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Articolo 742 Codice di procedura civile

(R.D. 28 ottobre 1940, n. 1443)

[Aggiornato al 28/02/2023]

Revocabilità dei provvedimenti

Dispositivo dell'art. 742 Codice di procedura civile

I decreti (1) possono essere in ogni tempo modificati o revocati (2), ma restano salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in forza di convenzioni anteriori alla modificazione o alla revoca (3).

Note

(1) I decreti sono provvedimenti modificabili e revocabili in ogni tempo, anche se sono divenuti efficaci ai sensi della norma precedente (art. 741 del c.p.c.). Pertanto, si tratta di provvedimenti che non sono idonei a passare in giudicato.
Sia la revoca che la modifica si ritengono esercitabili sia per i provvedimenti con efficacia continuata o periodica, sia per quelli con efficacia immediata o istantanea, ed anche se siano scaduti i termini per il reclamo. Diversamente, non è modificabile o revocabile un provvedimento negativo poiché il rigetto non impedisce la riproposizione dell'istanza.
(2) La richiesta di revoca va presentata mediante ricorso al giudice che ha pronunciato il decreto da parte di tutti i soggetti che potevano promuovere il procedimento di primo grado, anche se non vi hanno effettivamente partecipato, ed il pubblico ministero. Nello specifico se si tratta di revoca di un provvedimento non impugnato competente sarà il giudice di primo grado, diversamente, se si tratta di provvedimenti emessi in sede di reclamo sarà competente il giudice di secondo grado.
Infine, si precisa che i decreti emessi su iniziativa del giudice possono essere revocati o modificati d'ufficio.
(3) La norma limita l'efficacia retroattiva della revoca o della modifica facendo salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede in forza di convenzioni a titolo oneroso anteriori al provvedimento di revoca o modifica. Con l'espressione "terzi" la norma si riferisce a coloro che non hanno partecipato al procedimento conclusosi con il provvedimento revocato, ma sono parte del negozio concluso in forza di quest'ultimo. La ratio della norma in analisi si riscontra nella necessità di tutelare coloro che abbiano fatto affidamento sull'esistenza e l'efficacia di un provvedimento che, emanato da un giudice, doveva presumersi legittimo.

Spiegazione dell'art. 742 Codice di procedura civile

Quando si parla di revoca del decreto ci si intende riferire al suo ritiro per motivi di legittimità o di opportunità, mentre nella modifica vi si deve far rientrare sia la revoca parziale che l'integrazione del provvedimento.
Sia la revoca che la modifica vanno chieste con ricorso e sono due le tipologie di vizi che possono farsi valere, ovvero:
a) vizi di legittimità: si intendono come tali sia i vizi del provvedimento che quelli derivanti dall'erronea applicazione del diritto sostanziale;
b) vizi di merito (o di opportunità dell'atto): secondo una tesi restrittiva, con la revoca si potrebbero dedurre unicamente i motivi di merito sopravvenuti non dedotti né esaminati precedentemente, mentre con il reclamo i vizi originari.

La norma in esame si applica ai provvedimenti camerali che hanno la forma del decreto (pertanto, vanno escluse le ordinanze e le sentenze emesse in camera di consiglio).
E’ controverso, in assenza di una espressa previsione normativa, se la fattispecie normativa in esame possa trovare applicazione solo con riferimento ai provvedimenti collegiali (camerali in senso proprio) o se possa essere estesa anche ai provvedimenti presidenziali.
E’ altresì controverso se in caso di avvenuta esecuzione del provvedimento, debba intendersi preclusa la revocabilità dello stesso (la giurisprudenza è favorevole alla tesi estensiva).

Per quanto concerne il giudice competente ad emettere i provvedimenti di revoca e modifica, tale competenza spetta allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento di cui si chiede la revoca o la modifica.
In seguito alla decisione sul reclamo, prevale in giurisprudenza (ma non in dottrina) la tesi secondo cui competente a decidere sulla revoca e sulla modifica è lo stesso giudice che ha emesso la pronuncia sul reclamo e non quello di prima istanza.

Legittimati a chiedere la revoca o la modifica del provvedimento cautelare sono tutti coloro che potevano promuovere il procedimento, compreso il P.M. (per le ipotesi in cui lo stesso deve essere sentito ex art. 738 del c.p.c. ovvero per quei casi in cui sia intervenuto ravvisandone l'utilità), a prescindere dal fatto che abbiano partecipato o meno al giudizio.
Sono anche legittimati eventuali controinteressati, nonché in genere tutti coloro che avrebbero dovuto essere sentiti nel procedimento e che non lo furono.

Anche il procedimento di revoca o di modifica si svolge secondo la disciplina dettata dagli artt. 737 e ss. c.p.c. e va considerato come una prosecuzione del precedente procedimento conclusosi con l'emanazione del provvedimento da revocare o modificare.

Poiché i decreti possono essere modificati o revocati in ogni tempo, gli stessi non sono idonei ad acquistare autorità di cosa giudicata.

La norma si occupa poi della tutela degli eventuali diritti acquisiti nel frattempo dai terzi, dovendosi far rientrare nel concetto di terzi tutti coloro che non hanno partecipato al procedimento.
In particolare, si dispone che l'efficacia retroattiva della modifica e della revoca trovano un limite nell'affidamento di quei terzi che, in buona fede, abbiano acquistato diritti in forza di convenzioni stipulate anteriormente al provvedimento di revoca o di modifica.
Secondo la tesi che si ritiene preferibile, per "convenzioni" devono intendersi contratti, accordi, atti plurilaterali, con esclusione di:
1. negozi unilaterali inter vivos di contenuto patrimoniale;
2. atti a titolo gratuito, per i quali non può trovare applicazione l’art. 1445 del c.c., neppure in via analogica.
Ovviamente, la salvezza dei diritti dei terzi non può che riguardare quei diritti acquistati in forza di convenzione anteriore alla revoca.

Quanto alla buona fede, parte della dottrina la esclude in tutti i casi in cui il terzo conosceva o avrebbe dovuto conoscere, secondo un criterio di normale diligenza, l'esistenza del vizio del provvedimento al momento della convenzione.
Altra parte della dottrina, invece, è dell’idea che per buona fede del terzo debba intendersi o la sua radicale estraneità al procedimento camerale o la sua incolpevole ignoranza delle cause e dei modi per i quali il giudice è stato indotto a concedere un determinato provvedimento, che poi ha deciso di revocare o modificare.
Infine, si ritiene che la valutazione della buona fede del terzo debba farsi rientrare nella discrezionalità del giudice di merito, il cui apprezzamento, se adeguatamente motivato, non è suscettibile di sindacato di legittimità.

Massime relative all'art. 742 Codice di procedura civile

Cass. civ. n. 30200/2011

Il decreto della corte d'appello, emesso in un procedimento contenzioso avente ad oggetto l'attribuzione di una quota di T.F.R., ai sensi dell'art. 12 bis della legge 1º dicembre 1970, n. 898, ha valore di sentenza ed è idoneo a passare in giudicato, onde non è revocabile ai sensi dell'art. 742 c.p.c. - norma che riguarda i soli procedimenti di volontaria giurisdizione e che si riferisce proprio ai decreti conclusivi di tali procedimenti ma privi del carattere di decisorietà - essendo impugnabile, qualora ne sussistano i presupposti, con l'azione di revocazione di cui all'art. 395 c.p.c. Ne consegue che è inammissibile il ricorso per cassazione proposto avverso il decreto in tal caso emesso dalla corte d'appello su ricorso ex art. 742 c.p.c..

Cass. civ. n. 21190/2005

Il decreto con cui la Corte d'appello provvede, su reclamo delle parti ex art. 739 c.p.c., alla revisione delle condizioni inerenti ai rapporti patrimoniali fra i coniugi divorziati ed al mantenimento della prole, ha carattere decisorio e definitivo, ed è pertanto ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., mentre non può essere revocato o modificato ai sensi dell'art. 742 c.p.c., il quale si riferisce unicamente ai provvedimenti camerali privi dei predetti caratteri di decisorietà e definitività; ne consegue che un eventuale provvedimento di revoca o modifica del decreto in questione ai sensi dell'art. 742 c.p.c. deve ritenersi privo di effetti giuridici, in quanto emanato dal giudice in carenza assoluta di potere giurisdizionale, e non è quindi impugnabile con il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.

Cass. civ. n. 11268/2004

La convalida del trattenimento dello straniero espulso dal territorio dello Stato disposto dal questore ai sensi dell'art. 14 del D.L.vo 25 luglio 1998, n. 286, non è revocabile a norma dell'art. 742 c.p.c., in quanto tale norma non è invocabile tutte le volte che il provvedimento abbia, come nel caso, carattere decisorio e natura sostanziale di sentenza, non rilevando, in proposito, il richiamo al procedimento in camera di consiglio espresso nell'art. 13 bis, e la menzione, negli artt. 13 e 14 dello stesso decreto, degli artt. 737 ss. c.p.c.; né l'esclusione espressa della reclamabilità per i giudizi di espulsione (art. 13 bis del D.L.vo n. 286 del 1998, come modificato dall'art. 4 del D.L.vo 13 aprile 1999, n. 113), e non per quelli di convalida (art. 14, comma 6 del D.L.vo n. 286 del 1998), vale a consentire, per implicito, la reclamabilità di questi ultimi (la S.C. ha così annullato senza rinvio il provvedimento con il quale il tribunale aveva disposto, su istanza dell'espulso, la revoca del proprio precedente decreto di convalida).

Cass. civ. n. 4353/1993

In tema di provvedimenti di volontaria giurisdizione del giudice tutelare, sempre revocabili o modificabili a norma dell'art. 742 c.p.c., non è ipotizzabile una richiesta di riesame avanzata, anziché al giudice tutelare, al giudice (tribunale ordinario o tribunale per i minorenni) investito della competenza ad esaminare il reclamo (art. 45 disp. att. c.c.), il quale abbia già consumato tale potere respingendo il reclamo in precedenza proposto dal richiedente avverso il provvedimento del predetto giudice monocratico.

Cass. civ. n. 2395/1993

Il provvedimento in camera di consiglio, con il quale il tribunale decide, in materia di definizione delle imprese artigiane e di iscrizione nel relativo albo, sui ricorsi proposti contro le deliberazioni delle Commissioni regionali per l'artigianato, ai sensi dell'art. 7 della L. 8 agosto 1985, n. 443, rientra nell'ambito della volontaria giurisdizione – perché tendente alla tutela di situazioni soggettive riconducibili nella categoria dell'interesse legittimo – comportando un'attività oggettivamente amministrativa, connotata dalla modificabilità e revocabilità dei provvedimenti, ai sensi dell'art. 742 c.p.c., con il conseguente difetto di decisorietà e di idoneità al giudicato. Detto provvedimento deve essere, quindi, disapplicato in sede contenziosa quando difettino la competenza e i presupposti richiesti dalla legge per la sua concessione.

Cass. civ. n. 5173/1989

Il decreto della Corte d'appello con cui a norma dell'art. 801 c.p.c. è attribuita efficacia in Italia ad un provvedimento straniero di adozione di un minore non è revocabile, ai sensi dell'art. 742 c.p.c., atteso che, attribuendo al minore lo status di figlio adottivo, ha carattere decisorio e definitivo e, quindi, natura di sentenza.

Cass. civ. n. 1540/1983

Mentre la competenza a disporre la revoca di un provvedimento di volontaria giurisdizione per un preesistente vizio di legittimità o per un ripensamento sulle ragioni che indussero ad adottarlo spetta allo stesso giudice che lo ha emesso e, quindi, al giudice superiore se il provvedimento revocando sia stato adottato a seguito di reclamo, la competenza a disporre la revisione (totale o parziale) del provvedimento emesso in sede di reclamo, sulla base di fatti sopravvenuti, spetta al giudice competente ad emettere in primo grado il provvedimento stesso.

Cass. civ. n. 2546/1972

Il potere di revoca o di modifica dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, al quale si riferisce l'art. 742 c.p.c., spetta unicamente al giudice che ha emesso il provvedimento e non può essere esercitato dal giudice del contenzioso, al quale spetta unicamente un sindacato di mera legittimità e non anche la rivalutazione dei motivi di opportunità o di convenienza che hanno indotto il giudice a provvedere o il riesame dei presupposti in base ai quali lo stesso giudice ha provveduto in un determinato senso. Nei limiti del sindacato di legittimità che il giudice del contenzioso può esercitare in ordine ad un provvedimento di volontaria giurisdizione al fine di disapplicarlo e, quindi, di negarne l'efficacia, rientra la verifica dell'esistenza di un presupposto di legge per l'emanazione del provvedimento, in quanto esso condiziona l'esercizio del potere del giudice nel caso concreto. Rientra in tali limiti anche l'ipotesi in cui il provvedimento sia stato emesso sul falso ed errato presupposto della sussistenza di una situazione di fatto che si è, poi, rivelata insussistente.

Cass. civ. n. 1936/1963

In tema di procedimenti in camera di consiglio, l'art. 742 c.p.c., disponendo che i decreti possono essere in ogni tempo modificati o revocati, restando salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi, in forza di convenzioni anteriori alla modificazione o alla revoca, prevede, ai fini della tutela dei diritti dei terzi, una situazione negoziale che si svolge secondo un ordine cronologico rigoroso, costituito dal provvedimento del giudice, dalla convenzione e poi dal decreto di modificazione o di revoca e ricollega la buona fede del terzo, che deve sussistere al momento della convenzione, alla preesistenza del provvedimento poi modificato o revocato. Pertanto, la norma non trova applicazione nei casi in cui il provvedimento del giudice, anziché anteriore, sia successivo alla convenzione dalla quale derivano i diritti di cui il terzo richiede la tutela. La possibilità di modificazione o di revoca dei provvedimenti pronunziati in camera di consiglio, la quale è giustificata dalla mancanza della cosa giudicata in relazione al loro contenuto non decisorio, non trova limiti neanche nel compimento del negozio rispetto al quale quel provvedimento funziona da presupposto. In tal caso il rigore del principio, che indurrebbe all'annullamento del negozio per il venire meno del suo presupposto, è temperato dall'esigenza della tutela del diritto acquistato dal terzo di buona fede. Siffatta tutela, è, peraltro, ricollegata all'esistenza del provvedimento che ne costituisce il presupposto necessario e indefettibile. In sua mancanza, non è neanche ammissibile un'indagine sulla buona fede del terzo nel caso concreto, non essendo questa in alcun modo configurabile o ipotizzabile.

Cass. civ. n. 3322/1960

A norma dell'art. 742 c.p.c. la revoca, la modificazione e la dichiarazione di invalidità dei provvedimenti di volontaria giurisdizione non incidono sui diritti acquisiti dai terzi, in base ai negozi autorizzati dai provvedimenti stessi, quando i terzi siano in buona fede. Ad escludere la buona fede del terzo non basta l'omesso accertamento dei vizi da cui l'atto sia inficiato, ma occorre la conoscenza dei vizi stessi. L'ignoranza del vizio, infatti, ancorché dipenda da colpa grave, importa sempre buona fede, e non rileva che lo stato d'ignoranza del vizio avrebbe potuto essere eliminato usando una diligenza anche minima. Colui che contrae con persona, che dispone di un provvedimento autorizzativo di volontaria giurisdizione, ed acquista da questa diritti, è terzo rispetto al provvedimento di autorizzazione, al quale è rimasto estraneo. In caso di revoca, di modificazione o di dichiarazione di invalidità di detto provvedimento autorizzativo il terzo può invocare la sua buona fede, cioè l'ignoranza del vizio o della causa di revoca o modificazione, a norma dell'art. 742 c.p.c., sempre che il negozio da lui concluso sia anteriore alla revoca, modificazione o dichiarazione di invalidità del provvedimento di volontaria giurisdizione. Il principio, stabilito dall'art. 742 c.p.c. circa l'inopponibilità ai terzi dei provvedimenti di volontaria giurisdizione, si applica anche alle ipotesi di invalidità dei provvedimenti medesimi per incompetenza del giudice.

Cass. civ. n. 2623/1959

A norma dell'art, 742 c.p.c., la revoca, la modificazione e la dichiarazione d'invalidità dei provvedimenti di volontaria giurisdizione non incidono sui diritti acquistati dai terzi in base ai negozi autorizzati dai provvedimenti stessi, sempre che ricorrano le seguenti condizioni: a) l'esistenza di un provvedimento autorizzativo di volontaria giurisdizione, anche se illegittimo, o viziato, mentre nessun diritto potrebbe derivare al terzo, sia pure di buona fede, da un provvedimento giuridicamente inesistente, mancante di quel minimo di elementi necessari perché possa essere riconosciuto come provvedimento di volontaria giurisdizione; b) che i diritti del terzo sorgano da un negozio giuridico concluso prima della revoca, modificazione o dichiarazione di illegittimità del provvedimento di volontaria giurisdizione; c) che il terzo sia di buona fede, ad escludere la quale basta, perciò, la semplice conoscenza da parte del terzo dei vizi che inficiavano il provvedimento di volontaria giurisdizione. L'accertamento della sussistenza della buona fede nel terzo e della sua conoscenza dei vizi del provvedimento autorizzativo al tempo della conclusione del negozio giuridico impugnato, costituisce un giudizio rimesso insindacabilmente al giudice di merito, come tale incensurabile in cassazione se sorretto da motivazione congrua ed esente da vizi di logica o di diritto.

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Sergio C. chiede
mercoledì 28/02/2018 - Emilia-Romagna
“Egregio Avvocato,

Ho già usufruito del Vs/ utilissimo servizio prevalentemente circa i miei rapporti burrascosi col sistema giudiziario minorile e di presunta assistenza ai minori dei servizi sociali che ha visto mio nipote strappato alla famiglia d’origine con l’aggravante che tale stupro è stato perpetrato subito dopo la morte della mamma,tanto per rendergli la vita più facile.
Vorrei,una volta per tutte,che mi venissero indicate le norme,le leggi,le facoltà con indicazione delle relativi fonti, con le quali si stabiliscono con chiarezza ciò che possono o non possono fare costoro.Finora mi sono imbattuto solo su concetti astratti e lasciati alla personale interpretazione di chi legge. Per non parlare del codice deontologico della professione che non si spinge oltre alcune affermazioni di principio.

Anche a titolo esemplificativo riporto quanto sperimentato di persona:

1) Facoltà di modificare un provvedimento del T.M. informando lo stesso a cose fatte.
Nello specifico,mentre il decreto provvisorio emesso a suo tempo contemplava che solo i nonni potevano,almeno inizialmente,vedere il nipote con modalità protette,nella restrizione è stata inclusa anche la zia “in quanto compresa nella rete parentale materna” e comunque,a loro dire, coinvolta nelle vicenda al pari dei nonni.
Sempre nella stessa ottica di modifica di quanto stabilito nel decreto che recitava:”Il servizio regolamenterà i rapporti con i nonni materni…..” l’assistente sociale,unica a decidere su un provvedimento gravissimo,prendeva l’inziativa di sospendere a tempo indeterminato,praticamente cancellandoli,tutti i rapporti tra nonni e nipote in quanto,a suo dire, “turbativi” della sua psiche e secondo il desiderio del minore.

2) Facoltà di limitare la libertà personale e di movimento delle persone e di svolgere attività consentite dalla legge ma vietate da loro.
Nello specifico.Divieto imposto ai famigliari materni di avvicinarsi a luoghi che possono essere frequentati dal minore e che potrebbero causare un incontro col nipote anche casuale.
Stigmatizzazione,riportata nella relazione,e conseguente divieto del ripetersi del seguente episodio: “la rete parentale materna” (in realtà solo la nonna) avrebbe effettuato molte telefonate (in realtà solo una) alla mamma dell’amichetto del cuore di mio nipote dopo che i due si erano incontrati per “informarsi” sul nipote (in realtà per sapere come stava,non vedendolo da tempo immemorabile). Ciò avrebbe causato grande disagio al minore!
Divieto di registrare le conversazioni con il minore (uno dei motivi della soppressione degli incontri) ed anche nel corso dei colloqui con gli assistenti ai quali partecipavo. La pratica è legittima e il materiale registrato può essere utilizzato in giudizio. Sentenzia a tal proposito la Corte Suprema: ““ciascuno dei soggetti che partecipano ad una conversazione è pienamente libero di adottare cautele ed accorgimenti, e tale può essere considerata la registrazione, per acquisire, nella forma piu’ opportuna, documentazione e quindi prova di ciò che direttamente pone in essere o che è posto in essere nei suoi confronti […]” (Cass. Sent. n. 19158 del 20 marzo 2015).

Tutti gli esempi sopra riportati sono limitati agli episodi più significativi e,a meno che voi non mi documentiate il contrario,sono indicativi di un “far west in cui gli assistenti sociali sono sceriffi autonominatisi.

Vi prego di risparmiarmi consigli già impartitimi del tipo:”ti conviene sottometterti”, “il sistema te la farà pagare (già successo)” ecc.ecc. In quanto non mi rassegnerò mai,per il bene di tutti i minori,ad intraprendere una lotta senza quartiere contro questi soprusi.

Attendo la Vs/ consulenza con ansia e,nel frattempo,invio i migliori saluti.”
Consulenza legale i 07/03/2018
La professione di assistente sociale trova la sua disciplina nella legge 23 marzo 1993, n. 84, rubricata “Ordinamento della professione di assistente sociale e istituzione dell'albo professionale”.
L’art. 1 della predetta legge prevede che “l'assistente sociale opera con autonomia tecnico-professionale e di giudizio in tutte le fasi dell'intervento per la prevenzione, il sostegno e il recupero di persone, famiglie, gruppi e comunità in situazioni di bisogno e di disagio e può svolgere attività didattico-formative”.
Ai fini che qui specificamente interessano, ovvero del ruolo e dei poteri dell’assistente sociale nell’ambito dei procedimenti dinanzi al Tribunale per i minorenni, l’ultimo comma della norma in esame stabilisce che “nella collaborazione con l'autorità giudiziaria, l'attività dell'assistente sociale ha esclusivamente funzione tecnico-professionale”.
Il ruolo dell’assistente sociale dinanzi al Giudice minorile è dunque quello di un esperto, dotato di particolari competenze e di autonomia e indipendenza di giudizio, che interviene a vario titolo nelle diverse tipologie di procedimenti, sia civili (ad esempio giudizi sulla responsabilità genitoriale, o sull'adozione e affidamento di minori) che penali.
Sull’assimilabilità delle relazioni degli assistenti sociali alla consulenza tecnica e sulla possibilità di impugnazione o modifica dei provvedimenti adottati dall’Autorità giudiziaria sulla base delle stesse, questa Redazione ha già fornito in data 10.08.2016 esauriente risposta, alla quale si rimanda.
Da quanto sin qui esposto appare evidente come l’assistente sociale non disponga di alcun potere che gli consenta di “modificare” un provvedimento adottato dal Tribunale per i minorenni, in quanto un provvedimento dell’Autorità giudiziaria è revocabile, modificabile o annullabile, ricorrendone i presupposti, solo ad opera della stessa o di altra superiore Autorità giudiziaria competente.
Chiaramente, inoltre, l’assistente sociale, di per sé, non ha neppure il potere di imporre di propria iniziativa, e al di fuori dei limiti segnati e dei compiti attribuitigli dal provvedimento del Giudice, alcuna limitazione della libertà personale. Tuttavia al fine di comprendere se, nel caso di specie, gli assistenti sociali abbiano agito oltre i predetti limiti occorrerebbe una conoscenza approfondita tanto del fascicolo che della complessiva vicenda processuale.