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Articolo 614 bis Codice di procedura civile

(R.D. 28 ottobre 1940, n. 1443)

[Aggiornato al 23/03/2023]

Misure di coercizione indiretta

Dispositivo dell'art. 614 bis Codice di procedura civile

Con il provvedimento di condanna all'adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento(2), determinandone la decorrenza. Il giudice può fissare un termine di durata della misura, tenendo conto della finalità della stessa e di ogni circostanza utile.

Se non è stata richiesta nel processo di cognizione, ovvero il titolo esecutivo è diverso da un provvedimento di condanna, la somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza o ritardo nell'esecuzione del provvedimento è determinata dal giudice dell'esecuzione, su ricorso dell'avente diritto, dopo la notificazione del precetto. Si applicano in quanto compatibili le disposizioni di cui all'articolo 612.

Il giudice determina l'ammontare della somma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione dovuta, del vantaggio per l'obbligato derivante dall'inadempimento, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile(3).

Il provvedimento costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione, inosservanza o ritardo. Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico o privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all'articolo 409(4).

Note

(1) Tale norma è stata inserita dalla legge 69/2009 che ha previsto uno strumento di coercizione indiretta al fine di incentivare l'adempimento spontaneo degli obblighi che non risultano facilmente coercibili. La norma, infatti, prevede in capo al soggetto inadempiente l'obbligo di pagare una somma di denaro, al fine di indurlo a realizzare la sua obbligazione.
(2) Il giudice, previa richiesta della parte, unitamente al provvedimento di condanna ad un fare o a un non facere, fissa una somma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento, al fine di esercitare una pressione psicologica sulla parte obbligata in modo tale da indurlo all'adempimento spontaneo.
(3) Nel determinare la somma dovuta per ogni violazione, il giudice dovrà tenere conto di alcuni parametri come il valore della controversia, la natura della prestazione, il danno quantificato o quello prevedibile, le condizioni personali e patrimoniali delle parti, accanto ad ogni altra circostanza utile. Tali parametri rappresentano dunque un limite alla discrezionalità del giudicante.
(4) Disposizione riformulata dal D. Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (c.d. "Riforma Cartabia"), come modificato dalla L. 29 dicembre 2022, n. 197, il quale ha disposto (con l'art. 35, comma 1) che "Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti".

Spiegazione dell'art. 614 bis Codice di procedura civile

Si deve alla Legge n. 69/2009 l'introduzione nel nostro ordinamento giuridico, per la prima volta con portata generale, della disciplina delle misure di coercizione indiretta.
Nella sua formulazione originaria la norma in esame non poneva limiti alla tipologia di obbligazioni cui era riferibile, mentre la precedente rubrica "Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare", adesso sostituita, riconduceva la sua applicabilità soltanto alle obbligazioni di fare infungibile o di non fare.

Il D.l. n. 83/2015, convertito dalla Legge n. 132/2015, ha integralmente sostituito il testo della norma con quello previgente alla Riforma Cartabia, anche se le modifiche, di fatto, hanno riguardato soltanto la rubrica, che adesso parla più genericamente di "Misure di coercizione indiretta", nonché l'introduzione espressa del riferimento, nel corpo dell'articolo, alle obbligazioni cui è applicabile, ossia tutti gli obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro.
Resta dunque confermato l'originario ambito di operatività della norma, relativo a tutti quei casi in cui i processi di esecuzione forzata previsti dal codice di rito non possono trovare applicazione oppure non sarebbero del tutto satisfattivi per il creditore.
Ci si intende, dunque, ancora una volta riferire innanzi tutto alle obbligazioni di facere infungibili e, comunque, a quelle di non fare, nonchè a tutte le ipotesi di adempimento di obblighi diversi dal pagamento delle somme di denaro (vi si devono ricomprendere, ad esempio, i casi di condanna alla consegna o al rilascio di cose).

Il rimedio di cui si discute ricalca l'istituto, di origine francese e successivamente esteso anche all'ordinamento tedesco (come sanzione, in favore del fisco) dell' astreinte, per mezzo del quale si prevede una sorta di penale per l'inadempimento totale o per il ritardato adempimento a seguito di una pronuncia di condanna.

Discussa è la possibilità di utilizzare la misura compulsiva qui prevista in via cumulativa con l'azione ex art. 2932 del c.c., all’evidente fine di non dover attendere il passaggio in giudicato della sentenza costitutiva.
Contro tale cumulo di strumenti si è osservato che esistono forti dubbi circa la possibilità di chiedere contemporaneamente una doppia statuizione, costitutiva e di condanna, e ciò perchè l'obbligo di contrarre non è del tutto infungibile, essendo possibile ricorrere alla pronuncia del giudice che tenga luogo del contratto non concluso (il che significa che è ben possibile l'esecuzione in forma specifica).

Nella determinazione dell'ammontare della somma dovuta dall'obbligato, il giudice deve preliminarmente effettuare una serie di valutazioni, che attengono alla natura dei rapporti rispetto ai quali il rimedio viene invocato.
In particolare, l'organo giudicante deve, innanzitutto, accertare che non si tratti di controversie di lavoro subordinato pubblico e privato, nonché di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all'art. 409 del c.p.c., per i quali la disposizione non trova applicazione per espressa esclusione da parte del legislatore (la ratio di tale esclusione non può che individuarsi nella specialità della materia giuslavoristica e nella natura personalissima delle obbligazioni che la stessa, necessariamente, involge).

Affinché il giudice fissi con il provvedimento di condanna la somma di denaro dovuta dall'obbligato occorre un'istanza di parte.
Il D.Lgs. 10.10.2022, n. 149 ha previsto che se la misura coercitiva indiretta non sia stata domandata in seno al processo di cognizione, oppure se il titolo esecutivo sia diverso da un provvedimento di condanna, la stessa debba essere determinata dal giudice dell'esecuzione, su ricorso dell'avente diritto, dopo la notificazione del precetto.
Con tale innovazione si intende evitare che il creditore, già titolato, sia costretto a ricorrere ad un processo dichiarativo al solo scopo di ottenere un provvedimento che deve essere ascritto alla giurisdizione esecutiva.

Va detto che il comma aggiunto con la Riforma Cartabia non precisa i criteri a cui il giudice dell'esecuzione deve attenersi nel determinare a quanto la misura coercitiva indiretta dovrà ammontare, limitandosi la disposizione a riprodurre i parametri originariamente previsti dal testo previgente, con la sola precisazione che si deve tenere conto della natura della prestazione dovuta e del vantaggio per l'obbligato derivante dall'inadempimento.
A tale riguardo si ritiene possa essere utile richiamare quanto è dato leggere nella Relazione illustrativa alla stessa riforma, la quale ricorda come sia pacifica la funzione della misura coercitiva indiretta, volta a condurre l'obbligato all'adempimento spontaneo.
E’ proprio per questa ragione che la misura coercitiva, onde poter essere effettiva, deve essere innanzitutto commisurata al parametro del vantaggio che colui che la subisce trarrebbe dall'inadempimento, mentre il danno che l'inadempimento medesimo provoca appare più secondario, in quanto l'esecuzione indiretta non è ovviamente in grado di sostituirsi integralmente al risarcimento del danno causato dall'inadempimento.

Per quanto concerne l'individuazione del giudice competente, il riferimento all'art. 612 del c.p.c., richiamato dalla presente disposizione, vale in generale a disciplinare anche la competenza per territorio per la richiesta misura coercitiva.
Va tuttavia evidenziato che per gli obblighi di fare e di non fare il terzo comma dell’art. 26 del c.p.c. prevede la competenza del giudice del luogo dove l'obbligo deve essere adempiuto.
Dinanzi ad un possibile conflitto tra le due norme, si è dell’idea che la disposizione speciale (ovvero l’art. 26 c.p.c.) debba farsi prevalere su quella generale.

Massime relative all'art. 614 bis Codice di procedura civile

Cass. civ. n. 19454/2011

Nell'ambito dei rapporti obbligatori, il carattere infungibile dell'obbligazione di cui si è accertato l'inadempimento non impedisce la pronuncia di una sentenza di condanna, in quanto la relativa decisione non solo è potenzialmente idonea a produrre i suoi effetti tipici in conseguenza della eventuale esecuzione volontaria da parte del debitore, ma è altresì produttiva di ulteriori conseguenze risarcitorie, suscettibili di levitazione progressiva in caso di persistente inadempimento del debitore; inoltre, ogni dubbio sull'ammissibilità di una pronuncia di condanna è stato eliminato dal legislatore con l'introduzione dell'art. 614 bis c.p.c. (attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare), avente valore ricognitivo di un principio di diritto già affermato in giurisprudenza.

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Bruno P. chiede
mercoledì 21/09/2016 - Veneto
“un muro abusivo costruito anni 70 di lunghezza 120 ml x h2,20, zona vincolo ambientale paesaggistico, ottenuta sanatoria nel 1998 con precrizioni di intonacatura con sabbia di cava e sostituzione grigliato di cemento con rete e pali. Proprietario il mio vicino il quale intenta causa per responsabilità di parziale caduta nei miei confronti, ma per ovvi motivi nel 2014 viene condannato a demolire e ricostruire il muro per adeguarlo ai regolamenti edili e paesaggistici. Con apertura d.i.a.di ristrutturazione realizza adeguamento sismico per una parte del muro, senza intervenire esternamente lasciando inalterata la parte restante compresa quella caduta nel mio terreno.Ora sono preoccupato perchè penso non eseguirà le opere di ripristino come da sentenza, tenuto conto che non ha rispettato nemmeno le prescrizioni in sanatoria.
Come posso fare per obbligarlo fare i lavori di adeguamento, si possono chiedere penali o comunque addebito per le eventuali azioni legali, quali sono i tempi? il muro in questione poteva essere condonato nei termini sopra citati, è soggetto a prescrizione.
Ringrazio per la sua attenzione”
Consulenza legale i 28/09/2016
Dalla lettura del caso che si propone si ritiene che le questioni da affrontare siano essenzialmente due:
A) quella relativa ai rimedi da esperire per costringere un terzo a rispettare le prescrizioni imposte in sede di sanatoria edilizia
B) quali azioni esercitare per ottenere la rimozione della parte di muro caduta nel fondo del vicino

Per quanto riguarda il problema sub A), si ritiene che la strada più celere sia quella di presentare un’istanza ed eventuale atto di diffida, con contestuale assegnazione di un termine per provvedere, al Comune nel cui territorio l’abuso è stato commesso, quale ente preposto alla vigilanza e repressione degli abusi edilizi, chiedendo l’adozione di provvedimenti repressivi dello specifico abuso edilizio compiuto sul terreno limitrofo.
A seguito di tale atto il Comune avrà non solo l’obbligo di rispondere all’istanza, ma anche quello di procedere per la refusione degli abusi edilizi.
La mancata ottemperanza a tale istanza comporterà il formarsi del c.d. silenzio rifiuto da parte dell’amministrazione, impugnabile tramite la speciale procedura di cui all’art. 21 bis legge 6 dicembre 1971 n. 1034 istitutiva dei tribunali amministrativi regionali, come introdotto dalla legge n. 205 del 2000, secondo quanto anche statuito dalla Sezione V del Consiglio di Stato con la sentenza n. 230 del 16 gennaio 2002.

Va detto, infatti, che il silenzio-rifiuto, come tale, sarà censurabile se da un lato riguardi l’estrinsecazione di un comportamento (potenzialmente) comunque dovuto da parte dell’Amministrazione e, dall’altro sia attivato – come nella fattispecie – non in maniera acritica e generalizzata, ma da chi vanta uno specifico e qualificato interesse.

Deve peraltro rilevarsi che nella fattispecie in esame viene ad essere prospettata una non generica situazione di abusività di interventi edilizi la cui antigiuridicità può essere espressamente specificata nelle varie istanze che l’interessato andrà a produrre, la cui legittimazione attiva è, come prima accennato, particolarmente qualificata dalla titolarità di un diritto di proprietà limitrofo al luogo in cui si sono perpetrati gli abusi denunciati.

Qualora, poi, il comportamento omissivo (silenzio-rifiuto) dell’Amministrazione sia stigmatizzato da un soggetto qualificato (in quanto, per l’appunto, titolare di una situazione di specifico e rilevante interesse che lo differenzia da quello generalizzato di per sé non immediatamente tutelabile), tale comportamento assumerà una connotazione negativa e censurabile dovendo l’Amministrazione (titolare dei generali poteri-competenze in materia di controllo e di repressione sull’abusivismo edilizio) dar comunque seguito (anche magari esplicitando l’erronea valutazione dei presupposti da parte dell’interessato) all’istanza.

In altri termini si ritiene che sull’accertata sussistenza di una posizione qualificata e legittimante, e di un’istanza circostanziata e specifica relativa a presunte realizzazioni abusive, il Comune sia tenuto a rispondere all’istanza (anche e solo per dimostrarne l’eventuale infondatezza di presupposti), in quanto da un lato tale compartecipazione si conforma all’evoluzione in atto dei rapporti tra Amministrazione e amministrato (titolare di una specifica posizione), e dall’altro perché in tale ipotesi il comportamento omissivo (spesso causa di un’inerte complicità agevolatrice del degrado edilizio), assume una sua sindacabile connotazione negativa.

Per quanto riguarda il termine per dare esecuzione alle prescrizioni imposte in sede di sanatoria, va detto che la concessione in sanatoria deve intendersi subordinata alla realizzazione delle prescritte opere, con l’ineludibile conseguenza che fin quando tali opere non verranno realizzate, la concessione non sarà valida; sarebbe opportuno verificare se per esse sia stato dato un termine, in difetto di che non si potrà parlare di lesione alle prescrizioni vera e propria, ma neppure può dirsi che il manufatto sia regolare (dal che ne discende la legittimazione all’istanza di cui sopra).

Dal punto di vista delle spese da sostenere, si sottolinea che trattasi di semplice istanza instauratrice di un procedimento amministrativo, per la quale non sono previsti costi particolarmente gravosi.

Delle spese un po’ più gravose dovranno invece sostenersi nell’ipotesi di inerzia del Comune ad adottare un provvedimento, nel qual caso si instaurerà un procedimento giurisdizionale amministrativo, nel corso del quale si potrà comune chiedere la condanna della pubblica amministrazione alla refusione delle spese che si è stati costretti a sostenere per il suo comportamento inerte.

Per quanto riguarda la rimozione della parte di muro caduta sul fondo altrui, si ritiene applicabile la norma di cui all’articolo [[n2053c]] codice civile, la quale dispone che il proprietario di un edificio o di altra costruzione è responsabile dei danni cagionati dalla loro rovina, dove nel concetto di altra costruzione può senz’altro farsi rientrare il muro in questione.

Ovviamente sarà opportuno valutare se sia più economico eliminare a proprie spese i resti del muro che si trovano sul proprio fondo ovvero esperire tale azione legale.