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Articolo 883 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 31/01/2024]

Abbattimento di edificio appoggiato al muro comune

Dispositivo dell'art. 883 Codice Civile

Il proprietario che vuole atterrare un edificio sostenuto da un muro comune può rinunziare alla comunione di questo, ma deve farvi le riparazioni e le opere che la demolizione rende necessarie per evitare ogni danno al vicino(1).

Note

(1) L'espressione "opere che la demolizione rende necessarie", poste a carico del rinunciante, è da interpretare in senso lato, sì da ricomprendervi anche quelle che servono a rafforzare e consolidare il muro comune.

Ratio Legis

La disposizione stabilisce a vantaggio di chi è titolare di una costruzione sostenuta da un muro comune, la possibilità di rinunciare alla comunione, a patto che la demolisca ed esegua le opere indispensabili per evitare danni al vicino.

Spiegazione dell'art. 883 Codice Civile

Obbligo delle riparazioni e ricostruzioni

Gli obblighi derivanti dalla comunione dei muri sono in genere quelli stabiliti per ogni forma di comunione, e come tali derivanti dai principi generali dell'istituto e sanzionati nel titolo della comunione. In termini generali tali obblighi sono compresi nella disposizione di cui all’ art. 1104 del c.c., che impone a ciascun partecipante l'obbligo di contribuire alle spese necessarie per la conservazione della cosa comune, e in modo più specifico nell' art. 882 del c.c., il quale pone le riparazioni e le ricostruzioni necessarie del muro comune a carico di tutti quelli che vi hanno diritto ed in proporzione del diritto di ciascuno.

Sarà di volta in volta una questione di fatto decidere se l'obbligo si debba limitare alle riparazioni o estendersi alla ricostruzione: non si dovrà ricorrere a quest'ultima se non nel caso in cui il muro si trovi in condizioni tanto deteriorate da ritenersi più conveniente, nell'interesse comune, l’ affrontare una spesa, sia pure maggiore, ma che eviterà continue e infruttuose riparazioni. In caso di dubbio, il giudizio deve essere piuttosto restrittivo, per non aggravare più del necessario l'obbligo del condomino che non voglia affrontare la spesa della ricostruzione.
L'obbligo imposto dalla legge vale soltanto per le riparazioni necessarie: anche qui in caso di disaccordo tra i condomini deciderà i1 giudice con giudizio di fatto. Constatata la necessità, ognuno dei condomini ha l'obbligo di contribuire in proporzione del proprio diritto, senza distinguere in quale punto le riparazioni devono eseguirsi, perché si tratta di comunione pro indiviso.

L'obbligo delle riparazioni e ricostruzioni porta naturalmente con sè anche quello di subire tutti gli incomodi e i danni a cui esse possono dar luogo (inabitabilità di locali, perdita di pigioni ecc.).

Il condomino che abbia proceduto alle riparazioni o alla ricostruzione del muro anticipando la spesa anche per la parte spettante all'altro condomino ha diritto ad esserne rimborsato. L'obbligo del rimborso da parte dell'altro condomino costituisce però una prestazione di natura personale, non un'obbligazione propter rem: quindi al pagamento predetto è tenuto il condomino e con lui i suoi successori a titolo universale, ma non i successori a titolo particolare.


Riparazioni dipendenti dal fatto colposo o non colposo del condomino

Tuttavia quest'obbligo sussiste se le riparazioni e ricostruzioni necessarie dipendono da vetustà del muro o da forza maggiore, cessa se derivano dal fatto esclusivo, colposo o non colposo di uno dei condomini o di un terzo. Questa limitazione è stata sancita testualmente dal nuovo codice con l'aggiunta dell’inciso: « salvo che la spesa sia stata cagionata dal fatto di uno dei partecipanti ».

Il fatto del condomino è colposo quando il danno al muro comune deriva da incuria, per esempio, per l'urto dei suoi carri, o per avere ammucchiato contro il muro terra, legnami, letame od altre materie, senza prendere le precauzioni necessarie affinché tali mucchi non possano nuocere con l'umidità o con la spinta, o in qualunque altro modo.

Ma può anche non essere colposo: gli artt. 884 e 885 enumerano, come si vedrà in seguito, una serie di diritti che il condomino può esercitare sul muro comune, come appoggiarvi costruzioni, immettervi travi, attraversarlo con chiavi e catene di rinforzo, alzarlo, ecc.: ma l'esercizio di tutti questi diritti è sottoposto alla condizione che egli faccia tutte le opere necessarie per non arrecare danno alla solidità del muro, riparando in ogni caso i danni causati dalle opere compiute. E in questa ampia locuzione sono comprese anche le riparazioni e le ricostruzioni del muro causate dal fatto, ancorché non colposo, del condomino. Ma su ciò si ritornerà in seguito.

In tale ordine di idee è stato deciso che il proprietario di un camino aperto nel muro divisorio comune è tenuto da solo a sostenere le spese per le riparazioni del muro medesimo, in relazione ai danni arrecati dall'esercizio del camino di sua spettanza.


Il condomino può liberarsi dall'obbligo di contribuire alla spesa rinunziando al diritto di comunione. Limiti della rinunzia. Non si estende al suolo su cui il muro è costruito

L'obbligo di contribuire alle spese di riparazione e ricostruzione è fondato sul rapporto di comunione del muro: ne consegue che il condomino può sottrarsi a quest'obbligo rinunciando alla comunione, come appunto che dispone l'art. 882.

A proposito di questa rinuncia alla comunione nascono alcune questioni, e la prima sorge per determinare l'oggetto della rinuncia. L’ art. 882 del c.c. parla di rinuncia « al diritto di comunione »: da che dovrebbe argomentarsi che la rinuncia si estende a tutte le cose che sono comuni ai confinanti, e cioè tanto al muro, quanto al terreno su cui il muro è fabbricato, perché anch'esso comune. E questa era l'opinione dominante sotto il codice del 1865 (art. 549) conformemente alla dottrina francese.

Una contraria soluzione si impone ora nel nuovo codice in base alla disposizione dell'art. 888 che a proposito dell'analoga rinuncia alla comunione del muro di cinta fatta allo scopo di esimersi dal contributo per le spese di costruzione — rinuncia subordinata alla cessione, senza diritto a compenso, della metà del terreno su cui il muro di separazione deve essere costruito — fa salva la facoltà del vicino di renderlo comune « senza obbligo però di pagare la meta del valore del suolo su cui il muro è stato costruito ». Ciò dunque significa che in questo caso la rinuncia si limita al muro da costruire, ma non si estende al suolo su cui il muro deve essere costruito; analogamente deve ritenersi che anche nel caso in esame la rinunci, alla comunione di cui all'art. 884 si limiti al muro e non si estenda al suolo.

Il legislatore deve essere stato indotto a tale soluzione dal fatto che in sostanza le riparazioni e ricostruzioni riguardano la costruzione e non il suolo, e quindi l'obbligo della rinunzia deve limitarsi a quello che forma oggetto di riparazione o di costruzione, ossia al muro, e non deve estendersi al suolo che ne resta del tutto estraneo. Nello stesso ordine di idee il codice estense (art. 536) disponeva che il rifiuto del condomino di concorrere alle spese configurasse una rinuncia al condominio del muro, e che con tale rinuncia non alterasse la linea di confine, intendendosi che l’area su cui poggiava la metà del muro rinunciato fosse semplicemente come prestata per l’uso di sostenerlo.


Se è ammessa la rinuncia parziale

Altra questione dibattuta è se è o meno ammissibile un abbandono parziale del muro, l’abbandono, cioè, limitato a quella parte in cui sono necessarie le riparazioni. In Francia la Cassazione decise per la tesi affermativa, argomentando dall’art. 601 del codice francese, che ammette l’acquisto parziale della comunione: come è ammesso l’acquisto parziale, deve essere ammessa anche la rinuncia parziale.

In Italia, sulla base della motivazione della Cassazione francese, dovrebbe venirsi ad una soluzione modificata in coerenza alla diversa disposizione del nuovo codice (art. 874 del c.c.), che ammette l’ acquisto parziale in altezza ma non in lunghezza.

In realtà l’'art. 883 parla di rinuncia al diritto di comunione in generale, e quindi tutto il muro che si trova in comunione deve formare oggetto della rinuncia: una rinunzia parziale non è possibile nè in lunghezza, né in altezza.


Inefficacia liberatoria della rinuncia per i danni causati da fatto proprio del rinunciante

Sotto la vigenza del codice francese si discuteva se il diritto di rinuncia competesse al condomino anche quando le riparazioni erano state rese necessarie per fatto suo, di cui egli cioè dovesse ritenersi responsabile.

Da noi la questione fu risoluta testualmente dalla disposizione dell’art. 549 capov. vecchio codice, che è stata riprodotta nel nuovo codice (art. 8833 capov.): la rinuncia non libera il rinunciante dall'obbligo delle riparazioni e ricostruzioni a cui abbia dato causa col fatto proprio. Resta l'efficacia della rinuncia per le spese a cui egli non avesse dato luogo.

La causa del danno, quando questo è attribuito al fatto del rinunciante, deve essere provata dall'altro condomino: fino a prova contraria il danno si presume dovuto alle naturali condizioni del muro.


Impossibilità della rinuncia se il muro sostiene un edificio che spetta al rinunciante

Il diritto di rinuncia alla comunione non può essere esercitato quando il muro alla cui comunione si vorrebbe rinunciare sostenga un edificio appartenente al condomino che vuole fare la rinunzia (art. 880, I° capov.). Il caso normale previsto dalla legge è quello di un muro comune divisorio fra due edifici: non sarebbe lecito che uno dei condomini rinunciasse al diritto di comunione per esimersi dalle spese di riparazione e di ricostruzione del muro comune, perché anche dopo la rinunzia egli continuerebbe di fatto ad usufruire del muro al cui godimento egli ha rinunciato in diritto.

Lo stesso deve dirsi quando un muro comune non sostenga un edificio propriamente detto, ma qualsiasi altra opera appartenente al condomino che vorrebbe fare la rinuncia. È vero che l'art. 883 parla solo di edificio, ma la disposizione di questo articolo deve estendersi ragionevolmente al muro comune che serve di sostegno a qualsiasi opera di spettanza del rinunciante.


Abbattimento dell'edificio appoggiato al muro comune e conseguente rinunzia alla comunione

Il proprietario che vuole atterrare un edificio sostenuto da un muro comune può rinunciare alla comunione di questo, ma deve farvi le riparazioni e le opere che la demolizione rende necessarie per evitare ogni danno al vicino.

Questa disposizione ha assunto una notevole importanza a causa del grande numero di demolizioni causate dall'esecuzione dei piani regolatori dei grandi centri. Il Comune infatti espropria il fabbricato ricadente nella zona di demolizione e lo demolisce: normalmente questo ha in comune con l'edificio attiguo un muro divisorio. Allora il Comune, che ha espropriato anche la comunione di questo muro, può rinunciare alla comunione a norma dell'art. 883. Ma nasce la questione di sapere quali siano le riparazioni e le opere che l'articolo mette a carico del rinunciante: questione di grande importanza pratica perché la demolizione dell'edificio espropriato spesso rende necessario il consolidamento del muro divisorio comune, che senza l'appoggio dell'edificio demolito viene a perdere la primitiva solidità. La questione può diventare anche grave quando in mancanza di tale consolidamento il muro divisorio crolli, trascinando con sé la rovina dell'edificio sostenuto: in questo caso sarà l'espropriante il responsabile di tali danni?

La Corte di Appello di Palermo interpreta restrittivamente la disposizione della legge: il Comune che acquista una casa per demolirla e la demolisce non dovrebbe rispondere verso il vicino il cui muro divisorio diventa esterno, se non dei danni recati da una demolizione non ponderata.

Al contrario, invece, la locuzione dell'art. 883 autorizza una interpretazione ben più estesa. L'articolo dice nel modo più generale possibile che il rinunciante deve fare al muro le riparazioni e le opere che la demolizione rende necessarie per evitare ogni danno al vicino. Ora, è la demolizione che rende necessarie le opere dirette ad assicurare al muro diventato esterno la solidità necessaria per reggere l'edificio vicino: pertanto l'espropriante deve eseguire queste opere a sue spese, ed in mancanza deve rispondere verso il vicino di ogni danno e anche della rovina del muro divisorio e dell'annesso edificio.

Il corrispondente art. 550 vecchio codice limitava l'obbligo del condomino che demolisce alle riparazioni e alle opere rese necessarie dalla demolizione per la prima volta. Benché questa specificazione sia stata tolta nel testo dell'attuale art. 883 si ritiene che sia implicita nella disposizione della legge. È evidente, infatti, che l'obbligo deve essere circoscritto alle opere necessarie a seguito della demolizione e della rinuncia alla comunione: una volta ottenuto cosi il consolidamento del muro, le ulteriori spese che nel tempo si rendessero necessarie nei confronti del muro diventato ormai di proprietà esclusiva riguardano solo il proprietario e non più l'antico condomino divenuto da tempo estraneo.


La rinunzia non è tacitamente subordinata alla condizione che l'altro condomino esegua lui le riparazioni

Secondo la dottrina tradizionale, che mette capo a Pothier, la rinunzia di cui all'art. 883 non è pura e semplice, ma è sottoposta alla condizione tacita che l'altro condomino esegua lui le riparazioni e ricostruzioni richieste. Ma tale condizione non è scritta nella legge e pare arbitrario sottintenderla: chi rinuncia alla comunione lo fa col solo intento di sottrarsi alle spese di cui all'art. 883, pertanto, una volta esonerato dalle spese, il suo intento è raggiunto e non deve cercare altro. Pretendere, come l'opinione contraria vorrebbe, che l'altro condomino esegua lui le riparazioni richieste e che senza di questo la rinuncia debba intendersi come cosa non fatta, è un aggiunta alla legge. Non sarebbe poi conforme a quanto previsto dall’ordinamento che il diritto di rinuncia si facesse servire non solo allo scopo di esimersi dalle spese, ma altresì a quello di addossarle al vicino.

Pertanto la rinuncia di cui all'art. 883 è pura e semplice: il rinunciante, eseguita la rinunzia, non può più vantare nessuna pretesa sul muro. L' altro condomino potrà eseguire le riparazioni nei limiti e nei modi che crederà più convenienti al suo interesse e lo potrà fare perché ormai proprietario esclusivo del muro.


Riacquisto della comunione del muro a norma dell'art.874

La rinunzia al diritto di comunione del muro non toglie al rinunciante il diritto di riacquistarla in un secondo tempo, anche contro la volontà del vicino: lo si deduce dalla locuzione generale dell'art. 874 sulla comunione forzosa del muro di confine, nonché per analogia dalla disposizione dell' art. 878 del c.c..

L'acquirente deve conformarsi alle disposizioni richieste dall'art. 874 e pagare la metà della comunione del muro. Non è però tenuto a pagare la metà del valore del suolo su cui ii muro è costruito: si fa riferimento in proposito alle ragioni addotte sopra, al n. 3.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

421 Un secondo gruppo di norme (articoli 880-885) riguarda le presunzioni di appartenenza dei muri divisori e il regime dei muri comuni. In conformità del codice del 1865 (articoli 546-547), il nuovo codice (art. 880 del c.c. e art. 881 del c.c.) stabilisce due presunzioni, suscettibili di prova contraria: da un lato, la presunzione di comunione così per il muro che serve di divisione tra edifici (presunzione che, in caso di altezze ineguali degli edifici, è limitata al punto in cui uno di questi comincia ad essere più alto), come per il muro che serve di divisione tra cortili, giardini e orti o tra recinti nei campi; dall'altro lato, la presunzione di proprietà esclusiva del muro divisorio tra campi, cortili, giardini od orti, sulla base della posizione del piovente esistente nel muro e, ove questo manchi, di altri segni particolarmente qualificati. Circa i diritti e gli obblighi di ciascun condomino rispetto al muro comune, non ho apportato innovazioni rilevanti (art. 882 del c.c., art. 883 del c.c. e art. 884 del c.c.). Una disposizione integrativa ho però introdotta in tema d'innalzamento del muro comune. Come per il codice del 1865 (art. 554), il comproprietario che vuole eseguire la sopraelevazione, quando occorre aumentare lo spessore del muro per renderlo atto a sostenere il nuovo peso, deve costruire sul suolo proprio per il maggiore spessore che si renda necessario. Senonché può darsi che esigenze tecniche impongano di costruire sul suolo del vicino: in tal caso si autorizza la costruzione sul fondo finitimo per una doverosa tutela dell'interesse pubblico all'incremento edilizio. Il muro così ingrossato, resta di proprietà comune, ma il vicino ha diritto di conseguire il valore della metà del suolo occupato per il maggior spessore (art. 885 del c.c.).

Massime relative all'art. 883 Codice Civile

Cass. civ. n. 1014/1994

In mancanza di una servitus oneris ferendi o di comunione forzosa o meno del muro perimetrale, è illegittimo l'appoggio di un edificio su un altro vicino. Conseguentemente, qualora il proprietario del muro che subisce l'appoggio proceda alla demolizione del suo edificio, nell'esercizio della facoltà rientrante nel contenuto del diritto di proprietà, non ha l'obbligo di non demolire il muro perimetrale, né di compiervi le necessarie opere di rafforzamento al fine di renderlo idoneo all'appoggio, ma ove sia o venga a conoscenza della illegittimità dell'appoggio, deve soltanto avvertire il vicino, affinché, contemporaneamente alla demolizione, compia le opere necessarie per conferire al proprio edificio un autonomo equilibrio statico, restando responsabile per i danni derivati dalla demolizione all'edificio che abusivamente appoggia, solo nel caso in cui non abbia dato tempestivo avviso al vicino o abbia effettuato la demolizione senza l'osservanza delle ordinarie cautele.

Cass. civ. n. 5475/1993

La disposizione di cui all'art. 833 (rectius: 883 - N.d.R.) c.c., che condiziona la liceità della demolizione di un edificio sostenuto da muro comune all'esecuzione delle opere necessarie ad evitare ogni danno al vicino, si applica per analogia anche al caso di due edifici privi di muro comune, perché costruiti in aderenza, quando la tecnica costruttiva sia stata tale che l'uno svolge funzione di sostegno e appoggio all'altro.

Cass. civ. n. 129/1976

A norma dell'art. 883 c.c., il proprietario che demolisca un edificio sostenuto da muro comune, può rinunciare alla comunione di questo, ove non intenda più utilizzarlo, ma è obbligato alle riparazioni ed alle opere di ripristino del muro medesimo, che si rendano necessarie in conseguenza della demolizione, ed al comproprietario del muro, pertanto, va riconosciuto il diritto di agire per ottenere la condanna dell'autore della demolizione all'adempimento di detto obbligo, in relazione al suo interesse di poter esercitare, come e quando vorrà, tutte le difficoltà inerenti al suo diritto sulla cosa, ed a prescindere, quindi, dalla dimostrazione di un'attuale necessità di utilizzare il muro stesso (ad esempio, per l'appoggio di una nuova costruzione; tale azione, peraltro, non presuppone il conseguimento, da parte dell'obbligato, di licenza amministrativa per le opere di ripristino del muro, in quanto l'eventuale diniego della licenza medesima non vale ad elidere il diritto del comproprietario, ma, se del caso, potrà far sorgere questioni solo in sede di esecuzione della pronuncia di accoglimento della domanda.

Cass. civ. n. 2983/1974

Il diritto del proprietario di demolire e ricostruire il proprio edificio non incontra altri limiti che l'eventuale esistenza di una servitù prediale, che vieti tale demolizione a vantaggio di altro edificio contiguo, e l'osservanza della norma di cui all'art. 883 c.c. che, nell'ipotesi di sussistenza fra i due fabbricati di un muro comune, obbliga il proprietario che intenda demolire a farvi le riparazioni necessarie per evitare danni al vicino. All'infuori di tali ipotesi, il proprietario — salva l'adozione delle opportune misure cautelare, attinenti alle modalità dei lavori di abbattimento — può demolire liberamente il proprio stabile anche se quest'ultimo serva da appoggio ad altro edificio privo di stabilità e senza essere tenuto, in tal caso, ad eseguire adeguate e tempestive opere di sostegno. Del pari, lo stesso proprietario non è obbligato, nel ricostruire, a fornire nuovamente al vicino l'appoggio di cui questa aveva, fino ad allora, fruito, senza avervi diritto. Al contrario, incombe al proprietario del fabbricato instabile, che versa in illecito, per aver goduto dell'appoggio senza titolo di servitù e fuori della comunione del muro, l'obbligo di eliminare questa invasione dell'altrui sfera giuridica, eseguendo a sue spese e sul proprio suolo, le opere necessarie a garantire all'altro proprietario il diritto di demolire e ricostruire il proprio stabile senza pericoli di sorta.

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Consulenze legali
relative all'articolo 883 Codice Civile

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M. B. chiede
mercoledì 02/11/2022 - Emilia-Romagna
“Buongiorno, avrei bisogno di un consulto. Una mia cliente è proprietaria di un appartamento in un condominio. Uno dei muri esterni del condominio era aderente ad un magazzino di proprietà di terzi che è stato abbattuto. Il muro del condominio fungeva anche da parete di tale magazzino. Le travi portanti del tetto del magazzino erano infisse nel muro del condominio. A seguito dell'abbattimento del magazzino, il muro del condominio, che non è intonacato, è rimasto scoperto ed è esposto alle intemperie che provocano infiltrazioni d'acqua ed umidità nella parte interna del muro condominiale. Al fine di evitare tali infiltrazioni occorrerebbe intonacare il muro rimasto scoperto. I lavori di intonacatura e la relativa spesa competono al proprietario del magazzino abbattuto oppure al condominio proprietario del muro rimasto scoperto? Vi ringrazio in anticipo per il consulto”
Consulenza legale i 07/11/2022
Cass. Civ. n. 5475 del 14.05.1993, ammette analogicamente l’applicazione dell’art. 883 del c.c. "anche al caso di due edifici privi di muro comune, perché costruiti in aderenza, quando la tecnica costruttiva sia tale che l’uno svolge funzione di sostegno e appoggio all’altro".
Nel caso specifico si ritiene che possa trovare applicazione analogica l’art. 883 del c.c. visto che, per quanto si è capito le travi portanti del tetto del magazzino erano infisse nel muro del condominio.
Per tale motivo i lavori di intonacatura dovrebbero essere sopportati dal proprietario del magazzino abbattuto, in quanto spesa necessaria ad evitare ogni danno al vicino.

Se, al contrario, a seguito di consulenza tecnica, dovesse risultare che tra i due muri perimetrali non vi fosse alcun rapporto di sostegno e appoggio, la situazione sarebbe radicalmente diversa.
Come ci dice, tra le tante, Cass.Civ. n.4207 del 23.03.2001, il diritto di abbattere un edificio rientra tra le facoltà del diritto di proprietà: pertanto, se a seguito dell’abbattimento si verificassero dei danni all’edificio del vicino, colui che ha proceduto all’abbattimento non risponde dei danni per il solo fatto che si sono eseguiti i lavori: "richiedendosi per la sussistenza di tale responsabilità che la demolizione per il modo in cui è stata attuata riveli la violazione del precetto del "neminem laedere".

In questo secondo caso, quindi, il proprietario del magazzino non dovrebbe sopportare in maniera automatica le spese di intonacatura: per addebitargli tali oneri, si dovrà invece dimostrare ex artt. 2043 e ss. del c.c. che le infiltrazioni dovute alla mancanza di intonaco sono state causate alle parti comuni dell’edificio condominiale da lavori di abbattimento non eseguiti a regola d’arte.

Se non si riuscisse a dimostrare la responsabilità civile del proprietario del magazzino abbattuto, le spese di intonacatura dovrebbero essere sopportate esclusivamente dal condominio, rimanendo in capo a colui che procede all’abbattimento un mero obbligo di avvisare i vicini prima dell’inizio dei lavori (Cass.Civ. n. 4154 del 26.06.1981).


Sergio M. C. chiede
mercoledì 19/06/2019 - Sicilia
“Trattasi di 2 edifici in muratura di proprietari diversi con muro portante in comunione.

In edifici contigui con muro in comune se uno dei due proprietari atterra il proprio edificio perde la comproprietà del muro oppure potrebbe non rinunciarvi? Qualora ne mantenga la comproprietà può impedire all'altro proprietario, che voglia anch'egli successivamente atterrare il proprio stabile, di abbattere il muro in comunione o comunque obbligarlo a mantenerlo per una altezza di 2 metri quale muro di confine?

Si richiede un parere corredato di utile giurisprudenza.”
Consulenza legale i 24/06/2019
La principale norma di riferimento in merito al quesito in oggetto è l’articolo 883 del codice civile che stabilisce che il proprietario che vuole atterrare un edificio sostenuto da un muro comune può rinunziare alla comunione di questo, ma deve farvi le riparazioni e le opere che la demolizione rende necessarie per evitare ogni danno al vicino.
In materia, si cita ad esempio la seguente massima della Corte di Cassazione (n.10325/1998) che testualmente sancisce che: “Il proprietario che demolisce il muro comune è obbligato ad eseguire le riparazioni necessarie ad evitare danni ai vicini. Tuttavia tale obbligo - il quale costituisce oggetto di un'obbligazione "propter rem" - non si estende, per difetto del nesso causale, ai danni ascrivibili casualmente alla condotta di altri soggetti (terzi esecutori di altre opere di demolizione) od alle carenze strutturali del fabbricato.

Ad ogni modo, già dalla lettura del predetto articolo, si evince che la perdita della comproprietà non è un effetto necessario, ma che anzi la relativa rinuncia alla comunione è una facoltà dell’avente diritto.

Quanto alle circostanze ipotizzate nel quesito di poter impedire al vicino (che intenda a sua volta atterrare il proprio stabile) di abbattere il muro in comunione o di obbligarlo a mantenerlo a un altezza di 2 metri quale muro di confine, si osserva quanto segue.

Volendo far riferimento, in via analogica, alla disciplina di cui all’art. 880 c.c., si cita la seguente massima della Suprema Cassazione (sentenza n.3393/1998) secondo cui: “la comunione del muro divisorio non va intesa nel senso che ciascuno dei comproprietari abbia la proprietà assoluta della metà del muro (e del suolo) secondo una linea mediana ideale, bensì nel senso che ciascuno di essi è proprietario, sia pure pro quota, dell'intero muro e del suolo ad esso sottostante, in ogni sua parte; né la demolizione di uno dei due edifici confinanti fa venire meno (in assenza di titolo o di giustificazione) la comunione che, pertanto, può essere utilmente invocata ad ogni effetto da ciascuno dei partecipanti. Consegue da tali principi che il comproprietario del muro comune abbattuto dall'altro comproprietario arbitrariamente, ha diritto alla costruzione del manufatto secondo le primitive sue caratteristiche; nonché alla restituzione della parte di suolo comune indebitamente attratta nella sfera della signoria esclusiva dell'altro condominio.”
Sulla base della predetta pronuncia, si potrebbe dunque affermare una facoltà di impedire l’abbattimento del muro in comunione.

Va comunque precisato che la giurisprudenza di legittimità in materia di articolo 883 c.c. è assai scarna e, soprattutto, non vi sono pronunce recenti.

Quanto alla facoltà di obbligare il vicino a mantenere detto muro ad una altezza di 2 metri ipotizzata nel quesito, si osserva altresì quanto segue.
Non risulta esservi una norma di legge che preveda tale ipotesi.
Anche qui, ragionando per analogia, si può fa riferimento all’art. 886 c.c. che prevede che l'altezza di tale muro, se non è diversamente determinata dai regolamenti locali o dalla convenzione, deve essere di tre metri.
Riteniamo dunque non possa essere imposto la vicino un obbligo di mantenere il muro in questione ad una altezza di due metri.

Anonimo chiede
venerdì 14/04/2017 - Estero
“Il proprietario della proprietà confinante con quella dei miei genitori ha demolito l'edificio costruito in aderenza all'immobile dei miei genitori nel Febbraio 2014. Il muro di confine comune hai due edifici prima della demolizione e' stato lasciato privo di protezioni es esposto agli agenti atmosferici. I miei genitori hanno riscontrato danni al proprio edificio nel muro di confine nell''estate 2016. Vorrei capire se i miei genitori sono ancora in tempo a chiedere un risarcimento danni, se l'art. 883 si applica al caso e quanto potrebbe costare affrontare la causa di risarcimento in tribunale in questo caso.”
Consulenza legale i 23/04/2017
Va preliminarmente detto che un’azione di risarcimento danni derivante da fatto illecito è soggetta ad un termine prescrizionale di 5 anni dal giorno in cui il fatto si è verificato, più precisamente dal giorno in cui il danno diventa oggettivamente percepibile all’esterno: pertanto nel caso di specie, essendosi manifestato e scoperto il danno nel 2016, sarebbe ancora possibile agire in Tribunale.

L’art. 883 cod. civ. potrebbe essere il riferimento normativo corretto per un caso come quello che ci occupa: l’articolo, in effetti, parla dell’“atterrare un edificio sostenuto da un muro comune”:
Il testo specifica, tuttavia, che colui che demolisce l’edificio sostenuto dal muro comune deve fare le riparazioni e le opere che “la demolizione rende necessarie per evitare ogni danno al vicino”.
Si comprende, dunque, che le opere che si richiedono al vicino che demolisce il proprio edificio sono quelle – ed esclusivamente quelle – che siano causalmente derivanti dalla demolizione.
Occorre, cioè, un nesso causale diretto tra la demolizione e il danno.

Ebbene, è pur vero che il danno derivante –nel caso di specie –dall’esposizione agli agenti atmosferici è sicuramente riconducibile all’intervento di demolizione del 2014, dal momento che, in effetti, se la demolizione non ci fosse stata, il muro comune sarebbe rimasto protetto in quanto aderente ai due edifici e molto probabilmente non si sarebbe rovinato.
E’ altrettanto vero, tuttavia– ragionando al contrario – che non si può certo affermare che un danno come questo possa derivare solo dalla demolizione: in buona sostanza, si tratta di un tipo di danno che facilmente si può verificare in ogni edificio che abbia facciate esposte e non costruite in aderenza ad altri edifici.
Ciò non per negare il risarcimento ai proprietari che si sono visti danneggiati, ma semplicemente per evidenziare come l’applicazione dell’art. 883 cod. civ. non sia così scontata.

La giurisprudenza, purtroppo, non aiuta a chiarire la questione, dal momento che i Giudici si sono occupati pochissime volte della fattispecie di cui all’art. 883 cod. civ.. Si riporta di seguito la pronuncia più rilevante sul tema: “A norma dell'art. 883 c.c. il proprietario che demolisce il muro comune è obbligato a eseguire le riparazioni necessarie a evitare danni ai vicini. Tale obbligo, il quale costituisce oggetto di una obbligazione propter rem, peraltro, non si estende, per difetto del nesso causale, ai danni ascrivibili casualmente alla condotta di altri soggetti (terzi esecutori di altre opere di demolizione) o alle carenze strutturali del fabbricato. Da tale disposizione si desume - altresì - che la legittimità della demolizione dell'edificio è subordinata alla esecuzione delle riparazioni e delle opere rese necessarie dalla demolizione medesima per evitare i danni al comproprietario. Deriva da quanto precede, pertanto, che dalla inosservanza delle cautele specificamente prescritte scaturisce la responsabilità per i danni, derivati al comproprietario dall'abbattimento del muro” (Cassazione civile, sez. II, 05/05/2016, n. 9034; Cassazione civile, sez. II, 19/10/1998, n. 1032).
Dalla lettura della pronuncia citata, come si vede, non emerge nulla di particolarmente rilevante, se non il principio, già sottolineato sopra, che l’elemento essenziale è la sussistenza del nesso causale tra danno e demolizione.
In un’eventualità come quella in oggetto, per tornare al quesito, non si potrà dunque far altro che affidarsi al giudizio del Tribunale, non esistendo una casistica sul punto né, conseguentemente, un orientamento giurisprudenziale a riguardo.

Riguardo alle spese ipotizzabili per una causa di questo tipo, esse sono difficilmente quantificabili a priori, essendo state, com’è noto, abolite da anni le tariffe forensi obbligatorie: ogni avvocato è libero di richiedere, quindi, il compenso che ritiene più opportuno (ma è diritto del cliente chiedere, ed ottenere, un preventivo... previo).
Si può, in linea di massima, fare riferimento ai parametri stabiliti dal Decreto n. 55/2014, al quale l’autorità giudiziaria deve fare riferimento per la liquidazione delle spese di lite al termine di un procedimento, qualora le parti non abbiamo prodotto in giudizio un diverso accordo sulle spese intervenuto con il proprio legale.
Tali parametri dipendono dal valore della domanda (in questo caso dall’ammontare del risarcimento richiesto). Si riporta di seguito la relativa tabella:
Giudizi Ordinari e Sommari di Cognizione avanti al Tribunale
da 0,01
a 1.100,00
da 1.100,01
a 5.200,00
da 5.200,01
a 26.000,00
da 26.000,01
a 52.000,00
da 52.000,01
a 260.000,00
da 260.000,01
a 520.000,00
studio della controversia 125,00 405,00 875,00 1.620,00 2.430,00 3.375,00
fase introduttiva del giudizio 125,00 405,00 740,00 1.147,00 1.550,00 2.227,00
fase istruttoria e/o trattazione 190,00 810,00 1.600,00 1.720,00 5.400,00 9.915,00
fase decisionale 190,00 810,00 1.620,00 2.767,00 4.050,00 5.870,00


Vi sono poi delle spese vive che, al contrario del compenso dell’avvocato, sono facilmente preventivabili, perché fisse.
All’atto dell’iscrizione a ruolo della causa, infatti, occorrerà versare il “contributo unificato” (vecchia imposta di bollo), anche questo di importo diverso a seconda del valore della domanda:

Valore 1° grado Impugnazione Cassazione
Per i processi di valore fino a € 1.100,00 € 43,00 € 64,50 € 86,00
Per i processi di valore superiore a € 1.100,00 e fino a € 5.200,00 € 98,00 € 147,00 € 196,00
Per i processi di valore superiore a € 5.200,00 e fino a € 26.000,00 € 237,00 € 355,50 € 474,00
Per i processi di valore superiore a € 26.000,00 e fino a € 52.000,00 € 518,00 € 777,00 € 1.036,00
Per i processi di valore superiore a € 52.000,00 e fino a € 260.000,00 € 759,00 € 1.138,50 € 1.518,00
Per i processi di valore superiore a € 260.000,00 e fino a € 520.000,00 € 1.214,00 € 1.821,00 € 2.428,00
Per i processi di valore superiore a € 520.000,00 € 1.686,00 € 2.529,00 € 3.372,00

Si dovrà, poi, unitamente al contributo unificato, versare una marca da bollo pari ad € 27,00.
Vi saranno, poi, le spese di notifica dell’atto introduttivo (che, nel caso l’atto venga notificato a mezzo del servizio postale, seguiranno le tariffe ordinarie per le spedizioni postali).
In corso di causa vi potranno essere le spese per un’eventuale Consulenza Tecnica d’Ufficio, ovvero per la nomina di un perito che stimi i danni ed effettui una valutazione economica degli stessi, spese che dipendono dalla tariffe del consulente nominato.
Infine, al termine del procedimento, vi sarà da pagare la tassa di registro della sentenza.
Se, poi, si soccombe (ovvero si perde la causa) il rischio concreto è di subire la condanna al pagamento, oltre che delle proprie spese legali, anche di quelle di controparte.