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Articolo 412 Codice di procedura civile

(R.D. 28 ottobre 1940, n. 1443)

[Aggiornato al 02/03/2024]

Risoluzione arbitrale della controversia

Dispositivo dell'art. 412 Codice di procedura civile

In qualunque fase del tentativo di conciliazione, o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti possono indicare la soluzione, anche parziale, sulla quale concordano, riconoscendo, quando è possibile, il credito che spetta al lavoratore, e possono accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla commissione di conciliazione il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia.

Nel conferire il mandato per la risoluzione arbitrale della controversia, le parti devono indicare:

  1. 1) il termine per l'emanazione del lodo, che non può comunque superare i sessanta giorni dal conferimento del mandato, spirato il quale l'incarico deve intendersi revocato;
  2. 2) le norme invocate dalle parti a sostegno delle loro pretese e l'eventuale richiesta di decidere secondo equità, nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari.

Il lodo emanato a conclusione dell'arbitrato, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli effetti di cui all'articolo 1372 e all'articolo 2113, quarto comma, del codice civile.

Il lodo è impugnabile ai sensi dell'articolo 808-ter. Sulle controversie aventi ad oggetto la validità del lodo arbitrale irrituale, ai sensi dell'articolo 808-ter, decide in unico grado il tribunale, in funzione di giudice del lavoro, nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato. Il ricorso è depositato entro il termine di trenta giorni dalla notificazione del lodo. Decorso tale termine, o se le parti hanno comunque dichiarato per iscritto di accettare la decisione arbitrale, ovvero se il ricorso è stato respinto dal tribunale, il lodo è depositato nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitrato. Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del lodo arbitrale, lo dichiara esecutivo con decreto.

Spiegazione dell'art. 412 Codice di procedura civile

Il comma 5 dell'art. 31 della Legge 183/2010 (c.d. collegato lavoro), che disciplina l'arbitrato presso la commissione di conciliazione. ha sostituito integralmente l'articolo in esame.

Il primo comma prevede che, in qualunque fase del tentativo di conciliazione, ovvero, in caso di mancata riuscita, anche al termine di esso, le parti possono indicare la soluzione anche parziale sulla quale concordano, riconoscendo, quando è possibile, il credito che spetta al lavoratore, e così accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla commissione di conciliazione il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia.

Nel conferire mandato per la risoluzione arbitrale della controversia, le parti devono indicare:
a) il termine, che non può comunque superare i sessanta giorni dal conferimento del mandato entro cui il lodo deve essere emanato (spirato tale termine, l'incarico si intende revocato);
b) le norme che la commissione applica al merito della controversia, ivi compresa la decisione secondo equità, nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari.

Nell'arbitrato di equità la controversia può essere risolta in deroga alle disposizioni di legge, il che incide sulla stessa disciplina sostanziale del rapporto di lavoro, rendendola estremamente flessibile anche sul piano del rapporto individuale.
Sotto questo profilo, non può considerarsi garanzia sufficiente il generico richiamo che la norma fa al rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento, in quanto tale rinvio non appare idoneo a ricomprendere tutte le ipotesi di diritti indisponibili, al di là di quelli costituzionalmente garantiti.

Ulteriori perplessità suscita l'estensione della possibilità di ricorrere a tale tipo di arbitrato anche in materia di pubblico impiego, risultando in tal caso particolarmente evidente la necessità di chiarire se ed a quali norme si possa derogare senza ledere i princìpi di buon andamento, trasparenza ed imparzialità dell'azione amministrativa espressi all'art. 97 Cost..

Il terzo comma dispone che il lodo emanato a conclusione dell'arbitrato, sottoscritto dagli arbitri ed autenticato:
  1. produce fra le parti gli effetti di cui all’art. 1372 del c.c. ed al quarto comma dell’art. 2113 del c.c.. Secondo quanto previsto dall’art. 1372 c.c., il contratto ha forza di legge tra le parti, non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge e non produce effetti nei confronti dei terzi tranne che nei casi previsti dalla legge.
Il quarto comma dell’art. 2113 c.c., invece, sottrae la conciliazione avvenuta in sede di tentativo obbligatorio di conciliazione alla generale previsione di invalidità (prevista dai precedenti commi del medesimo articolo) delle rinunzie e della transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'art. 409 del c.p.c. (per effetto di tale richiamo, dunque, anche l'arbitrato irrituale previsto dall'articolo in esame si sottrae a tale divieto).
b) acquista efficacia di titolo esecutivo per effetto del provvedimento emesso dal giudice su istanza della parte interessata, e ciò malgrado l’impugnazione;
c) è impugnabile secondo quanto previsto dall'art. 808 ter del c.p.c..

Quest’ultima norma si occupa dell’arbitrato irrituale, e stabilisce che le parti possono, con disposizione espressa per iscritto, stabilire che, in deroga a quanto disposto dall'art. 824 bis del c.p.c., la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale.
Il giudice competente secondo le disposizioni del libro I può annullare il lodo contrattuale nei seguenti casi:
1) se la convenzione dell'arbitrato è invalida, ovvero se gli arbitri hanno pronunciato su conclusioni che esorbitano dai loro limiti e la relativa eccezione è stata sollevata nel corso del procedimento arbitrale;
2) in caso di arbitri non nominati secondo le forme e nei modi stabiliti dalla convenzione arbitrale;
3) se il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro ex art. 812 del c.p.c.;
4) se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come condizione di validità del lodo;
5) se, nel corso del procedimento arbitrale, non è stato osservato il principio del contraddittorio.
Nell’ipotesi di lodo contrattuale non trova applicazione l'art. 825 del c.p.c..

Il lodo reso dalla commissione di conciliazione può essere impugnato nei casi previsti dall'art. 808 ter del c.p.c., nei limiti in cui possano trovare applicazione le cause di annullabilità in tale norma elencate, in unico grado dinanzi al Tribunale del lavoro nella cui circoscrizione ha sede l'arbitrato.
Il richiamo all'art. 808 ter c.p.c. vale a connotare il procedimento qui disciplinato in termini di arbitrato irrituale.

Massime relative all'art. 412 Codice di procedura civile

Cass. civ. n. 18110/2015

La domanda di risarcimento per danno da "mobbing", avanzata dal socio di una società cooperativa nei confronti della compagine sociale in relazione a prestazioni lavorative ricomprese nell'oggetto sociale, rientra nella competenza funzionale del giudice del lavoro anche quando i rapporti di lavoro instaurati siano temporanei, permanendo la distinzione con il rapporto sociale, sicché, in forza dell'art. 806 c.p.c. (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 40 del 2006, "ratione temporis" applicabile), la clausola compromissoria, contenuta nello statuto della cooperativa e non prevista da accordi o contratti collettivi, non è idonea a impedire la valida adizione dell'autorità giudiziaria.

Cass. civ. n. 381/1997

È costituzionalmente illegittimo l'art. 18 del regio decreto legge 1 luglio 1926 n. 2290 ("Ordinamento dei magazzini generali"), convertito dalla legge 9 giugno 1927 n. 1158, il quale, stabilendo che le "controversie" insorte tra gli esercenti i magazzini generali ed i depositanti, in ordine all'applicazione delle tariffe, "saranno risolte dal competente Consiglio provinciale dell'economia" (ora Camera di commercio), senza consentire alle parti di optare per la risoluzione in via giudiziaria delle controversie medesime, prevede una forma di arbitrato obbligatorio e, in quanto tale, costituzionalmente illegittimo per contrasto con gli artt. 24 e 102 della Costituzione, secondo il costante insegnamento della Corte (vedi, tra le altre, le sentenze n. 127 del 1977, n. 488 del 1991, n. 49 del 1994, n. 206 del 1994, n. 232 del 1994, n. 54 del 1996 e n. 152 del 1996).

Cass. civ. n. 152/1996

Illegittimità costituzionale dell'art. 16 della legge 10 dicembre 1981 n. 741 che ha sostituito l'art. 47 del D.P.R. n. 1063 del 1962, impugnato, in riferimento agli artt. 24 e 102 della Costituzione, nella parte in cui stabilisce che la competenza arbitrale non può essere derogata con atto unilaterale di ciascuno dei contraenti, bensì solo con una clausola inserita nel bando o nell'invito di gara, ovvero nel contratto in caso di trattativa privata, in quanto tale norma, rendendo di fatto obbligatoria la competenza arbitrale nelle controversie nascenti dai contratti di appalto di opere pubbliche, viola il principio costituzionale, secondo cui solo a fronte della concorde e specifica volontà delle parti sono consentite deroghe alla regola della statualità della giurisdizione.

Corte cost. n. 49/1994

Come la Corte ha già più volte affermato e nella specie va ribadito, l'arbitrato è costituzionalmente legittimo solo nell'ipotesi in cui la fonte dell'obbligatorietà sia conseguente alla concorde volontà delle parti di vincolarsi a derogare al fondamentale principio della statualità della giurisdizione. Conseguentemente va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 26, comma settimo, del D.L. 7 maggio 1980, n. 153, convertito in legge 7 luglio 1980, n. 299, nella parte in cui dispone che, in caso di mancato accordo tra il Comune ed il concessionario del servizio di pubbliche affissioni, relativamente alla revisione delle misure dell'aggio, del minimo garantito e del canone fisso convenute, nei contratti in corso, la revisione è demandata alla commissione arbitrale di cui al R.D.L. 25 gennaio 1931, n. 36, convertito nella legge 9 aprile 1931, n. 460.

Corte cost. n. 127/1977

Spetta al legislatore, con la previsione di procedure preliminari di carattere amministrativo (sent. n. 62 del 1968), con la istituzione di sezioni specializzate presso gli organi giudiziari (art. 102, secondo comma, Cost.) e con altri modi di intervento non contrastanti con la Costituzione, di ovviare agli eventuali inconvenienti cui si è inteso di far fronte con l'imposizione di arbitrati ex lege.

Corte cost. n. 174/1972

È costituzionalmente illegittimo l'art. 49, terzo comma, del contratto collettivo di lavoro 24 maggio 1956 per i dipendenti delle case di cura private, recepito dall'articolo unico del D.P.R. 14 luglio 1960 n. 1040, nella parte che fa decorrere il termine di decadenza per i reclami dei dipendenti medesimi dal giorno in cui il pagamento venga effettuato o omesso, anche per i rapporti di lavoro non considerati dalla legge 15 luglio 1966 n. 604, e successive modificazioni.

Corte cost. n. 63/1966

Sono costituzionalmente illegittimi, in riferimento all'articolo 36 Cost. l'art. 2948, n. 4, l'art. 2955, n. 2 e l'art. 2956, n. 1 c.c., limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro. Il precetto costituzionale ammette la prescrizione del diritto al salario, ma non ne consente il decorso finché permane il rapporto di lavoro durante il quale essa maschera spesso una rinunzia ad una parte dei propri diritti nel timore del recesso (licenziamento). Le norme indicate, anche se non si riferiscono al negozio di rinuncia, consentono che la prescrizione prenda inizio dal momento in cui matura il diritto ad ogni singola prestazione salariale. Pur in assenza di ostacoli giuridici a far valere il diritto al salario, sussistono peraltro ostacoli materiali, in quanto il lavoratore può essere indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a rinunciarvi, cioè per timore del licenziamento. Ma l'art. 36 Cost. ha inteso vietare qualsiasi tipo di rinunzia, anche quella che in particolari situazioni può essere implicata nel mancato esercizio del proprio diritto e pertanto, nel fatto che si lasci decorrere la prescrizione. La rinunzia, quando è fatta durante il rapporto, non può essere considerata una libera espressione di volontà negoziale e la sua invalidità a tutela del contraente più debole è sancita dalla norma costituzionale.

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