito in ordine alla possibilità di ricostituire il consorzio familiare, al fine di escludere la pronuncia di divorzio, è bensì incensurabile in sede di legittimità per quanto attiene agli accertamenti di fatto, ma è censurabile per quanto attiene alla rispondenza dei criteri seguiti alla concezione del matrimonio, non già contrattualistica ma comunitaria, di cui agli artt. 29 e 30 Cost., che comportano una convivenza caratterizzata da una certa organizzazione domestica, dal reciproco aiuto, dai rapporti sessuali (almeno normalmente), nonché dall'intenzione di riservare al coniuge la posizione di esclusivo compagno di vita, anche quando la solidarietà esiga sacrificio. E, nel caso di separazione di fatto durata oltre sei anni, non sono sufficienti a fare ritenere la possibilità di ricostruire il consorzio familiare la cura di un coniuge per gli affari economici comuni, la reciproca cordialità di rapporti e l'interesse per la vita dei figli.

Cass. civ. n. 4585/1976

La domanda di divorzio deve essere proposta davanti al tribunale del luogo dove risiede il convenuto, e cioè nel luogo in cui questi ha la sua dimora abituale; a tal fine è irrilevante la circostanza che il convenuto, dopo aver trasferito la sua residenza in altra città, abbia continuato a servirsi della vecchia abitazione come ufficio o recapito, mantenendo contatti per un certo tempo e tornando, in più occasioni, nel luogo della precedente residenza, senza tuttavia negare l'intento di considerarsi ormai trasferito nella nuova.

Cass. civ. n. 1170/1976

In considerazione del fatto che in ordine alla domanda di scioglimento del matrimonio ai sensi dell'art. 3, n. 2 lett. E) L. 1° dicembre 1970, n. 898, la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano presuppone la cittadinanza italiana dell'attore, oltreché la sua residenza in Italia, deve ritenersi, nel caso parallelo in cui un cittadino italiano sia convenuto dal coniuge straniero con domanda di divorzio davanti al giudice straniero, che quest'ultimo ha il potere di conoscere della causa secondo i principi vigenti nell'ordinamento italiano in tema di competenza giurisdizionale, e quindi di pronunciare sentenze suscettibili di produrre effetti in Italia (art. 797 primo comma n. 1 c.p.c.), solo se l'attore straniero, oltreché residente, sia anche cittadino dello Stato a cui appartiene il giudice adito.

Cass. civ. n. 4178/1975

Le cause di scioglimento, o di cessazione degli effetti civili, del matrimonio, previste dall'art. 3 della L. 1 dicembre 1970, n. 898, operano in presenza del presupposto che, per effetto di esse, la comunione spirituale e materiale fra i coniugi non possa essere mantenuta o ricostituita. L'accertamento che in tal senso compie il giudice costituisce un apprezzamento di merito insindacabile in Cassazione, se correttamente e adeguatamente motivata. Perché si verifichi il presupposto su indicato non è necessario che entrambi i coniugi siano concordi nel volere, o nel ritenere avvenuta, la dissoluzione della predetta unione. Al contrario, proprio perché il mantenimento o la ricostituzione della comunione stessa richiede il concorso delle volontà dei due coniugi, è sufficiente la contraria volontà di uno solo di essi perché il giudice di merito possa, in presenza di ogni altra circostanza all'uopo pertinente, ritenere sussistente il presupposto innanzi indicato. Né d'altronde è necessario che la predetta contraria volontà manifestata da uno dei coniugi con il fatto di separarsi e di persistere nello stato di separazione, sia giustificata da un fatto obiettivo o da colpa della controparte, in quanto la legge dà rilevanza a detto stato (ed al suo protrarsi per il tempo previsto in proposito) indipendentemente dall'assenza di colpa del coniuge che si fa attore.

Cass. civ. n. 3692/1975

Secondo la L. 1 dicembre 1970, n. 898, il divorzio non dipende dalla mera volontà del coniuge istante, né viene pronunciato in base alla mera constatazione di una delle cause previste dall'art. 3 della legge stessa; per contro, la relativa declaratoria è il risultato dell'esercizio del potere-dovere del giudice di accertare, oltre l'esistenza in concreto delle ipotesi tassativamente elencate in detta norma, anche l'essenziale condizione della impossibilità di mantenere o costituire il consorzio coniugale.

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