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Articolo 923 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 27/03/2024]

Cose suscettibili di occupazione

Dispositivo dell'art. 923 Codice Civile

Le cose mobili(1) [812] che non sono proprietà di alcuno(2) si acquistano con l'occupazione.

Tali sono le cose abbandonate e gli animali che formano oggetto di caccia(3) o di pesca.

Note

(1) Relativamente agli edifici che non sono di proprietà di alcuno, vedasi l'art. 827 del c.c..
(2) Gli animali che possono essere cacciati fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato (art. 826 del c.c.).
La proprietà di quest'ultimo viene meno quando essi sono uccisi, producendosi, in tal modo, un acquisto a titolo originario in favore del cacciatore.
(3) Circa la selvaggina, vedasi l'art. 1, L. 1992, n.157.

Ratio Legis

Si discute se l'occupazione sia un atto giuridico in senso stretto o piuttosto un negozio (nel qual caso l'incapace non potrebbe acquistare per occupazione).

Brocardi

Animus derelinquendi
Animus occupandi
Derelictio
Id quod quis pro derelicto habet, continuo meum fit
Longo silentio res habetur pro derelicta
Occupatio
Quod nullius est, id naturali ratione occupanti conceditur
Res derelictae
Res nullius
Si res pro derelicto habita sit, statim nostra esse desinit et occupantis statim fit
Statim nostra desinit esse res quam derelinquimus

Spiegazione dell'art. 923 Codice Civile

Confronto del nuovo testo con quello del vecchio codice

L'art. 711 del codice civile del 1865 era cosi formulato: « Le cose che non sono ma possono venire in proprietà di alcuno si acquistano con l'occupazione. Tali sono gli animali che formano oggetto di caccia o di pesca, il tesoro e le cose mobili abbandonate ».

Basta confrontare il testo dei due articoli per rilevare che nel nuovo codice non vi sono, per questo articolo, novità sostanziali. La forma, tuttavia, dell'art. 923 vale per se stessa ad eliminare alcune delle questioni che erano state sollevate nella interpretazione dell'art. 711, ad es. quella che concerneva la possibilità di acquisto degli immobili, mediante occupazione.


Esclusione dell'acquisto degli immobili

Il nuovo testo parla espressamente di occupazione di cose mobili e implicitamente esclude quella degli immobili, mentre dicendosi nel codice del 1865, all'art. 710, in forma generica, che la proprietà si acqui- con l'occupazione e ribadendosi nell'art. 711 che « le cose.... si acquistano con l'occupazione », senza alcuna specificazione, sorgeva spontanea l'interpretazione che ii legislatore avesse voluto ammettere l'acquisto degli immobili per occupazione. La maggioranza della dottrina era in questo senso e tale prevalente opinione trovava appoggio, oltre che nella lettera della legge, in valide argomentazioni di carattere storico e logico.

Oggi, oltre che dal testo dell'art. 923, per se stesso già chiaro, ogni possibilità di dubbio sull'esclusione degli immobili dall'acquisto per occupazione è eliminata dall' art. 827 del c.c., il quale stab-lisce che « i beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato ».


Elementi dell'occupazione. Elemento soggettivo

Appare ora opportuno precisare, in relazione al primo comma dell'articolo in esame, quali sono gli elementi che devono sussistere affinchè si possa parlare di occupazione.

Circa l'elemento soggettivo, se cioè basti che l'occupante si impossessi della cosa che non è in proprietà di alcuno, basti, quindi, l'acquisizione del corpus oppure occorra anche l'animus, cioè l'intenzione nell'occupante di divenire proprietario della cosa, il legislatore, con l'articolo in esame, non ha preso posizione. Vi sono, invece, codici stranieri che provvedono esplicitamente al riguardo. Il codice ex-austriaco sancisce che « il modo di acquistare consiste nell'occupazione con la quale si riduce in proprio potere la cosa che non appartiene ad alcuno, con l'intenzione di farla propria ». Il codice tedesco esprime lo stesso concetto: « chi prende possesso di una cosa mobile di nessuno con l'animus di averla per sé ne acquista la proprietà ». E così il codice cinese dispone che « colui il quale, con la volontà di essere proprietario, prende possesso di una cosa mobile senza padrone, ne acquista la proprietà ». Altri codici invece,al pari del nostro, non precisano l'elemento soggettivo.

La questione sulla necessità di questo elemento, consistente nella precisa intenzione di voler acquistare la proprietà con l'occupazione, è stata lungamente e vivacemente dibattuta dagli interpreti del diritto romano. La maggioranza di essi ritiene necessario l'elemento intenzionale ora indicato, ad esempio Scialoja ha evidenziato che « l'animus necessario per occupare sia l'animus possidendi e che non vi si debba aggiungere quest'altro elemento dell'intenzione diretta ad acquistare la proprietà ».

Anche i1 Segre nella Relazione per il titolo « della occupazione e del ritrovamento » al progetto della Commissione Reale per la riforma dei codici scrive che « l'occupazione non è che acquisto del possesso; non occorre altro animus che quello occorrente per l'acquisto del possesso, in altri termini, l'animus d'insignorirsi della cosa, non quella di diventare proprietario ».

Ma dal punto di vista pratico, che è quello che deve guidare il legislatore nel redigere il testo legislativo e il magistrato nell'applicarlo, sembra che sia, se non impossibile, certo molto difficile valutare nei casi singoli se questo « insignorimento della cosa » si arresti, nell'intenzione dell'occupante, ad una potestà di fatto concretante il possesso oppure si estenda alla pienezza di godimento e di esclusività che caratterizzano la proprietà. L'indagine riuscirebbe ancor più scabrosa oggi che il possesso è definito dall' art. 1140 del c.c. quale « potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà ».

Ora, quando la manifestazione esterna della volontà dell'occupante finisce per essere identica tanto se egli abbia l'intenzione di divenire semplicemente possessore quanto se abbia quella di acquisire la proprietà della cosa, bene ha fatto il legislatore a non richiedere espressamente quale elemento soggettivo determinante l'occupazione, la precisazione dell'intenzione dell'occupazione e a preoccuparsi piuttosto di mettere in evidenza il fatto dell'occupazione ai fini dell'acquisto della proprietà.

Indubbiamente la materialità dell'impossessamento è accompagnata da un'intenzione, ma poiché questa è dal legislatore implicitamente collegata col fatto, quale intenzione di acquisto di proprietà, è necessario, perché tale acquisto non avvenga, che l'occupante, compiendo l'impossessamento, manifesti esplicitamente la propria volontà, negativa, quella cioè di non volere avere la proprietà della cosa, su cui tuttavia ha preso it potere di fatto. Si concreterebbe siffatta ipotesi nel caso di chi dichiarasse nel momento dell'impossessamento, di compiere questo in nome altrui oppure di compierlo al solo fine di custodire temporaneamente la cosa senza volerla far propria. Sono ipotesi rare, ma devono essere prevedute.

Lo stesso Scialoja, del resto, finisce per concludere — dopo avere compiuta una interessante analisi di testi romani e dopo avere fatto acute e sottili distinzioni fra l'intenzione considerata sotto l'aspetto giuridico e quella considerata sotto l'aspetto economico — che « per l'occupazione non è necessaria l'intenzione di divenire proprietario, se questa si considera come intenzione perfetta e cosciente giuridicamente, è necessaria, quando si consideri come intenzione tale che il diritto debba poi considerarla come sufficiente all'acquisto della proprietà ».

La maggior parte della dottrina è dell'opinione che debba esservi l'intenzione dell'occupante di far propria la cosa perché l'occupazione produca l'effetto dell'acquisto della proprietà. Di fronte al silenzio del legislatore circa l'elemento soggettivo, deve, tuttavia, intendersi praticamente che l'accennata intenzione sussista, e cioè che il fatto materiale dell'occupazione sia accompagnato dall'animus domini dell'occupante a meno che il secondo non sia da escludere, come abbiamo già accennato, per una chiara manifestazione di volontà contraria dello stesso occupante.


Elemento oggettivo

Nell'art. 923, al contrario di quello soggettivo, è precisato l'elemento oggettivo dell'occupazione, consistente in « cose mobili che non sono proprietà di alcuno ». Il vecchio codice aggiungeva « ma che possono venire in proprietà »: l' aggiunta è stata soppressa perché era superflua. Se, infatti, una cosa non può costituire oggetto di proprietà perché extra commercium, è evidente che l'atto di occupazione non potrebbe farle cambiare natura.

Le « cose che non sono in proprietà di alcuno » possono essere di due categorie secondo che non hanno formato mai oggetto di proprietà oppure che hanno avuto e più non hanno proprietario. La prima costituisce le res nullius, originalmente tali, la seconda le res derelictae divenute nullius per abbandono.


Le res nullius

I Glossatori distinsero, per il diritto romano, sette gruppi di res nullius a seconda ahe fossero tali per : natura, facto, tempore, censura, casu, culpa, iuris naturalis constitutione.

I giureconsulti romani, tuttavia, fecero classificazioni più semplici. Gaio nelle sue Institutions accenna a tutte le cose di cui in terra, nel mare e nel cielo ci si può impossessare perché prima non appartenevano ad alcuno, quali gli animali selvatici cioè le terrae bestiae, gli uccelli, e i pesci. Paolo, riportando l'opinione di Nerva figlio, indica lo stesso concetto ora accennato di Gaio, aggiungendovi le prede belliche, l'isola nata nel mare, e le cose trovate sulla riva del mare quali le gemme, i lapilli, le perle. Ma la categoria più importante di cose di cui può essere acquistata la proprietà mediante occupazione, tanto per il diritto romano quanto per il diritto italiano odierno, resta costituita dagli animali che formano oggetto di caccia e di pesca, com'è espressamente detto nel secondo comma dell'art. 923. Nello stesso comma sono indicate le cose abbandonate, di cui diremo appresso, ma non il tesoro — come faceva l'art. 711 del vecchio codice — perché per il tesoro sono dettate norme particolari, in virtù delle quali non può dirsi che esso debba rientrare, sic et simpliciter, fra gli oggetti di occupazione.

Quanto alla caccia e alla pesca, l' art. 712 del vecchio codice faceva richiamo alle leggi particolari e poneva il divieto di introduzione nel fondo altrui per esercitarvi la caccia o la pesca contro il divieto del possessore. Il contenuto dell'art. 712 non è stato soppresso — come potrebbe sembrare a chi si arrestasse al semplice confronto dei due codici in questo punto — ma è stato solamente spostato, per una più logica sistemazione della materia, fra le disposizioni generali della proprietà fondiaria. È stabilito, infatti, nell' art. 842 del c.c. che « il proprietario di un fondo non pub impedire che vi si entri per l'esercizio della caccia, a meno che il fondo sia chiuso nei modi stabiliti dalla legge sulla caccia o vi siano colture in atto suscettibili di danno. Egli può sempre opporsi a chi non è munito della licenza rilasciata dall'autorità. Per l'esercizio della pesca occorre il consenso del proprietario del fondo ».

Il compito di illustrare tale articolo è stato già assolto. Ma, poiché questo si occupa dell'esercizio della caccia e della pesca soltanto in fondi altrui, si deve qui avvertire che non può restare dubbio alcuno che le norme sulla caccia e sulla pesca, quali mezzi di acquisto della proprietà degli animali per occupazione, continuano ad essere regolate dalle leggi speciali.


Le res derelictae

Le cose abbandonate, di cui parla il secondo comma dell'art. 113, costituiscono, come abbiamo sopra accennato, la seconda categoria delle « cose che non sono proprietà di alcuno ».

Sulle res derelictae sorse, nel periodo classico, una delle non poche dispute fra proculiani e sabiniani, perché questi ritenevano che fosse sufficiente l'abbandono della cosa con l' animus derelinquendi perché la proprietà fosse perduta e la res derelicta diventasse senz'altro nullius quelli, invece, sostenevano che il proprietario, anche se animo derelinquendi abbandonava la cosa, non ne perdesse la proprietà se non nel momento in cui il terzo ne prendeva possesso, cioè occupava la cosa stessa.

Ma Giustiniano risolse definitivamente la questione nel senso sabiniano dichiarando che, per effetto della derelizione, la proprietà sulla cosa cessava immediatamente e veniva poi acquistata da chi per primo compiva l'occupazione. Ed è questo il concetto che si è nei secoli mantenuto e continua anche oggi a vigere in materia.


Diritti dei terzi sulle cose abbandonate

Non deve però ritenersi che, con l'abbandono della cosa da parte del proprietario, come si estingue il diritto di proprietà si estinguano anche eventuali altri diritti spettanti a terzi sulla cosa stessa. L'occupante, invero, acquista la proprietà della cosa nello stato di fatto e di diritto in cui essa si trovava nel momento dell'occupazione, e poiché il proprietario con l'atto di derelizione poteva disporre e rinunciare soltanto al proprio diritto non già sopprimere quelli dei terzi, i diritti di questi, come potevano essere fatti valere contro il precedente proprietario così restano efficaci contro l'occupante, nuovo proprietario.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

430 Non ho apportato in questa materia innovazioni notevoli alle regole del codice del 1865, ma ho avuto cura di risolvere alcuni punti dubbi e le controversie che ne erano sorte. L'art. 923 del c.c., riproducendo con lieve variante l'art. 711 del codice precedente, pone in evidenza che l'occupazione, come modo di acquisto della proprietà, è limitata alle cose mobili. L'esclusione della possibilità di acquistare per occupazione i beni immobili si coordina con la norma che ho introdotto nell'art. 827 del c.c. per attribuire al patrimonio dello Stato i beni immobili che non siano di proprietà di alcuno. E' così risolta una questione che traeva vita dalla formula generica dell'articolo 711 del codice anteriore.

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Consulenze legali
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Anonimo chiede
mercoledì 29/11/2017 - Lazio
“Spett. Redazione giuridica di Brocardi.it,
il giorno 24/10/u.s. mi è stato consegnato da un corriere un pacco con libri, proveniente da I. avendo visto parcheggiato il furgone del corriere B., ho pensato che me lo avesse consegnato B.; sul pacco non era scritto chi fosse il corriere (successivamente mi è stato confermato che i pacchi inviati da I. vengono da questa ditta confezionati e recano pertanto l’indicazione della medesima ditta, ma non del corriere, che quindi non figurava affatto sul pacco).
Quando, dopo andato via il fattorino che mi aveva consegnato il pacco, ho verificato il contenuto del pacco e mi sono reso conto che di quei libri io avevo revocato l’ordine, preso da indignazione, ho riportato il pacco alla filiale di competenza di B., credendo erroneamente (errore oggettivo, in buona fede) che me lo avesse recapitato B..
Nella sede di B., il responsabile mi ha fatto notare che non il mio pacco aveva consegnato in Via F.B. 108, ma quello di un altro condomino (questo spiega come mai io avessi visto il furgone di B. proprio nel momento in cui mi veniva eseguita la consegna da parte di un altro spedizioniere) e che quindi non poteva riprendere il mio pacco, che io volevo rimandare indietro.
Il sottoscritto non ha creduto al responsabile della filiale B. e comunque non ha ripreso il pacco per riportarlo a casa, e me ne sono andato, lasciando lì il pacco con i libri dentro, al che il signore mi ha detto testualmente (ho la registrazione della conversazione, durata qualche minuto): “Io questo pacco lo metto qui (cioè fuori della porta), poi se lei lo vuole prendere, bene”.
Poiché io ho risolto il problema con I., che ha riconosciuto di avermi mandato per errore i libri che io avevo disdetto, ed è tuttora disposto a riprenderli venendo ad un recapito da me indicato, nonché a rimettermi il denaro sulla carta di credito (circa E. 100,00), il problema ora è che non ho più i libri, perché il 24 ottobre li ho lasciati nella filiale B. e il corriere B. non vuole restituirmeli.
Infatti, durante un breve e concitato colloquio telefonico, il responsabile di detta filiale, con cui avevo avuto il breve colloquio registrato di cui sopra, mi ha detto di non sapere nulla del pacco suddetto, e che non lo aveva preso lui e non lui lo aveva posato fuori dell’edificio: di conseguenza non poteva restituirmi alcunché.
Il mio quesito è il seguente: al netto degli errori da me commessi, il responsabile della filiale B., che ha preso in mano il pacco a me inviato, è entrato o no in possesso del medesimo, o comunque ha la responsabilità di aver trattato in qualche modo il contenuto del medesimo che lui ha tenuto nelle mani e che ha deciso di collocare – senza darmelo nelle mani – fuori della porta dell’edificio, e comunque nell’area della sede da lui presieduta? (la palazzina fuori della cui porta il responsabile ha posato il mio pacco si trova all’interno di un’area di proprietà di B., dove parcheggiano i furgoni che eseguono le spedizioni).
E se il suddetto soggetto ha materialmente assunto una responsabilità nei riguardi del contenuto del pacco, egli è tenuto a restituirmelo o, se lo ha gettato nella spazzatura, a risarcirmi del danno?

Grazie, cordiali saluti”
Consulenza legale i 05/12/2017
E’ preliminarmente necessario inquadrare la fattispecie giuridica per comprendere, poi, quali siano le obbligazioni in capo alle parti coinvolte.

I. ha assunto, in questa caso, la duplice veste di venditore e di spedizioniere: il contratto di spedizione è un mandato con il quale lo spedizioniere assume l’obbligo di concludere, in nome proprio (I.) e per conto del mandante (cliente finale) un contratto di trasporto e di compiere la operazioni accessorie (ad esempio imballaggio, consegna, ritiro e custodia, carico e scarico, ecc.).
La spedizione si distingue dal trasporto perché mentre in quest’ultimo tipo di contratto il vettore assume ogni rischio connesso al trasporto, nella spedizione lo spedizioniere ha quale unico obbligo quello di stipulare il contratto di trasporto con il vettore.
Inoltre, nel momento in cui il committente (cliente) ha pagato la merce, lo spedizioniere perde la proprietà di quest’ultima e ne mantiene solamente la detenzione, detenzione che trasferisce sul vettore nel corso del trasporto e che entrambi perdono nel momento in cui la merce arriva a destinazione e viene ricevuta dal committente/cliente.

Ciò premesso e chiarito, va detto che I. potrebbe sicuramente aiutare il cliente ad individuare il vettore che si è occupato del trasporto e della consegna dei libri: se è vero, infatti, che l’imballaggio della merce non contiene alcun riferimento al nome del vettore è altrettanto vero che I. ha necessariamente sottoscritto un contratto di trasporto (perché ciò rientrava nei suoi obblighi contrattuali) ed ha conservato i documenti (necessari per legge nei trasporti) che comprovano il contratto stesso (documenti sottoscritti dallo spedizioniere e/o dal vettore contenenti l’indicazione del destinatario, del luogo di destinazione, del peso e della natura della merce, della quantità delle cose da trasportare, ecc.).
Una volta ottenuto da I. il nominativo del corriere, sarebbe agevole capire se in effetti la consegna è avvenuta quel determinato giorno ad opera di B. oppure no.

In ogni caso, tuttavia, l’individuazione del vettore non è purtroppo rilevante ai nostri fini: ciò che conta, a questo punto, è solamente comprendere chi sia il responsabile della scomparsa del pacco.
Ebbene, dal racconto di come si sono svolti i fatti, si evince che il cliente insoddisfatto, dopo aver portato il pacco sperando che fosse preso nuovamente in carico per essere rispedito al mittente, una volta vistosi rifiutare il pacco stesso perché – a detta del corriere – non si trattava di merce da loro consegnata, ha deciso di abbandonarlo presso la sede di B.
Quando il responsabile di quest’ultimo ha respinto il pacco, il cliente avrebbe opportunamente dovuto o portarselo via, oppure farsi rilasciare una sorta di ricevuta nella quale specificare che il medesimo veniva lasciato lì solo in temporanea custodia: B. si sarebbe con buona probabilità ugualmente rifiutato di prendere in consegna il pacco, ma vi sarebbe stata a quel punto una prova, quantomeno presuntiva, delle intenzioni del cliente, ovvero la volontà di mantenere la proprietà della merce.
Il fatto invece che il cliente sia andato via e la circostanza per cui il responsabile ha espressamente detto che lasciava il pacco lì a sua disposizione perché lo portasse via con sè, senza assumersene alcuna responsabilità, fa sì che legittimamente il responsabile stesso (ma così avrebbe ragionato chiunque, ad avviso di chi scrive) abbia ritenuto il pacco “abbandonato”.

L’abbandono di un bene mobile è una fattispecie normata dal nostro codice civile ed integra un modo di acquisto della proprietà a titolo originario: “Le cose mobili che non sono proprietà di alcuno si acquistano con l’occupazione (art. 923 c.c.): se il bene è abbandonato, diventa “di nessuno” e chiunque se ne può appropriare e farne ciò che vuole, anche buttarlo via.
È importante, evidentemente, che dalle circostanze di tempo e di luogo si evinca chiaramente l'intenzione del proprietario di spogliarsi del bene (altrimenti si parla di furto).

Nel caso che ci occupa, lo si ripete, dalle circostanze fattuali era ed è legittimo dedurre che il cliente/proprietario abbia voluto disfarsi del possesso del pacco e abbandonarne la proprietà, e ciò non solo alla luce del comportamento da lui tenuto ma anche del fatto che è trascorso ormai un mese dall’evento.
Diventa quindi del tutto irrilevante, alla luce di quanto illustrato, capire e dimostrare se il responsabile di B. abbia mentito e se quindi abbia o meno appreso materialmente il pacco, perché in ogni caso quest’ultimo non era più di proprietà dell’originario destinatario, che non potrà far valere alcuna responsabilità in capo al corriere per la perdita dei libri ed il mancato rimborso del prezzo di acquisto degli stessi.

L’unica possibilità di richiedere il risarcimento del danno per la perdita del pacco ed il mancato rimborso dei soldi sarebbe quella, lo si ripete, di provare che quest’ultimo è stato lasciato al corriere con l’intenzione poi di tornare a riprenderlo: ma si tratta di prova praticamente impossibile (si tratterebbe di provare un’”intenzione”), anche per l’assenza di testimoni diretti che possano confermare, eventualmente, la bontà delle asserzioni dell’ex proprietario del pacco.
In assenza di prova evidente ed incontestabile, se il corriere si rifiutasse comunque di aderire alla tesi del cliente, quest’ultimo dovrebbe rivolgersi all’Autorità Giudiziaria: un processo su queste basi probatorie, tuttavia, avrebbe scarsissime possibilità di vittoria.

Raffaele F. chiede
martedì 10/03/2015 - Puglia
“Aggredibilità del Fondo Patrimoniale.
Dopo essere rientrato in possesso di un immobile con sentenza di convalida di sfratto si è posto il problema del recupero del credito, circa 40mila euro tra morosità e spese giudiziarie. L'iniziale ottimismo con cui mi sono approcciato inizialmente all'operazione ha cozzato duramente con i risultati della visura ipotecaria dei beni immobili del mio inquilino da cui risultava la costituzione di un fondo patrimoniale risalente al 2005 e in cui erano confluiti gran parte dei beni su cui avrebbe avuto senso agire per il recupero. Prima di muovermi legalmente sto raccogliendo un po' di pareri tuttavia discordi: accanto a chi dice che non posso agire sui beni del Fondo c'è la tesi di chi sostiene che invece -trattandosi di ditta individuale in cui tra l'altro erano impiegati gli stessi familiari- l'attività in questione rientra tra le attività svolte negli interessi e bisogni della famiglia e quindi il Fondo deve rispondere per i debiti contratti nel suo esercizio.”
Consulenza legale i 16/03/2015
L'aggredibilità del fondo patrimoniale è materia continua di discussione in dottrina e in giurisprudenza.
I giudici di legittimità ritengono, in generale, che si debba guardare alla oggettiva destinazione dei debiti assunti alle esigenze familiari: quindi, il criterio identificativo andrebbe ricercato non tanto nella natura delle obbligazioni, quanto nella relazione che esiste tra il fatto generatore di esse e i bisogni della famiglia.

Ad esempio, Cass. civ., sez. III, 7.1.1984 n. 134 ha sancito: "In tema di esecuzione sui beni del fondo patrimoniale, il disposto dell'art. 170 c.c. - nel testo di cui alla legge 19 maggio 1975 n. 151 - per il quale detta esecuzione non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia, va inteso non in senso restrittivo, come riferentesi cioè alla necessità di soddisfare l’indispensabile per l’esistenza della famiglia, bensì -analogamente a quanto, prima della riforma di cui alla richiamata legge n. 151 del 1975, avveniva per i frutti dei beni dotali- nel senso di ricomprendere in detti bisogni anche quelle esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente speculativi".

La giurisprudenza di merito ha, però, ritenuto che in generale debbano essere escluse le esigenze nascenti dall'esercizio di attività professionali o imprenditoriali, anche se in forma di ditta individuale o impresa familiare (Tribunale di Mondovì, 13.10.2005, "I debiti derivanti dall'acquisto di merci per l'attività di impresa condotta da uno solo dei coniugi non sono riconducibili ai bisogni della famiglia ex art. 167, poiché i redditi di tale attività appartengono allo stesso che non è pertanto tenuto a destinarli a tali bisogni se non limitatamente all'onere di contribuzione familiare al quale, peraltro, può assolvere integralmente anche con proventi diversi"; nello stesso senso v. Trib. Varese, sent. 15.12.2010.; Trib. Cosenza, ord. 715/2012).

Esistono, tuttavia, alcune pronunce di diverso avviso, come Trib. Massa Carrara del 5.5.1999, in un caso in cui il debito con la banca era stato contratto per le necessità di una piccola impresa o società a gestione familiare destinata a sopperire al mantenimento della famiglia del contraente.
Si riscontra anche un precedente innanzi alla Suprema Corte, Cass. civ., sez. I, 18.9.2001 n. 11683: con tale pronuncia, ripreso il principio di cui alla sentenza 134/1984, la Corte di Cassazione concludeva "Sulla base di tali principi la sentenza impugnata appare del tutto immune dai vizi denunciati, avendo la Corte di Appello proceduto all'accertamento della sussistenza del requisito imposto dalla legge perché potesse procedersi all'iscrizione ipotecaria sull'immobile conferito nel fondo ed avendo congruamente dato conto delle ragioni che inducevano a ritenere che il debito assunto dal debitore con la garanzia della moglie, pur traendo origine da esigenze imprenditoriali del medesimo, fosse diretto a sopperire alle esigenze della famiglia, nel senso ampio sopra precisato".

Si ravvisa, quindi, un filone giurisprudenziale di merito sostanzialmente allineato sulla tesi dell'esclusione dai bisogni della famiglia delle obbligazioni contratte per l'impresa individuale di uno dei coniugi; dall'altro, altra parte della giurisprudenza di merito e una certa parte della dottrina che, invece, motivando con i principi sanciti dalla Cassazione, ritiene che non potrebbero ritenersi contratti per “scopi estranei” i debiti inerenti l’attività di lavoro autonomo di un coniuge, allorquando da tale attività la famiglia tragga i mezzi di mantenimento, a maggior ragione quanto nell'impresa prestino la loro attività anche i familiari dell'imprenditore.

Non esistendo una posizione univoca di cui poter dare conto in questa sede, ci si limita a prendere atto che i tribunali generalmente sembrano orientati verso la posizione negativa: quindi, prima di procedere ad esecuzione forzata contro i beni conferiti nel fondo, sarebbe opportuno indagare circa la prassi del tribunale davanti al quale l'espropriazione sarà richiesta, senza tuttavia alcuna garanzia circa l'esito dell'azione.

Dovendo prendere una posizione, si ritiene preferibile la tesi dottrinale, laddove emerga con evidenza che l'impresa individuale sia l'unica fonte di sostentamento della famiglia: non si potrà, pertanto, prescindere da una analisi in concreto dell'obbligazione assunta dal debitore.

Raffaele F. chiede
lunedì 22/12/2014 - Puglia
“Non essendo un legale potrei dire qualche sciocchezza. Cercherò comunque di dettagliare tutto quanto necessario. Causa decesso del conduttore (tra l'altro moroso) del mio immobile, seguente rinuncia degli eredi (passività dell'asse ereditario) e condotta inspiegabilmente passiva del mio legale, mi ritrovo -a distanza di 16 mesi dal decesso- a non poter ancora disporre dell'immobile perchè al suo interno ci sono ancora i beni del de-cuius (officina meccanica con svariate e costose attrezzature, tra cui anche autoveicoli). So che la procedura standard prevede un'istanza al tribunale per la nomina di un curatore causa eredità giacente. Il legale mi dice tuttavia che la questione è complicata dalla presenza di un erede non rinunciatario ma "interdicibile" (persona disabile che tuttavia non è mai stata sottoposta ad una procedura per interdizione), questione di cui sembra si stiano occupando gli eredi (ma con una tempistica che mi sembra di capire non sia delle più brevi). Aggiungo che so per certo che ci sono altri creditori (del resto c'è stata una rinuncia anche per questo) ma nessuno di loro si sta particolarmente interessando alla presentazione di questa benedetta istanza. Fin qui la premessa. La domanda è: posso legittimamente entrare nel mio locale rifacendomi all'art. 923 c.c.? Il fatto che gli eredi hanno rinunciato e che gli altri creditori non hanno fatto niente in tutto questo tempo non è un buon motivo per presumere uno stato di abbandono e quindi legittimarmi quanto meno ad entrare nel mio locale? Aggiungo che sono anche disposto a riconoscere dei legittimi indennizzi ai legittimi proprietari di questi beni che dovessero presentarsi (magari pubblicando un avviso all'Albo Pretorio del Comune) ma quanto meno vorrei sapere se posso agire in questi termini bypassando la procedura giudiziaria canonica. Spero di essere stato esaustivo.”
Consulenza legale i 29/12/2014
Nel caso di specie si è aperta una successione ereditaria a favore di alcuni soggetti, di cui tutti rinunciatari tranne uno, che dovrà essere interdetto a causa di una infermità di mente.
I beni ereditari si trovano quindi in stato di abbandono da parte dei chiamati all'eredità e sembra che nessuno di loro voglia farli propri.

Secondo dottrina e giurisprudenza, nel periodo che intercorre tra la morte del de cuius e l'acquisto da parte del chiamato, i beni ereditari, anche se attualmente senza titolare, non diventano, per ciò stesso, res nullius. Non si possono, cioè, liberamente acquistare dal primo occupante ai sensi dell'art. 923 del c.c. (che si applica ai beni mobili).
Neanche la legge considera i beni ereditari, prima dell'acquisto, come res derelictae, anzi, li tiene uniti in base alla loro comune destinazione.
La dottrina ha affermato che il patrimonio ereditario, durante la situazione di vacanza di un titolare, rientrerebbe nella categoria dei "patrimoni di destinazione".
In virtù di tali principi, è previsto il sistema di amministrazione di cui all'art. 528 del c.c., e cioè la nomina del curatore dell'eredità giacente: difatti, fino a che non sia chiara l'identità del futuro erede, sorge l'esigenza di assicurare la conservazione e l'amministrazione del patrimonio ereditario, al fine di salvaguardare gli interessi di tutti coloro che vantano diritti sul patrimonio ereditario.

In effetti, nel caso in esame, ad impedire che i beni possano considerarsi "abbandonati" depone il fatto che esiste comunque un soggetto chiamato che potrebbe accettare l'eredità, a mezzo di un tutore, dopo essere stato interdetto; ed inoltre, sussiste la possibilità giuridica (anche se remota nel concreto) che i rinunciatari revochino la rinunzia ex art. 525 c.c. e accettino l'eredità, cosa che può accadere fino a che il diritto di accettare non è prescritto (10 anni dall'apertura della successione).

Per tutte queste ragioni, i beni ereditari attualmente privi di titolare e almeno fino a dieci anni dopo la morte del de cuius non possono considerarsi res derelictae suscettibili di occupazione ex art. 923 c.c.

L'unica strada percorribile resta quindi quella della nomina di un curatore dell'eredità giacente.
Tuttavia, per tentare di accelerare il procedimento interdittivo in capo all'unico chiamato che non ha ancora rinunciato, si potrebbe provare ad esperire nei suoi confronti un'actio interrogatoria ai sensi dell'art. 481 del c.c., cioè un'azione con cui chiunque abbia interesse (quindi anche un creditore), può chiedere che l'autorità giudiziaria fissi un termine entro il quale il chiamato dichiari se accetta o rinunzia all'eredità. Trascorso questo termine senza che abbia fatto la dichiarazione, il chiamato perde il diritto di accettare. Tale azione si può esperire contro qualsiasi chiamato, anche se incapace.

Potendo, poi, individuare un soggetto "responsabile" dell'eredità (il futuro interdetto o il curatore dell'eredità giacente), si può ipotizzare di velocizzare la liberazione dell'immobile dai beni ereditari mediante una offerta formale degli stessi nelle forme di cui agli artt. 1206 ss. c.c. Si configurerebbe cioè un rapporto di debitore-creditore tra chi detiene i beni ereditari e colui che ne diverrà titolare o comunque dovrà amministrarli. La mora del creditore risulta importante per il debitore che voglia liberarsi dal peso di detenere i beni altrui, perché il creditore messo in mora sarà tenuto a risarcire i danni derivati dalla sua mora e a sostenere le spese per la custodia e la conservazione della cosa dovuta.

Alessandro S. chiede
lunedì 01/12/2014 - Piemonte
“Si può rivendicare la proprietà di un pontile comunale strappato dalle recenti piogge dal suo ormeggio sul lago d'Orta?”
Consulenza legale i 11/12/2014
Il codice civile prevede espressamente alcune ipotesi di acquisto della proprietà relative a fenomeni naturali. Ad esempio, ai sensi dell'art. 941 del c.c. le unioni di terra e gli incrementi, che si formano successivamente e impercettibilmente nei fondi posti lungo le rive dei fiumi o torrenti, appartengono al proprietario del fondo, salvo quanto è disposto dalle leggi speciali; oppure, l'art. 945 del c.c. stabilisce che le isole e le unioni di terra che si formano nel letto dei fiumi o torrenti appartengono al demanio pubblico; e così via.

Vi è una norma che sembrerebbe - ad una lettura superficiale - applicarsi al caso di specie: l'art. 944 del c.c. stabilisce che, se un fiume o torrente stacca per forza istantanea una parte considerevole e riconoscibile di un fondo contiguo al suo corso e la trasporta verso un fondo inferiore o verso l'opposta riva, il proprietario del fondo al quale si è unita la parte staccata ne acquista la proprietà. Deve però pagare all'altro proprietario un'indennità nei limiti del maggior valore recato al fondo dall'avulsione.
Tuttavia, mancano alcuni presupposti della norma: intanto, nel caso di specie non si tratta di un "fiume o torrente", ma di un lago; inoltre, sembra mancare l'elemento della congiunzione (organica e aderente) della parte avulsa con altro terreno.

Mancando una norma specifica che regoli la fattispecie, si devono guardare i principi generali.
Quindi si pongono due questioni:
1. il pontile è un bene che può essere acquistato da un privato?
2. se sì, vi può essere occupazione ai sensi dell'art. 923 del c.c.?

1.
Se il pontile appartiene al demanio pubblico lacuale, il privato non può in alcun caso diventarne proprietario (art. 823 del c.c.: "I beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano").
Se esso appartiene al patrimonio del comune, può trattarsi di bene disponibile (così definito quando non è destinato direttamente ed immediatamente a soddisfare esigenze di perseguimento dei fini istituzionali dell'ente e che è, salvo leggi speciali, soggetto alle norme di diritto privato del codice civile) o di bene indisponibile (in quanto la destinazione di esso è volta al perseguimento di finalità istituzionali dell'ente).

In questo secondo caso, il bene può essere alienato (cioè volontariamente ceduto ad altri da parte del comune) ma non sottratto alla sua destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano.
C'è un caso speciale emblematico regolato dalla legge, quello della fauna selvatica, considerata patrimonio indisponibile dello Stato con art. 1, L. 27 dicembre 1977, n. 968; in precedenza, poiché non era stabilito che facesse parte del patrimonio indisponibile, gli animali selvatici non custoditi in fondi chiusi dovevano considerarsi res nullius, suscettibile di occupazione a norma dell’art. 923 c.c.

Tornando al primo caso (bene del patrimonio disponibile) è ipotizzabile in astratto una occupazione.

2.
Tuttavia, l'occupazione ex art. 923 può aversi solo su c.d. res nullius, cioè su cosa che non era di proprietà di alcuno; e su cosa abbandonata, che è la cosa abbandonata dal proprietario con l'intenzione di spogliarsene.
Appare evidente che nel caso di specie il pontile comunale staccato dal lago a causa di un fenomeno atmosferico intenso non è né res nullius, né res derelicta (abbandonata).

Si deve quindi rispondere al quesito in senso negativo.

Se il comune si disinteressasse per molti anni del pontile, e questo si potesse far rientrare nel suo patrimonio disponibile, si potrebbe ipotizzare un acquisto per usucapione ventennale.

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