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Articolo 4 Legge sul divorzio

(L. 1 dicembre 1970, n. 898)

[Aggiornato al 28/02/2023]

Dispositivo dell'art. 4 Legge sul divorzio

1. (1)[[ABROGATO]]

Note

(1) Articolo abrogato dal D. Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (c.d. riforma Cartabia), il quale ha altresì disposto (con l'art. 35, comma 1, come modificato dalla L. 29 dicembre 2022, n. 197) che "Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti".
(2) La Corte Costituzionale, con sentenza 19-23 maggio 2008, n. 169 ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall'art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale) comma inserito dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), limitatamente alle parole "del luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza,".

Massime relative all'art. 4 Legge sul divorzio

Cass. civ. n. 6016/2014

In tema di divorzio, il tentativo di conciliazione da parte del presidente del tribunale, pur essendo necessario per l'indagine sull'irreversibilità della frattura spirituale e materiale tra i coniugi, non costituisce un presupposto indefettibile del giudizio di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, atteso che, ai sensi dell'art. 4, comma 7, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (nella formulazione vigente "ratione temporis", risultante dalle modifiche di cui all'art. 2 del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. con modif. nella legge 14 maggio 2005, n. 80), ove il ricorrente non si presenti all'udienza presidenziale, in cui deve svolgersi il tentativo di conciliazione, la domanda di divorzio non ha effetti, mentre nella diversa ipotesi in cui sia il coniuge convenuto a non comparire, spetta al presidente valutare, tenendo conto delle ragioni della mancata comparizione, l'opportunità di un rinvio per l'espletamento di tale incombente.

Cass. civ. n. 18973/2013

Nel giudizio di appello avverso la sentenza di divorzio, cui si applica il rito camerale, tra la data di notificazione del ricorso e del decreto e quella dell'udienza di comparizione non devono necessariamente intercorrere i termini di comparizione fissati dall'art. 163 bis c.p.c., ridotti alla metà (così come previsto, invece, dall'art. 4, comma nono, della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nel testo risultante dalle modifiche apportate dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. in legge 14 maggio 2005, n. 80, per il procedimento di primo grado), pur dovendosi fissare, nel rispetto del principio del contraddittorio, un termine che assicuri la possibilità di organizzare una tempestiva difesa tecnica, anche al solo fine di presenziare all'udienza per evidenziare l'esiguità del termine concesso ed ottenere, esclusa la nullità del procedimento d'appello, un differimento della trattazione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che il termine di venti giorni in concreto usufruito non avesse leso il diritto di presenziare all'udienza, sia pure allo scopo di rappresentare il pregiudizio alle esigenze difensive, dedotto invece solo con il ricorso per cassazione).

Cass. civ. n. 17825/2013

Nel giudizio di divorzio, una volta emessi i provvedimenti presidenziali temporanei ed urgenti, questi non possono essere modificati con una decisione assunta in sede di giudizio di revisione delle condizioni di separazione.

Cass. civ. n. 9236/2012

La disciplina dello scioglimento del matrimonio contratto a norma del codice civile e quella della cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso è identica nei presupposti e negli effetti; non rileva, pertanto, ai fini della "mutatio libelli" che la domanda di divorzio sia presentata come scioglimento di matrimonio concordatario o come cessazione del matrimonio civile, dovendo il giudice fare riferimento al "petitum" ed alla "causa petendi" sostanziali ed effettivi.

Cass. civ. n. 5876/2012

Nel rito camerale previsto dall'art. 4, comma 12, della legge 1 dicembre 1970 n. 898, l'allegazione di documenti può eseguirsi anche oltre i termini fissati a tal fine, ma a condizione che sia rispettato il diritto dell'altra parte a interloquire sulla loro tardiva produzione.

Cass. civ. n. 5651/2012

In tema d'impugnazione avverso la sentenza di primo grado di divorzio, la mancata comparizione, all'udienza fissata, della parte che ha proposto il gravame non è causa di improcedibilità, dal momento che tale ipotesi non è in alcun modo regolata dalla disciplina dei procedimenti in camera di consiglio, ai sensi dell'art. 737 e seguenti cod. proc. civ. A tale mancanza deve porsi rimedio facendo riferimento alle norme generali sull'appello, ed, in particolare, all'art. 348 cod. proc. civ., cui non osta l'esigenza di celerità sottesa alla previsione del rito camerale; tale esigenza non consente peraltro di parificare il procedimento di divorzio a quello di cassazione, nel quale la mancata comparizione non comporta il rinvio della causa ad una nuova udienza.

Cass. civ. n. 21161/2011

Nel procedimento d'impugnazione delle sentenze di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il giudizio di appello è soggetto al rito camerale, onde l'impugnazione va proposta con ricorso e non con atto di citazione, che resta peraltro ammissibile, purché, nel termine perentorio di trenta giorni dalla notificazione della sentenza di primo grado, sia non soltanto notificato, ma altresì depositato in cancelleria, con l'iscrizione della causa al ruolo.

Cass. civ. n. 7620/2011

Nel giudizio di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio, l'ordinanza della corte di appello, pronunciata su reclamo avverso il provvedimento di diniego di misure provvisorie ed urgenti emesso dal presidente del tribunale, non è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., difettando il requisito della definitività in senso sostanziale e dell'idoneità al giudicato, dal momento che tale ordinanza, pur incidendo su posizioni di diritto soggettivo, non è idonea a statuire su di esse in modo definitivo, ma assume la stessa natura di provvedimento interinale, provvisorio e strumentale al giudizio di merito che caratterizza l'ordinanza presidenziale, sempre revocabile e modificabile dal giudice istruttore, ai sensi dell'art. 4, ottavo comma della legge 1 dicembre 1970, n. 898.

Cass. civ. n. 6343/2011

La parte che impugni, al fine di ottenerne la declaratoria di nullità, la sentenza non definitiva di divorzio per la mancata concessione dei termini di cui all'art. 183, sesto comma, cod. proc. civ. - applicabili anche a tale procedimento, secondo l'art. 4, comma 11, della legge 1º dicembre 1970, n. 898 (come introdotto dall'art. 2 del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito nella legge 14 maggio 2005, n. 80) - deve dimostrare che, da tale mancata concessione, sia conseguita in concreto una lesione del suo diritto di difesa, allegando il pregiudizio che gliene sia derivato, essendo altrimenti il gravame inammissibile per difetto d'interesse.

Cass. civ. n. 5140/2011

Nel procedimento di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, laddove il giudice di primo grado abbia rigettato la domanda di assegno di divorzio, la pronuncia sulla decorrenza dell'assegno ben può essere adottata dalla Corte di merito, stante l'effetto devolutivo dell'appello. (La S.C. ha rigettato la tesi secondo cui, stante il riferimento al "tribunale" contenuto nell'art. 4 della legge n. 898 del 1970, solo il giudice di primo grado potrebbe pronunciarsi sulla decorrenza dell'assegno).

Cass. civ. n. 3905/2011

Nel giudizio di divorzio, per effetto delle modifiche apportate, all'art. 4 della legge n. 898 del 1970, dall'art. 8 della legge n. 74 del 1987, l'udienza di prima comparizione rilevante, ai sensi degli artt. 166, 167 e 180 c.p.c., è quella fissata dinanzi al giudice istruttore designato all'esito della fase presidenziale, rispetto alla quale dev'essere verificata la regolarità della costituzione del convenuto. Pertanto, il convenuto che non dispone del termine libero di venti giorni precedenti questa udienza - essendo la funzione di tale intervallo temporale correlata alla tutela del contraddittorio - è il solo legittimato a dolersene ed è facoltizzato, ma non tenuto, a chiedere al giudice istruttore la fissazione di un termine a difesa che, se richiesto, deve essergli concesso, non essendogli, comunque, preclusa la possibilità di rinunciarvi, accettando il contraddittorio e difendendosi nel merito.

Cass. civ. n. 21245/2010

In tema di divorzio, il potere del presidente del tribunale di adottare i provvedimenti temporanei ed urgenti che ritenga opportuni nell'interesse dei coniugi e della prole, dopo l'infruttuoso esperimento del tentativo di conciliazione e senza necessità di aprire uno specifico dibattito al riguardo (art. 4 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, sia nel testo originario che in quello riformulato dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74), si estende ai rapporti patrimoniali ed implica la facoltà di incidere a titolo provvisorio sulle condizioni eventualmente diverse del rapporto di separazione. Nell'esercizio di detto potere, pertanto, il presidente del tribunale può riconoscere un emolumento mensile al coniuge che risulti averne bisogno, indipendentemente dal fatto che le clausole della separazione non lo prevedano o lo prevedano in misura inferiore.

Cass. civ. n. 17336/2010

Con riferimento ai procedimenti di divorzio introdotti anteriormente all'entrata in vigore della legge 14 maggio 2005, n. 80, una volta instaurato regolarmente il contraddittorio la mancata comparizione di una delle parti non incide sulla procedibilità dell'azione e, in particolare la comparizione di un rappresentante del coniuge istante all'udienza presidenziale, se pure non è idonea a consentire l'esperimento del tentativo di conciliazione, il quale richiede inderogabilmente la presenza personale di entrambi i coniugi, non comporta l'improcedibilità dell'azione, nè impone la fissazione di una nuova udienza per detto tentativo.

Cass. civ. n. 11992/2010

Nei procedimenti di impugnazione che si svolgono con rito camerale (nella specie, in materia di assegno divorzile), l'appello, pur tempestivamente proposto mediante il deposito del ricorso nel termine previsto dalla legge, è improcedibile ove la notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell'udienza non sia avvenuta nel termine prescritto, non essendo consentito al giudice - alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata, imposta dal principio della cosiddetta ragionevole durata del processo ex art. 111, secondo comma, Cost. - di assegnare all'appellante, previa fissazione di un'altra udienza di discussione, un nuovo termine per provvedervi, a norma dell'art. 291 c.p.c..

Cass. civ. n. 23907/2009

L'inammissibilità dell'appello avverso la sentenza di scioglimento degli effetti civili del matrimonio, conseguente al mancato deposito del ricorso in cancelleria nel termine di trenta giorni dalla notifica della sentenza, è correlata alla tutela d'interessi indisponibili e, come tale, è rilevabile d'ufficio e non sanabile per effetto della costituzione dell'appellato.

Cass. civ. n. 16801/2009

Avverso la sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, intervenuta successivamente alla morte di una delle parti, è ammissibile l'appello della parte superstite, al fine di ottenere una pronuncia di cessazione della materia del contendere nella causa di divorzio, ormai priva di oggetto, essendo gli effetti civili del matrimonio già venuti meno, per la morte di uno dei coniugi, ai sensi dell'art. 149 c.c.; nel giudizio d'impugnazione, gli eredi della parte deceduta sono legittimati processuali ex art. 110 c.p.c., in qualità di successori universali della parte deceduta, anche se ad essi non sia trasmesso o non sia trasmissibile il diritto controverso.

Cass. civ. n. 11828/2009

L'art. 40 c.p.c. consente nello stesso processo il cumulo di domande soggette a riti diversi soltanto in ipotesi qualificate di connessione (art. 31, 32, 34, 35 e 36), così escludendo la possibilità di proporre più domande connesse soggettivamente e caratterizzate da riti diversi: conseguentemente, è esclusa la possibilità del "simultaneus processus" tra l'azione di divorzio e quella avente ad oggetto, tra l'altro, la restituzione di beni mobili, essendo quest'ultima soggetta al rito ordinario, autonoma e distinta dalla prima. (Nella specie il ricorrente chiedeva pronunciarsi la cessazione degli effetti civili del matrimonio e la condanna di controparte alla restituzione dell'anello di fidanzamento).

Cass. civ. n. 3488/2009

In tema divorzio, la disposizione di cui all'art. 4, nono comma, della legge 1 dicembre 1970, n 898, nella formulazione introdotta dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74, secondo la quale, ai fini acceleratori della definizione del rapporto personale tra i coniugi, avverso la pronuncia sullo "status", resa con sentenza non definitiva, è ammesso solo appello immediato, facendo eccezione alle regole generali del codice di rito e stante il tenore dell'art. 14 disp. prel. c.c., è insuscettibile di applicazione analogica; ne discende che è ammissibile la riserva facoltativa di ricorso avverso la sentenza non definitiva che quantifica ed attribuisce l'assegno divorzile.

Cass. civ. n. 4424/2008

In tema di determinazione dell'assegno divorzile, ove il giudice di merito non ne fissi la decorrenza dalla data della domanda, avvalendosi della facoltà sancita dall'art. 4, decimo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, esso spetta dalla data della sentenza che ha pronunciato lo scioglimento del matrimonio.

Cass. civ. n. 565/2007

Nei procedimenti di natura contenziosa che si svolgono con il rito camerale (quale il giudizio di appello in materia di divorzio, ai sensi dell'art. 4, dodicesimo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, e succ. modif.), deve essere assicurato il diritto di difesa e, quindi, realizzato il principio del contraddittorio; tuttavia, trattandosi di procedimenti caratterizzati da particolare celerità e semplicità di forme, ad essi non sono applicabili le disposizioni proprie del processo di cognizione ordinaria e, segnatamente, quelle di cui agli artt. 189 (Rimessione al collegio) e 190 (Comparse conclusionali e memorie) c.p.c.

Cass. civ. n. 9882/2006

Nel processo di divorzio non trovano applicazione gli artt. 183 e 190 c.p.c., venendo in rilievo la disciplina speciale di cui all'art. 4 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (come modificato dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74) volta ad accelerare la procedura di accertamento dei presupposti dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio, al fine di impedire condotte defatigatorie ed ostative del convenuto, ed in virtù della quale è riservata al giudice istruttore la possibilità di rimettere la causa al collegio per l'emissione della sentenza non definitiva relativa allo status quando la causa debba proseguire per la determinazione dell'assegno. (Nella specie, il ricorrente per cassazione si doleva del fatto che, in primo grado, era mancato l'invito alle parti a precisare le conclusioni e non erano stati concessi i termini di cui agli artt. 183 e 190 c.p.c.; la Corte, enunciando il principio di cui in massima, ha rigettato la censura, escludendo la configurabilità della denunciata nullità).

Cass. civ. n. 9688/2006

L'ordinanza con la quale il Presidente del tribunale, nel corso di un giudizio di divorzio, provveda ex art. 4 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, non è suscettibile di ricorso per cassazione, non trattandosi di provvedimento definitivo e declinatorio della competenza, ma di mera conferma, in via provvisoria, dei provvedimenti temporanei già assunti nel giudizio di separazione personale ancora in corso.

Cass. civ. n. 1179/2006

Il rito camerale, previsto per l'appello avverso le sentenze di divorzio e di separazione personale, come, da un lato, non preclude la proponibilità dell'appello incidentale, anche indipendentemente dalla scadenza del termine per l'esperimento del gravame in via principale, così, dall'altro, risultando caratterizzato dalla sommarietà della cognizione e dalla semplicità delle forme, esclude la piena applicabilità delle norme che regolano il processo ordinario e, in particolare, del termine perentorio fissato, per la relativa proposizione, dal primo comma dell'art. 343 c.p.c., dal momento che il principio del contraddittorio viene rispettato, in appello, per il solo fatto che il gravame incidentale sia portato a conoscenza della parte avversa entro limiti di tempo tali da assicurare a quest'ultima la possibilità di far valere le proprie ragioni mediante organizzazione di una tempestiva difesa tecnica, da svolgere sia in sede di udienza camerale sia al termine dell'inchiesta.

Cass. civ. n. 23070/2005

In tema di divorzio, il tentativo di conciliazione da parte del presidente del tribunale, pur configurandosi come un atto necessario per l'indagine sull'irreversibilità della frattura spirituale e materiale del rapporto tra i coniugi, non costituisce, tuttavia, un presupposto indefettibile del giudizio di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio; sicché la mancata comparizione di una delle parti non comporta la fissazione obbligatoria di una nuova udienza presidenziale, la quale, invece, può essere omessa quando non se ne ravveda la necessità e l'opportunità, come quando — ancorché l'impedimento a comparire sia giustificato e sia dipeso da ragioni di salute — risulti la volontà della parte non comparsa, costituitasi a mezzo di difensore, di conseguire la cessazione degli effetti civili del matrimonio, e quindi si appalesi l'inutilità del tentativo di conciliazione. (Nel caso di specie, la convenuta, temporaneamente impedita per gravi ragioni di salute, non era comparsa all'udienza presidenziale, fissata per il tentativo di conciliazione; a detta udienza, peraltro, era intervenuto il difensore della convenuta, che si era costituito nel giudizio con una memoria di non opposizione alla domanda di divorzio, senza formulare alcuna richiesta di rinvio in ragione dell'impedimento della propria assistita).

Cass. civ. n. 15157/2005

La disposizione di cui all'art. 4, nono comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, nella formulazione introdotta dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74, in tema di procedimento di divorzio, secondo la quale, a fini acceleratori della definizione del rapporto personale tra i coniugi, la pronuncia sullo status resa con sentenza non definitiva, è insuscettibile di appello differito, si rende applicabile anche ai giudizi di separazione personale, in virtù della disposizione di raccordo contenuta nell'art. 23 della legge n. 74 del 1987. Detta regola invero, ancor più che compatibile, è coessenziale al regime impugnatorio della sentenza parziale sulla domanda di separazione, atteso che una decisione siffatta non avrebbe ragione di essere anticipata ove, con lo strumento dell'appello differito, fosse consentito di bloccarne poi l'efficacia, mantenendola comunque legata ai tempi di decisione sul merito della domanda in ordine all'addebito, in tal modo condizionando la legittima aspirazione a conseguire lo stato di separato, quale necessaria condizione precedente alla definitiva rescissione del vincolo matrimoniale, alle esigenze istruttorie relative a questioni accessorie ancora da definire. (Nell'enunciare il principio di cui in massima, la S.C. ha anche precisato che al giudice della domanda di divorzio spetta di valutare l'inammissibilità della riserva di appello differito avverso la sentenza parziale di separazione ai fini della verifica del presupposto dell'intervenuto giudicato sulla separazione).

Cass. civ. n. 14381/2005

I provvedimenti temporanei ed urgenti previsti dall'art. 4, n. 8, della legge sul divorzio, in quanto diretti ad apprestare un regolamento essenziale ed immediato alla famiglia nella prospettiva del divorzio, con funzione anticipatoria rispetto alle statuizioni definitive, non possono che regolare provvisoriamente i rapporti tra le parti nell'ambito temporale del processo di divorzio, e non interferiscono con il regime fissato dalle statuizioni adottate in sede di giudizio di separazione o di giudizio di revisione delle condizioni di separazione.

Cass. civ. n. 11319/2005

Nel giudizio di divorzio in appello — che si svolge secondo il rito camerale, ai sensi dell'art. 4, dodicesimo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo sostituito ad opera dell'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74) — l'acquisizione dei mezzi di prova, e segnatamente dei documenti, è ammissibile sino all'udienza di discussione in camera di consiglio, sempre che sulla produzione si possa considerare instaurato un pieno e completo contraddittorio, che costituisce esigenza irrinunziabile anche nei procedimenti camerali. (Nella specie, la Corte Cass. ha ritenuto la nullità, per violazione del principio del contraddittorio, della sentenza d'appello, essendo stato il diniego di assegno divorzile espressamente fondato su fatti nuovi evidenziati dal coniuge mediante il deposito di documenti oltre il termine all'uopo assegnato dal giudice, in presenza di tempestiva eccezione di inammissibilità della produzione tardiva svolta dalla difesa dell'altro coniuge, e ciò senza che all'udienza camerale lo stesso giudice avesse in proposito consentito l'esplicarsi del contraddittorio mediante il rinvio dell'udienza medesima).

Cass. civ. n. 23567/2004

L'art. 4, nono comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, nel testo introdotto dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74, — il quale prevede, anche senza istanza di parte, la pronuncia di sentenza non definitiva di divorzio, nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell'assegno — persegue la evidente finalità di consentire una sollecita pronuncia in ordine allo status delle parti, in ossequio al favor libertatis a fronte di una situazione irrimediabilmente compromessa, rinviando all'esito di una più approfondita istruttoria, quando ciò sia ritenuto necessario, la definizione delle questioni patrimoniali conseguenti. Ne deriva che, nella ipotesi in cui sia rimessa al collegio la causa per la pronuncia ex art. 4, nono comma, cit., non può trovare applicazione la regola posta dall'art. 189, secondo comma, cod. pro. civ. — secondo cui la rimessione investe il collegio di tutta la causa anche quando avvenga a norma dell'art. 187, secondo e terzo comma, del codice di rito, e cioè nei casi in cui debba essere decisa separatamente una questione di merito avente carattere preliminare, ove la decisione di essa possa definire l'intero giudizio, ovvero una questione attinente alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali — risultando necessario il compimento di una fase di approfondimento istruttorio, in cui dare spazio all'adeguato svolgimento delle difese delle parti, differito per la esigenza di una immediata pronuncia sullo status. (Nella specie, alla stregua del principio di cui alla massima, la S.C. ha cassato la sentenza di appello che aveva ritenuto legittima la decisione del tribunale che aveva pronunciato anche sugli aspetti economici conseguenti alla sentenza di divorzio, pur avendo il giudice istruttore rimesso la causa al collegio per la sola pronuncia non definitiva sullo status dopo aver formalmente invitato le due parti, nella prima udienza successiva a quella presidenziale, a precisare le conclusioni esclusivamente sulla domanda di divorzio).

Cass. civ. n. 23396/2004

Ove il giudice del divorzio, nell'emettere la sentenza che dispone la somministrazione del relativo assegno, abbia stabilito, in considerazione delle modeste condizioni economiche dell'onerato, la decorrenza dello stesso assegno dalla data della deliberazione della sentenza di primo grado — così erroneamente scegliendo una data intermedia di decorrenza fra quella della domanda introduttiva e quella del passaggio in giudicato della pronuncia di scioglimento (o di cessazione degli effetti civili) del matrimonio —, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale l'avente diritto all'assegno di divorzio censuri tale statuizione relativa alla decorrenza dell'assegno senza tuttavia indicare le circostanze necessarie e sufficienti per fissare l'insorgenza del diritto alla percezione dell'assegno dalla domanda introduttiva del giudizio, e ciò trattandosi di censura finalizzata ad ottenere il rispetto meramente astratto della legge e non la tutela di un concreto interesse della parte ricorrente.

Cass. civ. n. 22607/2004

Nel giudizio di divorzio, spetta al Presidente del Tribunale la competenza a provvedere, all'udienza a questo fine fissata innanzi a sè, al tentativo di conciliazione dei coniugi e all'adozione dei provvedimenti temporanei ed urgenti, ex art. 4, quinto, sesto e settimo comma, legge n. 898 del 1970, ma egli può anche delegare lo svolgimento di questi compiti ad uno o piú giudici in servizio presso il Tribunale, previamente individuati nella tabella dell'ufficio, in quanto l'art. 104, ordinamento giudiziario, va interpretato nel senso che la sostituzione è ammissibile anche se sia resa necessaria da esigenze di funzionalità dell'ufficio e, in applicazione delle direttive del Consiglio superiore della magistratura, la preventiva designazione del giudice delegato non occorre sia effettuata esclusivamente in base al criterio dell'anzianità.

Cass. civ. n. 18448/2004

Il procedimento di divorzio — così come quello di separazione personale — è caratterizzato da due fasi distinte che si perfezionano, rispettivamente, la prima con il deposito del ricorso in cancelleria e la seconda con la notifica al convenuto del ricorso e del pedissequo decreto del presidente del tribunale, contenente la fissazione dell'udienza di comparizione dei coniugi avanti al presidente stesso e del termine per la notificazione del ricorso e del decreto. Pertanto, il rapporto cittadino-giudice si costituisce già con il deposito del ricorso, mentre la seconda fase è finalizzata esclusivamente alla costituzione del necessario contraddittorio fra le parti, con la conseguenza che il mancato rispetto del termine fissato per la notifica non comporta, in difetto di espressa sanzione, la nullità del ricorso — già regolarmente proposto con il suo deposito in cancelleria — e che, quindi, deve essere concesso un nuovo termine, onde garantire il rispetto del contraddittorio e non lasciare pendente un ricorso ritualmente introdotto.

Cass. civ. n. 12309/2004

Il rito camerale previsto per l'appello avverso le sentenze di divorzio e di separazione personale non preclude la proponibilità dell'appello incidentale, anche indipendentemente dalla scadenza del termine per l'esperimento del gravame in via principale.

Cass. civ. n. 8010/2004

La disciplina della domanda congiunta di divorzio recata dall'art. 4, tredicesimo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74, rimette al giudice l'accertamento dei presupposti di legge per lo scioglimento del rapporto — attinenti al merito della domanda —, verifica da condurre alla stregua della legge nazionale applicabile, laddove la decisione sulla questione, preliminare, circa l'ammissibilità della revoca del consenso alla domanda congiunta proposta, da verificare alla luce della legge processuale italiana, non comporta di per sè sola l'individuazione della legge nazionale applicabile, che rimane pertanto questione impregiudicata.

Cass. civ. n. 4903/2004

All'esito delle modifiche apportate, all'art. 4 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987 (applicabili anche in tema di separazione giudiziale dei coniugi, in virtù e nei limiti della disposizione di cui all'art. 23), alla natura fin dall'origine contenziosa dei procedimenti di separazione giudiziale e di scioglimento del matrimonio non si accompagna la caratterizzabilità dell'udienza presidenziale di comparizione dei coniugi in termini corrispondenti (nel caso di fallimento del tentativo di conciliazione) a quelli dell'udienza prevista dall'art. 180 c.p.c.; con la conseguenza, fra l'altro, che, a tutti i fini che concernono i termini per la costituzione del coniuge convenuto e quelli di decadenza dello stesso per la formulazione delle domande riconvenzionali ivi compresa quella di riconoscimento dell'assegno divorzile — quale udienza di prima comparizione, rilevante ai sensi dell'art. 180 c.p.c. e degli artt. 166 e 167 c.p.c., deve intendersi esclusivamente quella innanzi al giudice istruttore nominato all'esito della fase presidenziale. Né — manifestamente — siffatta interpretazione del quadro normativo, determinatosi a seguito dell'abrogazione della previsione della notifica dell'ordinanza conclusiva della fase presidenziale, può dirsi contrastante con gli artt. 24 e 3 Cost., atteso che la necessità di eventuali ulteriori avvertimenti, durante lo svolgimento del giudizio, in relazione al verificarsi di determinate circostanze, non può valere ad individuare il contenuto del diritto di difesa costituzionalmente garantito, e che non è neppure ipotizzabile una disparità di trattamento rispetto ai convenuti nei giudizi di rito ordinario, considerata la specialità del procedimento di divorzio (e di separazione giudiziale) evidenziata proprio dalla peculiarità della fase introduttiva.

Cass. civ. n. 336/2004

Il diritto alla corresponsione dell'assegno di divorzio, in quanto avente ad oggetto più prestazioni periodiche, distinte ed autonome, si prescrive non a decorrere da un unico termine costituito dalla sentenza che ha pronunciato sul diritto stesso, ma dalle scadenze delle singole prestazioni imposte dalla pronuncia giudiziale, in relazione alle quali sorge di volta in volta l'interesse del creditore all'adempimento. Ne consegue che, dovendo tali prestazioni essere erogate alle scadenze fissate e sino al momento della diversa determinazione del giudice in sede di revisione, ovvero fino alla morte dell'ex coniuge onerato, non può profilarsi al momento del decesso una prescrizione del diritto all'ultimo assegno spettante, tale da estinguere il diritto alla sua percezione, e quindi da impedire il sorgere del diritto alla quota della pensione di reversibilità.

Cass. civ. n. 11838/2003

L'art. 4, n. 9 della L. 1 dicembre 1970, n. 898, nel testo introdotto dall'art. 8 della L. 6 marzo 1987, n. 74, il quale prevede, al fine di una sollecita definizione dello status dei coniugi, anche senza istanza di parte, la pronuncia di sentenza non definitiva di divorzio, nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell'assegno, non è in contrasto con gli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione, non dando luogo ad un'arbitraria discriminazione rispetto ai soggetti che vedano definiti in unico contesto tutti i suddetti rapporti, atteso che nessun principio costituzionale impone che la definitiva regolamentazione dei diritti e dei doveri scaturenti da un determinato status sia dettata in un unico contesto, e che la tutela fornita dai provvedimenti temporanei e urgenti ai sensi dell'ottavo comma dell'art. 4, con la loro espressa modificabilità da parte del giudice istruttore e con la possibile retroattività degli effetti del definitivo riconoscimento dell'assegno di divorzio al momento della domanda vale a garantire il coniuge più debole per tutta la durata del processo.

Cass. civ. n. 10914/2002

All'esito delle modifiche apportate all'art. 4 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (applicabili anche in tema di separazione giudiziale dei coniugi, in virtù e nei limiti della disposizione di cui all'art. 23), così nei giudizi introdotti prima dell'entrata in vigore delle modifiche apportate alla disciplina del processo civile di cognizione dalla legge 26 novembre 1990, n. 353 e successive modificazioni, come nei giudizi introdotti successivamente ad esse, alla natura fin dall'origine contenziosa dei procedimenti di separazione giudiziale dei coniugi o di scioglimento del matrimonio, non si accompagna la caratterizzabilità della stessa udienza presidenziale di comparizione dei coniugi, in termini corrispondenti (nel caso il fallimento del tentativo di conciliazione) a quelli dell'udienza prevista dall'art. 180 c.p.c.; ciò in quanto, anche in un tal caso, la fase presidenziale si rivela successivamente indirizzata soltanto all'adozione dei provvedimenti temporanei ed urgenti ed alla nomina del giudice istruttore, con relativa fissazione dell'udienza di comparizione innanzi a lui. Da ciò consegue, fra l'altro, che, a tutti i fini che concernono i termini per la costituzione del coniuge convenuto e quelli di decadenza dello stesso per la formulazione delle domande riconvenzionali, quale udienza di prima comparizione rilevante ai sensi dell'art. 180 c.p.c. e degli artt. 166 e 167 c.p.c., debba intendersi esclusivamente quella innanzi al G.I. nominato all'esito della fase presidenziale.

Cass. civ. n. 7299/2002

Il provvedimento con il quale il tribunale, nel corso di un giudizio di divorzio, sospenda — a seguito di dichiarazione di litispendenza internazionale e di conseguente sospensione del processo — l'efficacia dei provvedimenti temporanei ed urgenti adottati dal presidente del tribunale ex art. 4 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, non costituisce un provvedimento di sospensione del processo ai sensi dell'art. 295 c.p.c., non risolve una questione di competenza, né di giurisdizione, e, comunque, ha natura provvisoria ed interinale al pari di quelli la cui efficacia è stata sospesa. Ne consegue che avverso tale provvedimento non è esperibile il ricorso per cassazione (neppure ex art. 111 Cost. ), né il regolamento preventivo di giurisdizione, né il regolamento di competenza.

Cass. civ. n. 11751/2001

In relazione al ricorso introduttivo del procedimento di divorzio, l'art. 4 della legge n. 898 del 1970 (nel testo sostituito dall'art. 8 della legge n. 74 del 1987) non prevede la necessità dell'avvertimento al convenuto, prescritto, per il rito ordinario, dall'art. 163, n. 7, c.p.c.; né tale norma può ritenersi estensibile al giudizio di divorzio, caratterizzato da una prima fase non contenziosa dinanzi al presidente del tribunale, in ordine alla quale non sorge necessità alcuna di avvertire controparte circa decadenze in detta fase non configurabili. (Nella specie, l'avvertimento, contenuto nel decreto del presidente del tribunale steso in calce al ricorso, era riferito all'udienza dinanzi al giudice istruttore designando; la S.C., nell'affermare il principio di cui in massima, ha ritenuto infondata la censura del ricorrente, che si doleva dell'inosservanza – non emendabile dal presidente del tribunale, trattansosi di un'attività di parte – dell'obbligo di avvertimento nel ricorso introduttivo dell'attore).

Nel processo di divorzio, è causa di nullità l'omessa attivazione del contraddittorio (vizio non formale di attività comportante la lesione del diritto alla difesa), ma non la mancata fissazione, dopo l'udienza di comparizione di fronte al giudice istruttore che si svolge una volta conclusa la fase presidenziale, di una udienza di trattazione né l'omessa assegnazione al convenuto di un termine perentorio non inferiore a venti giorni prima di tale udienza per proporre le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio, secondo quanto richiede, nel rito contenzioso ordinario, il testo novellato dell'art. 180, secondo comma, c.p.c., atteso che quest'ultima norma non è applicabile nel processo di divorzio, il quale è disciplinato dall'art. 4 della legge n. 898 del 1970, come modificato dall'art. 8 della legge n. 74 del 1987, con una norma speciale e completa, volta ad accelerare la procedura di accertamento dei presupposti dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio, al fine di impedire condotte defatigatorie o ostative del convenuto.

Cass. civ. n. 9582/2000

In mancanza di una specifica disposizione normativa che preveda il relativo potere, il tutore dell'interdetto per infermità di mente non può proporre domanda di divorzio per lo stesso; in applicazione analogica dell'articolo 4, quinto comma della L. n. 898 del 1970 - che regola l'ipotesi in cui l'interdetto infermo di mente sia convenuto in un giudizio di divorzio - in relazione agli articoli 78 e 79 c.p.c., legittimato a proporre la domanda di divorzio per l'interdetto è un curatore speciale, la cui nomina può esser richiesta dal tutore.

Cass. civ. n. 1916/2000

Nel giudizio di appello avverso la sentenza dichiarativa dello scioglimento degli effetti civili del matrimonio (che va deciso, ex art. 8, L. n. 74/1987, «in camera di consiglio»), tra la data di notificazione del ricorso e del decreto e quella dell'udienza di comparizione non devono intercorrere i termini di comparizione fissati dall'art. 163 bis c.p.c. (ridotti alla metà), così come disposto dall'art. 4, sesto comma, L. n. 898/1970 per il procedimento di primo grado, essendo il principio del contraddittorio rispettato, in appello, per il solo fatto che il ricorso introduttivo sia portato a conoscenza della controparte, e sia assicurata ad entrambe le parti la possibilità di partecipare al processo e di far valere le loro ragioni mediante organizzazione di una tempestiva difesa tecnica.

Cass. civ. n. 11774/1998

In tema di procedimento di appello avverso una sentenza di divorzio, la natura ordinatoria del termine presidenziale fissato, ex art. 154 c.p.c., per la notificazione del ricorso e del pedissequo decreto (sul presupposto del tempestivo deposito del ricorso in appello nella cancelleria del giudice ad quem, ex artt. 8 L. 74/87, 324 e 325 c.p.c.) non legittima la parte a disattenderlo tout court, con conseguente ingiustificata e pregiudizievole dilatazione dei tempi di instaurazione del contraddittorio e di definizione del giudizio. Ne consegue che la disposizione di cui all'art. 154 c.p.c. va interpretata nel senso che l'inutile decorso del termine fissato dal giudice ha gli stessi effetti preclusivi di un termine perentorio, e che risulta del tutto illegittima ogni eventuale proroga (richiesta e) concessa solo dopo la sua scadenza.

Cass. civ. n. 8287/1998

In tema di impugnazione della sentenza di scioglimento del matrimonio, l'art. 4 dodicesimo comma L. n. 898 del 1970 (come modificato dall'art. 8 L. n. 74 del 1987), secondo il quale l'appello è deciso in camera di consiglio, va interpretato nel senso che il rito camerale deve considerarsi esteso all'intero procedimento e non limitato alla sola fase decisoria; tale norma trova applicazione in ogni caso di impugnazione della sentenza di scioglimento del matrimonio, e pertanto anche nelle ipotesi di appello riguardante unicamente gli aspetti patrimoniali della decisione, posto che le esigenze di celerità che hanno determinato il legislatore alla scelta del rito camerale non possono non ritenersi sussistenti anche per richieste di ordine patrimoniale, in relazione alle quali si concentrano gli interessi delle parti, anche in rapporto alle esigenze dei figli, e quindi maggiormente si manifesta la conflittualità.

Cass. civ. n. 6664/1998

Nell'ipotesi in cui due coniugi di cittadinanza straniera rivolgano al giudice italiano domanda congiunta di scioglimento del matrimonio celebrato in Italia e, successivamente, uno dei due, facendo presente di essere anche cittadino italiano, “revochi” il consenso al divorzio (nella specie, lamentando la mancanza del presupposto della separazione legale almeno da un triennio), il giudice non può dichiarare l'improcedibilità della domanda congiunta, ma deve esaminarla, individuando la legge nazionale applicabile, per la verifica dei presupposti della pronuncia dello scioglimento del rapporto matrimoniale, e recependo, in caso di esito positivo della verifica, gli eventuali accordi patrimoniali indicati nella domanda congiunta.

Cass. civ. n. 10942/1997

Il gravame contro la sentenza di divorzio, dopo l'entrata in vigore delle modifiche all'art. 4 L. 1 dicembre 1970, n. 898, apportate dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, è soggetto al rito camerale e si propone mediante ricorso da depositarsi presso la cancelleria del giudice di secondo grado. Dette modalità procedimentali non influiscono, in difetto di diversa previsione, sull'applicabilità delle comuni regole sui termini d'impugnazione della sentenza (artt. 325-327 c.p.c.), inclusa quella inerente al termine breve di trenta giorni dalla notificazione di essa, da effettuarsi, nei confronti della parte costituita, al procuratore della medesima, ai sensi dell'art. 285 c.p.c. (che espressamente richiama l'art. 170 c.p.c.).

Cass. civ. n. 4290/1996

L'art. 4, comma 12, L. n. 898 del 1970, come sostituito dall'art. 8, L. n. 74 del 1987 — applicabile, ai sensi dell'art. 23, comma 3 di quest'ultima legge, alle sentenze di separazione personale pubblicate successivamente alla sua entrata in vigore — secondo il quale «l'appello è deciso in camera di consiglio», deve essere interpretato come introduttivo del rito camerale per l'intero giudizio di impugnazione, e non soltanto per la fase decisoria. La proposizione dell'appello, pertanto, si perfeziona con il deposito del ricorso in cancelleria nel termine perentorio di cui agli artt. 325-327 c.p.c., mentre la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza costituisce un momento esterno e successivo alla fattispecie processuale introduttiva del giudizio di impugnazione, diretto soltanto ad instaurare il contraddittorio. Tuttavia, ove l'appello sia stato proposto con citazione, anziché con ricorso, è da escludere la nullità dell'atto di impugnazione, in applicazione del principio generale di conversione degli atti nulli, sempre che il deposito della citazione nella cancelleria del giudice adito sia avvenuto entro i termini perentori fissati dalla legge, non rilevando peraltro che in detti termini sia stata effettuata la notificazione all'appellato.

Cass. civ. n. 3596/1996

Nel giudizio diretto allo scioglimento (o alla cessazione degli effetti civili) del matrimonio, il tribunale, ancorché le parti, nell'udienza di comparizione davanti al giudice istruttore, abbiano chiesto fissarsi udienza di spedizione della causa in decisione solo in relazione alla dichiarazione di divorzio, può legittimamente pronunziare — senza che il relativo provvedimento sia inficiato da nullità — sentenza non definitiva, con la quale, oltre a dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio, disponga l'affidamento del figlio minore ad uno dei coniugi, regoli il diritto di visita dell'altro e ponga a carico di quest'ultimo un contributo per il mantenimento del minore stesso, in quanto l'art. 4, comma 9, L. n. 898 del 1970, come modificato dall'art. 8, L. n. 74 del 1987 — che prevede, anche senza istanza di parte, la pronunzia di sentenza non definitiva di divorzio nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell'assegno divorzile — non esclude che il tribunale si pronunzi, in sede non definitiva, anche in ordine all'affidamento ed al mantenimento della prole (ove ritenga già acquisiti elementi sufficienti per l'emanazione degli stessi), considerato, altresì, che trattasi di provvedimenti che sono sottratti all'iniziativa e alla disponibilità delle parti, in quanto rivolti a soddisfare esigenze e finalità pubblicistiche, e possono essere adottati d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio di merito.

Cass. civ. n. 1314/1996

L'art. 4, comma 9, L. 1 dicembre 1970, n. 898, nel testo introdotto dall'art. 8 della L. 6 marzo 1987, n. 74 — il quale prevede, anche senza istanza di parte, la pronuncia di sentenza non definitiva di divorzio, nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell'assegno — configura non una deroga, ma un'ipotesi di applicazione del principio generale di cui all'art. 277, comma 2, c.p.c., con l'unico elemento distintivo della sostituzione all'istanza di parte ed alla necessaria verifica della sussistenza di un apprezzabile interesse concreto di questa alla sollecita definizione della domanda, di una valutazione generale ed astratta della rispondenza della pronuncia non definitiva ad un interesse siffatto. Conseguentemente vanno ravvisati i presupposti per una pronuncia non definitiva di divorzio in ogni caso in cui restino ancora da definire i rapporti patrimoniali tra i coniugi ovvero quelli, patrimoniali e non, nei confronti dei figli o anche altre questioni pendenti tra le parti che richiedano indagini istruttorie.

Cass. civ. n. 11315/1995

Con la nuova disciplina del processo di divorzio introdotta con l'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74, che ha sostituito l'art. 4 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, è stato abrogato il potere del presidente del tribunale di assegnare un termine perentorio all'attore per notificare al convenuto la fissazione dell'udienza di comparizione davanti al giudice istruttore, con la conseguenza che l'eventuale assegnazione di tale termine risulta irrilevante. (Nella specie, non essendo stato notificato alla convenuta, non comparsa all'udienza presidenziale, il verbale di tale udienza entro il termine perentorio fissato dal presidente, l'attore aveva ottenuto dal giudice istruttore la fissazione di un nuovo termine).

Cass. civ. n. 10763/1995

Al fine dell'accoglimento della domanda congiunta di divorzio, ai sensi dell'art. 4 tredicesimo comma della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo fissato dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74), la «verifica» dei presupposti del divorzio stesso, quale quello dell'inizio della separazione di fatto (art. 3 n. 2 lett. b, della citata legge), non può esaurirsi in una mera presa d'atto di situazioni evidenti ed inconfutabili, richiedendo le indagini compatibili con il rito camerale, a norma dell'art. 738 c.p.c. Pertanto, a fronte di concordanti dichiarazioni dei coniugi in ordine alla data dell'insorgenza di detta separazione di fatto, il «divorzio consensuale» non può essere negato soltanto sulla base di dubbi circa l'attendibilità di tali dichiarazioni, e sotto il profilo della necessità di attività istruttoria, in quanto occorre preventivamente riscontrare la non superabilità dei dubbi medesimi attraverso l'audizione degli istanti e l'assunzione delle opportune informazioni.

La pronuncia della Corte d'appello, resa in esito al reclamo proposto contro il provvedimento camerale del tribunale sulla domanda congiunta di divorzio (art. 4 tredicesimo comma, nuovo testo, della legge 1 dicembre 1970, n. 898), è impugnabile con ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., in quanto espressamente assoggettata alla forma della sentenza (in coerenza con la sua portata decisoria).

Cass. civ. n. 9163/1995

Qualora — come in materia di appello avverso le sentenze di separazione o di divorzio — sia previsto il rito camerale, la trattazione della controversia da parte del giudice adito con il rito ordinario non determina alcuna nullità del procedimento e della sentenza successivamente emessa, se la parte non deduca e dimostri che dall'adozione di un rito diverso le sia derivata la lesione del diritto di difesa.

Cass. civ. n. 8049/1995

Nella determinazione del luogo di residenza del convenuto, anche al fine della competenza per territorio in ordine alla domanda di separazione personale (art. 4 L. n. 898 del 1970, sostituito dall'art. 8 L. n. 74 del 1987, richiamato, quanto ai giudizi di separazione, dall'art. 23 di quest'ultima legge), il principio della corrispondenza tra residenza anagrafica e residenza effettiva costituisce una presunzione semplice, superabile con ogni mezzo di prova idoneo ad evidenziare l'abituale e volontaria dimora di un soggetto in un luogo diverso; allorché si provi o risulti in concreto che il terzo di buona fede — che può anche essere il coniuge separato di fatto — fosse a conoscenza della mancata corrispondenza fra residenza anagrafica e residenza effettiva, non può operare, rispetto a detto terzo, la più rigorosa disciplina prevista dall'art. 44 c.c. in ordine all'opponibilità del trasferimento della residenza. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto superata la presunzione di corrispondenza tra residenza anagrafica e residenza effettiva su presupposto che il coniuge ricorrente fosse a conoscenza che la moglie, fin da un mese prima della presentazione del ricorso, vivesse con i figli in altro comune, presso il cui ufficio di stato civile aveva presentato dichiarazione di trasferimento, e nel quale il ricorrente medesimo aveva indirizzato cartoline ai figli qualche tempo dopo la presentazione del ricorso).

Cass. civ. n. 6737/1995

Il giudice del divorzio, nell'emettere la sentenza che dispone la somministrazione dell'assegno di divorzio, può disporre, ai sensi dell'art. 4, comma decimo, della L. 1 dicembre 1970, n. 898, come novellato dall'art. 8 della L. 6 marzo 1987, n. 74, che l'assegno decorra dalla data di notifica della domanda introduttiva anziché dalla data del passaggio in giudicato della pronuncia di scioglimento (di cessazione degli effetti civili) del matrimonio, ma non può fissare la decorrenza dell'assegno da un momento diverso, intermedio tra le suddette due date, nemmeno in considerazione di esigenze equitative, atteso che il conferimento al giudice di un potere discrezionale così ampio ed incisivo non appare giustificato dalla formulazione della norma, né dai relativi lavori preparatori.

Cass. civ. n. 4395/1995

L'appello contro la sentenza che abbia pronunciato congiuntamente su cause di cui all'art. 4, comma dodicesimo, L. 1 dicembre 1970, n. 898 (come modificato dall'art. 3 della L. 6 marzo 1987, n. 74), soggette al rito camerale, e su altre domande soggette al rito ordinario deve svolgersi, in relazione a tutte le domande, col rito ordinario.

Cass. civ. n. 8288/1994

Il principio enunciato nell'art. 4 n. 10 della L. n. 898 del 1970, come sostituito dall'art. 8 della L. n. 74 del 1987 — secondo il quale il giudice del merito può far decorrere l'assegno di divorzio, ove ne ricorrano le condizioni, dal momento della domanda — ha una portata generale ed è quindi applicabile non solo nell'ipotesi espressamente prevista in cui si sia pronunciato il divorzio con sentenza non definitiva, ma anche in quella in cui con la stessa decisione si sia dichiarato lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio e si sia condannato un coniuge a corrispondere all'altro l'assegno di divorzio, senza peraltro che sia necessaria un'apposita domanda di parte in ordine alla decorrenza dell'assegno; ciò non costituisce deroga al principio secondo il quale l'assegno di divorzio, trovando la propria fonte nel nuovo status delle parti, decorre dal passaggio in giudicato della relativa statuizione, bensì un temperamento a tale principio, col conferire al giudice il potere discrezionale, in relazione alle circostanze del caso concreto, di disporre la decorrenza di esso alla data della domanda, senza che a tal fine la pronuncia di sentenza non definitiva costituisca un necessario requisito per l'esercizio di detto potere.

Cass. civ. n. 5537/1994

Ai fini dell'identificazione del regime di impugnabilità delle sentenze non definitive di divorzio, con continuazione del giudizio per la determinazione dell'assegno occorre avere riguardo alla data della loro pubblicazione, nel senso che, ive questa sia posteriore alla data di entrata in vigore della L. 6 marzo 1987, n. 74, deve trovare applicazione, in forza della disposizione transitoria di cui all'art. 23, comma 3, la disciplina dettata dalla legge medesima ed in particolare dell'art. 8 — sostitutivo dell'art. 4, comma 9, L. n. 898 del 1970 — con conseguente esclusione del regime della riserva di impugnazione ed ammissibilità soltanto dell'appello immediato.

Cass. civ. n. 3164/1994

L'art. 4, ottavo comma, L. 1 dicembre 1970, n. 898, come modificato dall'art. 8, L. 6 marzo 1987, n. 74, disponendo che i provvedimenti urgenti e temporanei resi dal presidente del tribunale all'esito della personale comparizione dei coniugi divorziandi sono revocabili e modificabili dal giudice istruttore con applicabilità dell'art. 189 att. c.c., ha l'effetto di innestare nel giudizio di divorzio le disposizioni dettate da tale ultima norma per gli analoghi provvedimenti presidenziali in sede di separazione personale, con la conseguenza che, quando quel giudizio di divorzio non sia più coltivato dopo essere stato iniziato, sicché debba ritenersi abbandonato, i suddetti provvedimenti adottati in limite conservano bensì la loro efficacia, ma come disciplina dei rapporti fra coniugi ancora legati dal vincolo matrimoniale, di guisa che, se questi vivono in regime di separazione personale — che non è rimosso dal solo fatto di avere iniziato un procedimento di divorzio non giunto al suo fine — i provvedimenti stessi sono suscettibili di modificazione secondo il disposto dell'art. 710 c.c.

Cass. civ. n. 6049/1993

Disporre la decorrenza dell'assegno di divorzio dal momento della domanda, ai sensi dell'art. 4, comma 10, della L. 1 dicembre 1970, n. 898 così come sostituito dall'art. 8 della L. 6 marzo 1987, n. 74, non costituisce un obbligo per il giudice, bensì soltanto una facoltà discrezionale, in ordine al cui mancato esercizio non si richiede una specifica motivazione, comportando la norma sopra menzionata deroga al principio generale secondo il quale, quando il diritto all'assegno dipende da un nuovo status rispetto al quale la pronuncia del giudice ha efficacia costitutiva, gli effetti di tale sentenza non possono prodursi se non dal momento in cui passa in giudicato, con la conseguenza che la mancata retroattività dell'assegno divorzile significa che il giudice ha implicitamente ritenuto opportuno conservare, per tutta la durata del giudizio di divorzio, il regime della separazione.

Cass. civ. n. 5259/1993

Con riguardo a sentenza di divorzio, resa dal tribunale anteriormente all'entrata in vigore della L. 6 marzo 1987, n. 74, l'appello, ai sensi della disposizione transitoria dell'art. 23, terzo comma di detta legge, è regolato dalla disciplina della legge stessa e quindi, ai sensi dell'art. 8 di essa, nella parte in cui sostituisce l'art. 4, dodicesimo comma della L. 1 dicembre 1970, n. 898, è soggetto al rito camerale e va proposto con ricorso da depositarsi in cancelleria nei termini perentori di cui agli artt. 325-327 c.p.c., con la conseguenza che, in caso di proposizione dell'appello con citazione, anziché con ricorso, l'appello medesimo è da ritenersi tempestivo solo quando il deposito del relativo atto presso la cancelleria del giudice ad quem sia avvenuta nei termini suddetti, senza che all'eventuale tardività sia consentito porre rimedio con un provvedimento di rimessione in termini, sul rilievo di un errore scusabile, restando questo inammissibile con riguardo all'anzidetta fattispecie processuale, estranea alla disciplina eccezionale dell'art. 294 c.p.c., senza porsi in contrasto con precetti costituzionali.

Cass. civ. n. 4930/1988

Anche prima dell'entrata in vigore della L. 6 marzo 1987, n. 74, che all'art. 8 ha esteso l'applicabilità dell'art. 189 disp. att. c.p.c. e, quindi, ha attribuito la natura di titolo esecutivo all'ordinanza con cui il presidente del tribunale, ai sensi dell'art. 4, quinto comma, della L. n. 898 del 1978, pronuncia i provvedimenti temporanei ed urgenti nel giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, detta ordinanza costituisce titolo esecutivo per il pagamento dell'assegno provvisorio disposto senza che la relativa efficacia, con riguardo al detto assegno (ovvero alla differenza rispetto a quanto corrisposto dal coniuge a seguito della separazione) dovuto per il periodo dalla sua pronuncia al momento della conclusione del giudizio di divorzio, possa venir meno in conseguenza del successivo passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa dell'improponibilità della domanda di divorzio.

Cass. civ. n. 7957/1987

Nel giudizio di divorzio, e dopo che le parti, rimasto vano il tentativo presidenziale di conciliazione, siano state rimesse davanti all'istruttore, deve ritenersi consentito al coniuge convenuto, fino all'udienza di comparizione davanti a detto istruttore, non solo di chiedere il riconoscimento dell'assegno divorzile, ma anche di aderire alla domanda di divorzio, ovvero di fare propria la domanda stessa in caso di rinuncia del coniuge istante, senza che si richieda una rinnovazione di quel tentativo di conciliazione.

Cass. civ. n. 5865/1987

Nel giudizio di divorzio, l'omissione del tentativo di conciliazione dei coniugi, per effetto della mancata comparizione di uno di essi all'udienza presidenziale all'uopo fissata, può ritenersi illegittima, e quindi idonea ad invalidare i successivi atti del processo, in relazione a gravi motivi giustificativi di detta mancata comparizione (art. 4 quarto comma della L. 1 dicembre 1970, n. 898), solo quando la parte assente abbia assolto l'onere di dare ritualmente tempestiva ed adeguata comunicazione dei motivi stessi. All'indicato fine, pertanto, deve negarsi rilevanza ad una comunicazione d'impedimento (per ragioni di salute) che venga indirizzata al presidente del tribunale nella immediata antecedenza dell'udienza (nella specie, nell'avanzato pomeriggio del giorno precedente) e senza alcuna specificazione atta a consentire una rapida individuazione del processo cui si riferisca.

Cass. civ. n. 5874/1981

Poiché nel procedimento di divorzio il tentativo di conciliazione costituisce un mezzo essenziale, che unitamente agli altri elementi risultanti dagli atti, vale a fornire al giudice la dimostrazione di quell'irreversibile frattura della comunione di vita costituente presupposto indispensabile per la pronunzia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il mancato esperimento di tale tentativo costituisce ostacolo alla prosecuzione del giudizio, solo quando sia stato determinato da un legittimo impedimento di uno dei coniugi a comparire. Pertanto, ove non venga provata la sussistenza di un grave motivo che giustifichi l'assenza del convenuto (malattia che impedisca alla parte di recarsi all'udienza, detenzione, emigrazione ecc.), deve considerarsi pienamente legittima la prosecuzione del processo di divorzio e compiutamente valida la pronuncia resa, nonostante il mancato espletamento del tentativo di conciliazione.

Cass. civ. n. 4119/1977

Nel procedimento di divorzio, la mancata comparizione di uno dei coniugi all'udienza fissata per il tentativo di conciliazione, ancorché giustificata da gravi e comprovati motivi, non incide sulla procedibilità dell'azione, e non impone di disporre una nuova udienza per detto tentativo, né in primo grado, né in grado di appello, rimanendo affidata alla insindacabile discrezionalità del giudice del merito la valutazione dell'opportunità di provvedere in tal senso.

Cass. civ. n. 3169/1976

Nel giudizio di divorzio, il tentativo di conciliazione delle parti, mediante audizione separata delle stesse, configura un atto necessario per l'indagine sull'irreversibilità della frattura spirituale e materiale fra i coniugi, e, quindi, sul presupposto della pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Pertanto, qualora, senza giustificazione, detto tentativo non sia stato effettuato né dal presidente del tribunale né dal giudice istruttore, ovvero sia stato compiuto senza le modalità prescritte, si verifica una nullità che rende illegittima la sentenza di divorzio. Per contestare che il tentativo di conciliazione dei coniugi, nel giudizio di divorzio, sia stato ritualmente ed effettivamente compiuto, benché dal verbale di udienza risulti (soltanto) che sentiti i coniugi, prima separatamente e poi congiuntamente, si dà atto che il tentativo di conciliazione non riesce, è necessaria la proposizione della querela di falso.

Cass. civ. n. 2875/1974

L'art. 4, comma quarto, della L. 1° dicembre 1970, n. 898, contenente la disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, rimette al prudente apprezzamento del presidente del tribunale la valutazione della sussistenza e della gravità dei motivi che impediscono la comparizione personale delle parti e lo svolgimento del tentativo di conciliazione. Pertanto, nell'assenza di una delle parti, il rinvio dell'udienza di comparizione al fine di esperire tale tentativo costituisce l'esercizio di un potere eminentemente discrezionale, non sindacabile in sede di legittimità.

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Consulenze legali
relative all'articolo 4 Legge sul divorzio

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

B. D. chiede
martedì 05/12/2017 - Estero
“Quesito: competenza territoriale (foro) nel giudizio di divorzio.

“Stato in essere:
- sono italiano residente a Lugano in svizzera con permesso "C", iscritto all'A.I.R.E. nel comune di Pieve di Soligo (TV)
dove sono nato e registrato l'atto matrimoniale
- consorte ufficiosamente domiciliata a Tenero in svizzera, ma abita, come dichiarato alla corte d'appello di milano,
stabilmente in italia a Grandola ed Uniti (CO)
- residenti, dal 1980 fino al 2010 circa, a Grandola ed Uniti (CO)
- separazione ottenuta dal tribunale di Como a giugno 2012

quesito:
posso portare la pratica di divorzio presso il tribunale di Treviso? Oppure, secondo l'ordinanza della corte di cassazione 15186/14 o + recenti, devo, per competenza territoriale, presentarla solamente presso il tribunale di Como?
In ogni caso vorrei evitare che la controparte impugni l'ordinanza con ricorso per regolamento di competenza.
Sono a disposizione per eventuali chiarimenti


Consulenza legale i 13/12/2017
La norma che disciplina la competenza territoriale del Giudice chiamato a decidere nel procedimento di divorzio è l’art. 4 della Legge 898/1970, la quale – tra le altre - testualmente recita sul punto: ”1. La domanda per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio si propone al tribunale del luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza, del luogo in cui il coniuge convenuto ha residenza o domicilio (…)”.

Fino al 2008, la norma indicava i due fori speciali (quello dell’ultima residenza comune dei due coniugi e quello della residenza o domicilio del coniuge convenuto) come successivi, oltre che esclusivi e inderogabili.
Tuttavia, con sentenza n. 169 del 23/5/2008, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità del citato articolo 4 limitatamente alle parole "del luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza", rendendo il primo/principale criterio di determinazione della competenza territoriale quello del luogo di residenza o domicilio del coniuge convenuto.

La Corte ha ben spiegato che il criterio fissato dalla norma non è ragionevole.
Infatti, con l’espressione “in mancanza” si deve intendere solo l’ipotesi in cui la residenza comune dei coniugi non sia mai esistita (è pacifico infatti, in dottrina e in giurisprudenza, che i coniugi possano anche non avere mai avuto una residenza comune) e non anche quella in cui la residenza comune dei coniugi sia venuta meno.
E’ solo la prima la fattispecie ipotizzata dal legislatore - dal momento che l'art. 144, primo comma, del codice civile, nel prevedere l'obbligo della fissazione della residenza della famiglia, non esclude che, in concreto, i coniugi, per motivi legittimi, possano non procedere a tale fissazione.
Ma allora – secondo la Corte - qualora i coniugi abbiano avuto, per il passato, una residenza comune, per la norma in commento sarebbe stato necessario fare capo, ai fini della individuazione del giudice competente, al tribunale del luogo ove detta residenza si trovava anche nella ipotesi in cui, al momento dell'introduzione del giudizio, nessuna delle parti aveva più alcun rapporto con quel luogo.

Ciò è stato ritenuto manifestamente irragionevole, “non sussistendo alcuna valida giustificazione della adozione dello stesso, ove si consideri che, in tema di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella maggioranza delle ipotesi, la residenza comune è cessata, quanto meno dal momento in cui i coniugi, in occasione della domanda di separazione - giudiziale o consensuale - sono stati autorizzati a vivere separatamente, con la conseguenza che, tenute presenti le condizioni per proporre la successiva domanda di divorzio, non è ravvisabile alcun collegamento fra i coniugi e il tribunale individuato dalla norma”.

A seguito della predetta sentenza, dunque, unico e principale criterio (inderogabile) per l’individuazione del Giudice competente a decidere sul divorzio è quello del luogo della residenza o domicilio del convenuto: nel caso in esame il Tribunale competente, qualora a promuovere il giudizio sia il marito, sarà solo ed esclusivamente quello di residenza della moglie, ovvero Como.

Marco M. chiede
lunedì 07/05/2012 - Lazio
“La Sentenza di divorzio mi ha condannato a versare una somma a titolo di assegno divorzile.
La data apposta dall'Estensore in calce alla Sentenza è novembre 2011, mentre il deposito in Cancelleria è del marzo 2012.
Da quale data è legittimo far decorrere il pagamento disposto dal Tribunale?
Grazie.

p.s.: vi è analogia con "Risposta della redazione di Brocardi.it, al quesito N°3679 del venerdì 6 maggio 2011"?”
Consulenza legale i 09/05/2012

Ai sensi dell'art. 133 del c.p.c. la sentenza è resa pubblica mediante deposito nella cancelleria del giudice che l'ha pronunciata.

Al fine di rendere pubblica la sentenza vale quindi la data del deposito e non quella che viene apposta dal giudice estensore. Dalla data di pubblicazione comincerà a decorrere il termine cd. lungo per la sua impugnazione (art. 327 del c.p.c., a meno che la sentenza non venga notificata (in tal caso si dovrà applicare il termine breve, pari a 30 giorni dalla notifica per proporre l'appello, o 60 giorni per il ricorso per cassazione).

In merito al quesito posto, occorre precisare che l'assegno divorzile trovando la propria fonte nel nuovo status delle parti rispetto al quale la pronuncia del giudice ha efficacia costitutiva, dovrebbe decorrere dal passaggio in giudicato della statuizione di risoluzione del vincolo coniugale. A tale principio però l'art. 4 della L.n. 898/1970 ha introdotto un temperamento avendo conferito al giudice il potere di anticipare, in relazione alle circostanze del caso concreto e anche in assenza di specifica richiesta, la decorrenza dell'obbligo di corresponsione dell'assegno dalla data della domanda di divorzio. Sul punto merita di essere ricordato l'orientamento della giurisprudenza di legittimità in base al quale qualora il giudice ritenga discrezionalmente di dover anticipare il decorso dell'assegno divorzile dal momento della domanda è tenuto anche a fornire un'adeguata motivazione, fondata su presupposti di fatto della propria scelta.

Pertanto, nel caso concreto bisognerà verificare cosa ha statuito il giudice in merito al decorso dell'obbligo di corresponsione dell'assegno divorzile. Se non ha disposto l'anticipazione del decorso dell'assegno divorzile, l'obbligo di corrispondere la somma prevista decorrerà dal momento in cui la sentenza passerà in giudicato.