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Articolo 832 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 27/03/2024]

Contenuto del diritto

Dispositivo dell'art. 832 Codice Civile

Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno(1) ed esclusivo(2), entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico [Cost. 42, 43, 44].

Note

(1) Non esiste alcun limite per il proprietario in relazione alla possibilità di godere o disporre della cosa.
(2) Il titolare della cosa può escludere chiunque dal godimento della stessa: inoltre è impossibile, inoltre, che ad uno stesso bene, facciano capo diversi diritti di proprietà.

Ratio Legis

In relazione all'evoluzione di tale istituto nel corso del tempo, il diritto di proprietà è pieno ed esclusivo ma non più assoluto. Esistono, infatti, limiti positivi e negativi al suo esercizio. Quelli legali possono essere distinti in due diverse classi: la prima ricomprende i limiti posti nell'interesse pubblico; la seconda quelli individuati dal legislatore nell'interesse privato. Al fine di analizzare il contenuto dei limiti posti in funzione dell'interesse pubblico, è bene sapere che l'art. 42 della Costituzione attribuisce alla proprietà anche una funzione sociale: tale diritto può essere in parte od integralmente sacrificato a vantaggio della realizzazione di un interesse pubblico. Il codice, e talune leggi speciali, individuano appositi istituti atti al soddisfacimento del fine sociale. Si possono menzionare a titolo esemplificativo: l'espropriazione per pubblica utilità, la requisizione, l'occupazione, la proprietà edilizia, la disciplina della proprietà fondiaria [v. 840 ss.]. Le limitazioni all'interesse privato disciplinano, invece, i rapporti tra proprietà vicine, e le controversie che scaturiscono dalle rispettive facoltà di godimento del bene (distanze tra costruzioni, luci; acque; stillicidio. I limiti posti nell'interesse pubblico vanno, peraltro, distinti dalle servitù, particolare classe di diritti reali che si connotano come un peso imposto ad un fondo per realizzare un'utilità di un diverso fondo la cui titolarità fa capo ad un'altra persona. Ulteriori e principali caratteristiche del diritto di proprietà sono l'elasticità, attitudine, cioè, a riespandersi qualora cessino i limiti che la comprimevano, e l'imprescrittibilità.

Brocardi

Cuius est solum, eius est usque ad caelum (ad sidera), et usque ad inferos
Dominium rei amittimus, quum eam alteri ex iuxta causa tradimus, aut etiam quum eo animo abiicimus ut nostra non sit
Duorum vel plurium in solidum dominium esse non potest
Habetur, quod peti potest
Invitus nemo cogitur rem defendere
Iura in re propria
Ius utendi et abutendi re sua, quatenus iuris ratio patitur
Licet rei suae legem dicere
Meum est quod ex re mea superest, cuius vindicandi ius habeo
Nihil commune habet proprietas cum possessione
Proprietas
Proprietatis dominus plenam in re potestatem habet
Qui rem suam neglexit, nulli querelae subiectus est
Rem in bonis nostris habere intelligimur, quoties possidentes exceptionem, aut amittentes ad recuperandam eam actionem habemus
Unusquisque est rerum suarum moderator et arbiter
Usque ad sidera, usque ad inferos

Spiegazione dell'art. 832 Codice Civile

La definizione della proprietà e le polemiche ad essa relative

Sono a tutti note le interminabili polemiche suscitate dai tentativi di dare una definizione della proprietà: polemiche tra giuristi per le definizioni proposte dai giuristi e critiche, non sempre misurate, allo stesso legislatore, sia per il fatto di avere offerto una definizione prettamente legale, sia per il contenuto stesso della definizione. Polemiche e critiche – sarebbe quasi inutile rilevarlo - svelano, come sempre ma in questo caso in modo più chiaro del solito, presupposti metodologici (sono, dunque, indici di determinati orientamenti culturali) o ideologie politico-sociali (sono, perciò, indici di orientamenti pratici), e quindi, se da un lato offrono utili elementi per la valutazione del fenomeno « proprietà » in relazione alle esigenze economiche, sociali e spirituali di una data epoca, dall'altro lato denunciano lo scarso valore scientifico dei risultati conseguiti.

Il compito del giurista, sia rispetto alla proprietà che rispetto ad ogni fenomeno che interessi il diritto, è un compito rigorosamente tecnico: egli deve rendersi conto degli antecedenti ai quali si a ispirato il legislatore nel configurare un determinato istituto e, determinatane la funzione, delineare in termini concettuali la struttura dell'istituto facendo sempre riferimento alle norme positive.

Sotto questo profilo, si può procedere speditamente, tralasciando di esaminare le questioni che devono ritenersi superate perché di carattere contingente o quelle del tutto marginali, e toccando soltanto, peraltro sobriamente, quei punti che possono servire ad una più precisa ed intelligente sistemazione della nuova legislazione.


La definizione della proprietà e le definizioni legali in genere

La riforma, dunque, ha rimesso in discussione la questione relativa alla opportunità o meno di consacrare nel codice la definizione della proprietà: si tratta di una questione di carattere generale, che a parte le ragioni contingenti, soprattutto legate alla tradizione, sorge in relazione a qualsiasi definizione offerta dal legislatore. È stato, infatti, rilevato che le disposizioni nelle quali si concretizzano semplici definizioni legali non danno vita a vere e proprie norme giuridiche (legali), ma soltanto a delle norme che potrebbero ritenersi improprie. Queste norme improprie o sono incompiute e imprecise sintesi verbali che male riproducono il profilo concettuale degli istituti, o sono delle abbreviazioni convenzionali che servono ad evitare l'uso di perifrasi o circonlocuzioni, o la ripetizione di note accessorie che possono raccogliersi in espressioni più concise, o tutt'al più contengono un frammento di una norma giuridica vera e propria, nel senso che, di solito, stabiliscono alcuni presupposti per l'applicazione di una data norma giuridica.

Nel primo caso le definizioni legali non si giustificano per nulla, anzi sono veramente dannose, e valgono solo ad offrire al giurista, che voglia dalle norme positive (vere e proprie) ricavare il preciso profilo di un istituto, l'appiglio per polemizzare con il legislatore; nel secondo caso, non vi è dubbio che le norme in questione abbiano uno scopo ed una funzione praticamente apprezzabili, ma è evidente che il legislatore farà bene a ricorrere a definizioni legali del genere soltanto quando sia veramente necessario; nel terzo caso non si può discutere sulla legittimità delle norme in esame, ma si può certamente pretendere che risulti chiara la loro funzione e i contorni siano tracciati in modo netto.

Dentro questi limiti, dunque, si può consentire l'adozione di definizioni legali, quindi certe estreme prese di posizione devono essere tem­perate. « In generale parlando — è stato detto di recente — le definizioni poste nelle legislazioni in base ad una premessa teorica qualsiasi (giuridica o extragiuridica) finiscono per lo più col restarvi quali elementi estranei, spesso perturbatori. Una Legge ha da constare di formule normative: fuori di qui la funzione del legislatore spesso non e giustificata, più non è, diremmo quasi, legittima »

Alcuni anni or sono, nell’analizzare il gruppo di norme che, nel codice del 1865, contenevano il maggior numero di definizioni legali (quelle relative alla distinzione dei beni), si sosteneva che « un codice di leggi dovrebbe solo comprendere, a rigore, un complesso di vere norme, contenenti dei comandi e dei divieti, diretti a governare e disciplinare la condotta dell'uomo. Lex imperat, non docet, e il legislatore non è il teorico del diritto, ma l'interprete delle esigenze collettive e delle pratiche necessità dell' aggregate sociale ». Ma, pur con l'intento di condurre una critica incrociata senza precedenti, che solo diversi anni dopo influenzò la dottrina italiana e produsse i suoi risultati nella nuova legislazione (specialmente con l'abolizione della categoria degli immobili per destinazione, e l'eliminazione appunto delle norme degli art. 421 a 424 alla quali erano dedicate apposite pagine critiche), pareva opportuno temperare i rilievi critici con osservazioni pratiche: ciò che anche oggi, anzi più che mai oggi, pare imprescindibile.


Giustificazione teorica e pratica delle definizioni legali

Dunque il codice del 1865 conteneva una definizione della proprietà, la quale veniva introdotta proprio con la formula « la proprietà è ecc. ». La stessa formula introduttiva era utilizzata dal Progetto della Com­missione reale (art. 18), ed essa si riscontra pure nelle proposte della Commissione delle Assemblee legislative. Il codice ha adottato una for­mula differente preferendo, anziché riferire la definizione alla proprietà, prendere come termine di riferimento il « proprietario », cosicché, in sostanza, passando dal profilo oggettivo a quello soggettivo, ha offerto una definizione indiretta (del contenuto) della proprietà, determinando l'ambito delle facoltà del soggetto investito di quel diritto.

Nulla comunque è mutato nella sostanza: la definizione rimane una definizione, della quale si deve esaminare il contenuto, si tratta di una definizione che il giurista, il quale ha bisogno del concetto di proprietà, deve ingegnarsi di esprimere (o costruire) in termini diretti.

Si è ammesso implicitamente che, almeno per il giurista, sia utile se non necessario determinare il concetto di proprietà, per la sistematica intesa come contemperamento di esigenze teoriche e pratiche, e cioè come tessuto di concetti ricavati dal diritto positivo, al fine di chiarire la portata e il contenuto delle stesse norme positive (interpretazione sistematica del diritto), non si può negare l'utilità del concetto di proprietà, come di altri concetti generali (e se si vuole tradizionali: cioè, in sostanza, collaudati nella loro utilità e legittimità, appunto, dall'impiego e dal buon uso nel succedersi degli anni e delle generazioni). Nè qui ci si può impegnare in certe discussioni che soltanto quando ci si pone sul piano critico (in senso filosofico) possono essere legittime e il diritto, sia pure con rigore teorico, non è detto debba essere studiato unicamente e necessariamente da un punto di vista filosofico.

Ora una definizione legale della proprietà non può che essere, per il suo contenuto, generica, sì da delineare uno schema il più ampio possibile, nel quale verrà ricompresa ogni specificazione dell'istituto. Il giurista, data la definizione, ha la possibilità di completare la sua descrizione tracciando nello schema più ampio degli schemi minori: il legislatore, a cui si contesta persino il diritto di offrire la definizione, non può certo abbondare in distinzioni e sottodistinzioni. Ma in tal modo l'utilità della definizione legale, di per sé considerata, appare piuttosto modesta, tale quasi da non giustificare la fatica impiegata nella ricerca della formula più adatta a concretizzare il concetto che il legislatore intende affermare.

Tuttavia bisogna porre l’attenzione verso un profilo che non riguarda tanto gli istituti nel loro preciso disegno, quanto piuttosto gli orientamenti della legislazione in generale. È noto che alla base delle norme espresse stanno dei principi che servono quasi da tessuto connettivo, e che possono pure avere applicazione diretta, in via analogica, quando ne ricorrano gli estremi (art. 3 disp. prel.). Ora, può essere utile che il legislatore indichi la via per la ricerca e identificazione dei principi sui quali un determinato istituto poggia, come può essere utile che il legislatore offra all' interprete l’ appiglio testuale che sostenga certe soluzioni di questioni teoriche che trascendono l'ambito di singole norme o di gruppi di norme. In tali casi, anche se imprecisa, incompleta o troppo generica e tale da dare luogo a qualche equivoco (per altro non difficilmente eliminabile), si giustifica la disposizione contenente una definizione legale o un semplice rinvio a disposizioni particolari di natura specifica. Guardiamo, dunque, la definizione offerta dalla nuova legislazione sotto questo angolo visuale, e facciamone l'analisi.


Profilo soggettivo della definizione della proprietà nel nuovo codice

Il riferimento al proprietario anziché alla proprietà è indice di una tendenza che ha un significato politico-sociale, oltre che tecnico-giuridico. Si è voluto accentuare il profilo soggettivo del rapporto anziché quello oggettivo. Ciò poteva non avere alcun significato sotto il codice del 1865, che rifletteva quelle ideologie che assicuravano all'uomo una posizione di assoluta preminenza nell'ordine giuridico, e così al cittadino anche di fronte allo Stato. Le nuove concezioni hanno rafforzato la posizione dello Stato, tanto che ad un certo punto è anche sorto il dubbio che il singolo non avesse nessuna autonomia nella compagine sociale. Dubbio che, sotto il profilo dinamico dell'impiego di attività e beni nella produzione, è stato risoluto nel senso della prevalenza dell'iniziativa privata (Dich. VII C. d. L.), e che, sotto il profilo statico della titolarità piena, viene ora risolto almeno con l'affermazione formale della preminenza del soggetto (qualificato non per nulla « proprietario ») del diritto di proprietà, rispetto al quale le cose rimangono oggetti della esplicazione di un diritto, e lo stesso diritto si delimita specificando le facoltà del soggetto.

Dal punto di vista tecnico-giuridico, il riflesso del problema politico è assai vivo, ed è importante l’ indicazione che proviene dal legislatore. Si era, infatti, delineata una tendenza a considerare, anziché la posizione del soggetto come titolare del diritto di proprietà, le cose (oggetti, beni) e quindi la proprietà come un riflesso della disciplina sociale dei beni. Prendendo le mosse da certe caute e appropriate osservazioni, alcuni autori avevano ceduto alla tentazione di guardare il rapporto di proprietà dal basso in alto: dalle cose, cioè, al proprietario, e si era finito quasi con lo svincolare dal profilo e dalla dipendenza soggettivi la disciplina giuridica delle cose. Altri autori si opposero invece a tale ricostruzione.

L'autorevole parola del legislatore traccia un nuovo percorso, grazie alla formula adottata nella definizione della proprietà. E si deve, inoltre, tenere presente che l'art. 832 fa parte dello stesso Libro net quale si trova pure l'art. 811, che richiama la disciplina corporativa in relazione alla funzione economica dei beni e alle esigenze della produzione nazionale.

Non è dunque necessario invertire il rapporto, o guardarlo dal basso in alto: non è necessario cioè svincolare la cosa oggetto di proprietà dal soggetto di quel diritto - il proprietario -, affinché siano tutelate le esigenze della produzione nazionale, basta a tale fine ricorrere alla disciplina dell'ordinamento corporativo, la quale, come non sopprime l'iniziativa privata, così non distrugge
il diritto di proprietà.


Le varie concezioni della proprietà, e la proprietà come diritto soggettivo

II proprietario, dunque, « ha diritto »: l'art. 436 codice del 1865 diceva, invece, che la proprietà « è il diritto ». Salva la forma verbale, il contenuto delle due formule, almeno in apparenza, è uguale: ciò si deduce dal termine « diritto » adoperato nella disposizione abrogata e anche nella nuova. Eppure quella parola (un termine tecnico, si badi) non servì in passato a risolvere una serie di questioni teoriche, che oggi però possono essere facilmente risolte, a seguito del mutato orientamento metodologico. Tuttavia, è da rilevare che l'antica formula sarebbe stata maggiormente idonea a precludere il sorgere di tali questioni, appunto per la sua forma sintattica, come si vedrà subito.

a) La proprietà un tempo si considerava quasi una integrazione o una proiezione della personalità: ne costituisce, nel campo dei diritti patrimoniali, la manifestazione più caratteristica, quasi la manifestazione comprensiva di ogni altra in questo campo, come, appunto, il diritto di libertà nel campo personale. Né il testo abrogato nè quello nuovo offrono però sostegno ad una tale concezione: si tratta, in sostanza, di una metafora condotta alle sue estreme conseguenze. Metafora che potrebbe riferirsi a qualsiasi diritto, poiché ogni diritto potrebbe considerarsi come proiezione della personalità, sotto un duplice profilo: sia nel senso che un diritto non è concepibile se non con riferimento ad una persona, sia nel senso che la persona si esplica, in particolare nel mondo giuridico, appunto esercitando i propri diritti. Cose, però, troppo ovvie, e prive quasi di valore.

Né può dirsi che la proprietà è il retaggio necessario della persona, nel senso che non può concepirsi un soggetto così povero che non abbia la proprietà di qualcosa: dei vestiti che porta o del pezzo di pane di cui si sfama. Allo stesso modo, infatti, non può dirsi che non esista un soggetto così povero che non abbia diritti diversi dalla proprietà: per esempio il diritto alla pubblica assistenza o addirittura il diritto di credito sul pane che ha pagato e non gli è stato ancora consegnato, e anche qualora questo diritto di credito dura un istante, non durerà assai di più il diritto di proprietà sul pane, essendo destinato ad essere presto consumato.

b) La proprietà e una proiezione della capacità: questa affermazione costituisce, in un certo senso, una variazione della precedente. Quel che si dice della proprietà, infatti, può ripetersi per ogni altro diritto, per quanto concerne la capa­cità del soggetto. Cioè la capacità è una situazione della persona come tale, un presupposto, che opera in relazione ad ogni rapporto giuridico e ad ogni diritto, e dunque rispetto al diritto di proprietà come rispetto a qualsiasi diritto. Come capacità di diritto (capacità di essere soggetto del diritto di proprietà) e talvolta come capacità di acquistare, più spesso come capacità di agire (i minori, gli inabilitati, gli interdetti non possono disporre delle cose proprie se non sono legalmente rappresentati e assistiti, e se non si osservano le formalità di controllo stabilite dalla legge).

Del resto una derivazione, sicuramente più elegante, della tesi che qui si critica, è l’altra tesi secondo cui alla capacità giuridica, o a quella di agire, dovrebbe ricondursi il c.d. potere di disposizione, ma tale tesi è stata criticata in dottrina. Piuttosto il nuovo testo, ponendo come elementi distinti il proprietario (cioè il soggetto) e il suo diritto (di proprietà) agevola il procedimento di generalizzazione, per il quale tutto ciò che si riferisce alla capacità va riferito direttamente al soggetto in quanto persona, e non a questo o a quel diritto che ad esso spetta.

c) La proprietà è uno status. Affermazione priva di qualsiasi valore, perché non ha alla base un concetto tecnico ben delimitato del termine status, il quale, peraltro, riguarda sempre, non meno della capacità, la persona di per sé considerata, e non già questo o quel diritto (della persona). D’altra parte non si vedrebbe perché un diritto, anziché un altro (e, dunque, la proprietà) dovrebbe costituire lo stato personale (immaginiamo lo stato personale del godimento di uno spillo!)

D) La proprietà è un rapporto giuridico: il quale, però, può ben essere designato dalla parola diritto (in senso soggettivo). Con quest’ultima affermazione si vuole dire, in sostanza, che la proprietà è un diritto: con la prima si vuole conciliare questa proposizione con l’affermazione di alcuni, per i quali la proprietà sarebbe non già un diritto solo, ma un fascio di diritti. L’espediente, però, non è felice: quest’ultima affermazione andrebbe piuttosto confutata e rettificata, rilevando che la proprietà – diritto unico – costituisce (come ogni diritto) una sintesi di differenti e svariate facoltà. Semmai si potrebbe aggiungere che anche la proprietà, come qualsiasi diritto, presuppone un rapporto giuridico: ma il discorso potrebbe diventare molto complicato, poiché – com’è noto – vi è una parte notevole della dottrina che nega che il concetto di rapporto giuridico si possa estendere ai diritti reali e in particolare alla proprietà, e finisce con il negare la legittimità del concetto medesimo di rapporto giuridico, mentre un'altra notevole corrente dottrinale pone il concetto di rapporto giuridico al centro della sistematica giuridica, estendendone, naturalmente, l'ambito di applicazione anche ai diritti reali.

Rimane ferma, dunque, l'affermazione contenuta nella formula dell'art. 436 codice del 1865, e cioè che la proprietà è un diritto, un diritto soggettivo s'intende. E come tale riceve subito i1 suo inquadramento generico, per il quale, anziché della proprietà come di un'entità del tutto a se stante, non classificabile, si può e si deve parlare del diritto di proprietà: diritto, appunto, di quel soggetto che si dice proprietario. E quando si tratti di determinare il contenuto, si può pure fare riferimento alle facoltà che spettano al soggetto proprietario, seguendo, cioè, il nuovo testo legislativo.


La proprietà come diritto reale fondamentale

Ma intanto si può subito restringere l'ambito dello schema entro il quale va collocato il diritto di proprietà, rilevando che esso è un diritto reale, e come tale si distingue dai diritti personali. Lo spunto per tale specificazione può ritenersi implicito anche nella definizione legale: in essa, infatti, si fa riferimento alle cose, considerate come immediato punto di riferimento del diritto di proprietà, nelle sue tipiche specificazioni che si profilano nel godimento e nella disposizione, o meglio nelle relative facoltà (delle quali si dirà appresso). Ed è noto che comunemente e tradizionalmente si considera, appunto, come carattere o segno distintivo dei diritti reali l'immediatezza della relazione con la cosa, attraverso il diritto, mentre i diritti personali presuppongono un rapporto con un'altra persona.

Ulteriori specificazioni si possono sempre dedurre dal sistema positivo: la proprietà, infatti, si colloca agevolmente tra i diritti (reali) di godimento, non fosse altro perché dalla definizione legale risulta essere, in linea principale, diritto di godere (dunque diritto reale di godimento): di conseguenza si distingue dai diritti reali di garanzia. Ma si può pure dedurre dal sistema positivo un'altra qualifica, per la quale ancora meglio si classifica il diritto di proprietà: quella di diritto reale fondamentale, rispetto al quale tutti gli altri diritti reali (di godimento o di garanzia) sono dipendenti ed al quale si appoggiano, in quanto iura in re aliena.

Per il diritto di proprietà appunto si instaura quel rapporto di titolarità immediato rispetto alla cosa, per cui questa si dice propria (in proprietà) del soggetto, che appunto per tale ragione si dice proprietario: e ciò è ben espresso nella definizione. Gli altri diritti reali presuppongono costituito tale rapporto, perché sono diritti su cosa altrui (rispetto al titolare di essi), in proprietà, appunto, di un altro soggetto, cioè di quello che deve sopportare l'onere di quei diritti.

Generalizzando e chiarendo ulteriormente l'idea si può dire che di fronte agli altri diritti reali, quello di proprietà si caratterizza come diritto fondamentale, in duplice senso: a) esso si costituisce come diritto autonomo non solo perché non dipende, ma perché per sua essenza non può dipendere da altro diritto reale; b) ogni altro diritto reale presuppone di necessità, come immancabile piedistallo, il diritto di proprietà.


Il contenuto del diritto di proprietà

Ora bisogna toccare più da vicino il contenuto del diritto di proprietà: tanto il legislature del 1865 quanto quello attuale caratterizzano il contenuto del diritto di proprietà o del diritto del proprietario rispettivamente facendo riferimento agli elementi del godimento e della disposizione. Ma attorno a questa affermazione le dispute si sono moltiplicate.

Anzitutto si è visto in essa il riflesso e l'eco non ancora sopiti di concezioni tradizionali ritenute errate del diritto di proprietà, e precisamente di quelle concezioni secondo le quali la proprietà sarebbe, anziché un diritto unico, una somma di diritti (o, se si vuole, di facoltà, ma ben individualizzate e distinte l'una dall'altra). Compare prima di tutte l'azione di rivendica, nella definizione della Glossa: « dominus dicitur qui rei vindicationem habet », successivamente la facoltà di disporre: « ius perfecte disponendi o plene ac libere disponendi, alienandi potestas ». Le affermazione si congiungono definitivamente in una successiva proposizione: « Vulgo dominium definitur hoc modo: ius re corporali perfecte disponendi aut vindicandi nisi quod lex aut conventio prohibetur ». Altre aggiunte si hanno in una definizione dovuta a giureconsulti chiamati « recentiores »: in questa definizione la proprietà è detta « ius in re corporali non tantum utendi sed abutendi et alienandi, vindicandique quatenus iure permittitur ».

In conclusione, la tendenza era « quella di ridurre il contenuto della proprietà ai suoi elementi essenziali, trovarne la definizione nella enumerazione di questi elementi essenziali positivi: alcuni autori, cercando di dare tutti gli elementi che possono essere contenuti nella proprietà, e così definendo soltanto la piena proprietà, altri invece cercando di restringere questi elementi a quelli senza i quali la proprietà non è più tale, e cosi definendo soltanto la minima proprietà ».

Il più grave inconveniente della definizione legale consisterebbe — secondo i critici – nel fatto che la proprietà si caratterizzerebbe attraverso l'enumerazione delle potestà, come nelle definizioni del diritto comune. La dottrina moderna, invece, considera la proprietà nella sua « unità globale », come sintesi di svariate facoltà non determinabili a priori: « la proprietà non è infatti quanto al contenuto una somma di più o meno determinabili e singole facoltà ».

Pare ora di poter dimostrare che la definizione legale della proprietà resiste — per questo verso — alle censure che le sono state mosse. Anzitutto perché essa fa capo, anzi pone a fondamento la c.d. facoltà di godimento, a proposito della quale si è avuto occasione di osservare che « non è una facoltà determinata, ma un complesso generico di facoltà, e talvolta di tutte le facoltà costituenti il contenuto del diritto soggettivo ». Inoltre, nella definizione predetta, la facoltà di disposizione è posta in relazione stretta con quella di godimento, ed anche a tale proposito ho avuto occasione di rilevare che la facoltà di disposizione « può profilarsi come una estensione della facoltà di godimento, e più precisamente come la conseguenza estrema di essa, cioè come la causa che legittima l'attività del soggetto inerente al godimento del diritto, esteso questo godimento fino al punto di escludere se dal rapporto, per farvi subentrare un altro soggetto ».

In base a tali premesse, si era affermato che già il riferimento alla facoltà di godimento consente di designare « anziché una determinata facoltà tipica, la sintesi di tutte le possibili facoltà di utilizzazione e di sfruttamento della cosa, compresa in essa anche la facoltà di disposizione ». Quindi si rilevava che nella definizione legale non sarebbe stata neanche necessaria (e forse neppure opportuna) la menzione della facoltà di disposizione, e che la formula legale dovesse intendersi come formula sintetica, anziché analitica, come si deduceva dall’ espressione qualificativa « nella maniera più assoluta », con la quale l'art. 436 codice del 1865 suggellava la menzione delle facoltà delle quali parliamo.

La nuova legge ha pure una espressione qualificativa che, per quanto abbia diverso contenuto (su questo punto ci si soffermerà più avanti), ha la medesima funzione: « in modo pieno ed esclusivo ». Risulta chiaro dunque, che nella intenzione del legislatore la facoltà di godimento e quella di disposizione hanno per loro natura quella capacità di espansione per la quale il diritto del proprietario si può caratterizzare come pieno, oltre che come esclusivo. Il timore, dunque, della scomposizione analitica del diritto di proprietà nelle singole facoltà specifiche nelle quali può risolversi, deve ritenersi per lo meno eccessivo.

Peraltro la Commissione reale, commentando la formula usata nell'art. 18 del Progetto, osservava che « con la espressione ormai tradizionale " diritto di godere e disporre della cosa " (usata in quasi tutti i codici vigenti) si riassumono tutte le facoltà che competono al proprietario ».


Assolutezza, esclusività ed elasticità della proprietà

La formula della nuova definizione legale caratterizza il diritto di proprietà quale diritto pieno ed esclusivo. L'art. 436 codice del 1865 lo caratterizzava come diritto assoluto, con una formula tanto enfatica quanto impropria: « diritto di godere... nella maniera più assoluta purché... ». Si era sentito persino il bisogno di superlativizzare il carattere dell'assolutezza, che, per sua intrinseca natura, non ammette gradazioni, e subito dopo a quella assolutezza, pur inopportunamente superlativizzata, si ponevano delle limitazioni! Era questo il lato più infelice della definizione legale contenuta nel codice abrogato.

Dunque la formula adottata dall'art. 832 è più corretta di quella del vecchio codice, ma non soltanto, è anche più esauriente, quanto può esserlo — s'intende — una formula che voglia caratterizzare il diritto di proprietà. Il diritto di proprietà, classificato come diritto reale fondamentale, è sufficientemente definito quando lo si designa come diritto di godimento pieno ed esclusivo: va lasciato dunque da parte il c. d. carattere dell' assolutezza del dominio, sia perché un diritto assoluto e logicamente inconcepibile, sia perché nella stessa definizione legale (e più esplicitamente in quella dell'art. 436 del codice abrogato che si richiamava, appunto, all'assolutezza) si parla di limitazioni. E non è neppure il caso di dare troppa importanza al carattere della esclusività, come aspetto autonomo che possa farsi valere come specifico ai fini della definizione della proprietà. Insistendo, invece, sulla pienezza del godimento, l'esclusività si può considerare come elemento complementare o inscindibile aspetto di quella pienezza. Così la formula della legge dire che il diritto di proprietà è caratterizzato dalla sua totalità potenziale, dalla sua tendenza ad espandersi indefinitamente, al punto che non può dirsi un diritto assoluto ed illimitato, ma un diritto assorbente ed al quale non si possano predeterminare limiti fissi e certi una volta per tutte, anzi, non si può predeterminare il limite unico che ne circoscriva rigidamente l'ambito. Si possono, invece (e si vedrà subito) determinare limiti particolari a tutela di definiti interessi.

Questa capacità di espansione, questa tendenza al totale assorbimento di tutte le possibilità di utilizzazione della cosa, costituiscono, positivamente, la sostanza del diritto di proprietà, e i limiti specifici operano dall'esterno, si direbbe negativamente, ad ostacolarne in direzioni e in zone determinate l'espansione.

Il più tipico riflesso del carattere che si e messo in evidenza e la c.d. elasticità del dominio, qualità per cui il diritto di proprietà, ed esso soltanto, qualunque sia il carico di pesi, oneri, limiti che lo gravino, tende sempre a liberarsi di essi e ad espandersi: ad acquistare, cioè, anzi a riacquistare la massima estensione.

Questo concetto va chiarito. Il proprietario può essere privato di qualsiasi possibilità di godimento della cosa, poiché queste possono essere tutte attribuite ad altri, cioè da un usufruttuario. L'usufrutto ha un ambito che può dirsi esteso quanto quello della proprietà, si potrebbe dire che anche esso è un diritto di godimento pieno ed esclusivo, fino al punto che l’ esclusività si rivolge pure contro il proprietario. Ma la differenza fra proprietà e usufrutto sta alla radice nell'essere quello e non questo un diritto fondamentale, e questo, anzi, diritto reale (da quello) dipendente. Per cui la proprietà tende a liberarsi dell'usufrutto, del quale può essere gravata solo temporaneamente, e a riacquistare cosi tutta la sua pienezza.

Per quanto riguarda i limiti posti dalla legge senza determinazioni di tempo, a parte il fatto che essi possono variare, e quindi possono essere rimossi senza lasciare traccia (la spontanea espansione colma qualsiasi vuoto), resta sempre caratteristico il fatto che si tratta di limiti specifici, di isolotti che in seno al diritto di godimento pieno, circondati, vivono la loro vita, senza togliere a quel diritto, preso nel suo complesso, il carattere di pienezza che lo contraddistingue.


Gli obblighi del proprietario e il diritto di proprietà

L'art. 436 codice del 1865 toglieva significato alle espressioni enfatiche con le quali designava la c. d. assolutezza del dominio, introducendo la riserva dei limiti legali e regolamentari: il diritto del proprietario è massimamente (!) assoluto, purché egli non faccia della cosa « un uso vietato dalla legge o dai regolamenti ».

La nuova definizione legale, invece, pare voglia circoscrivere l'ambito del godimento pieno ed esclusivo, stabilendo che esso deve essere mantenuto ed esercitato « dentro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico ». Ma soltanto in apparenza qui si ha una limitazione (meglio delimitazione) di carattere generale, poiché solamente l'espressione verbale riveste questo carattere. Nella sostanza, essa si riduce ad un rinvio a tutte quelle disposizioni speciali che pongono limiti o impongono obbligazioni, necessariamente di carattere specifico.

Ma, a proposito della formula adottata dal nuovo legislatore, qualche scrittore ha manifestato la preoccupazione che la menzione degli obblighi possa snaturare il diritto di proprietà e, rifacendosi alla tendenza dottrinale già accennata e criticata, secondo la quale nei moderni ordinamenti giuridici, anziché considerare il diritto di proprietà dal punto di vista del soggetto, si possono considerare i beni o cose formanti oggetto di proprietà, ha concluso affermando che se con il diritto di proprietà si combina l'obbligo, si ha la trasformazione della proprietà come diritto nella proprietà come bene.

A proposito di questa preoccupazione, a parte il fatto che non si riesce ad intendere, in termini di tecnica giuridica, come si possa contrapporre la proprietà-diritto alla proprietà-bene, poiché la proprietà è sempre un diritto (o al massimo un' altra entità: interesse legittimo o facoltà protetta etc.) su di un bene o relativo ad un bene (essendo il bene appunto la cosa in quanto oggetto del diritto: si veda l'art. 406 codice del 1865 e l'art. art. 810 del c.c. c.c.), si è ritenuto che i due termini non siano affatto inconciliabili. Si tratta sempre di vedere se la legge tutela l'interesse del proprietario al godimento della cosa come interesse proprio di lui: ogni limitazione, qualunque sia la fisionomia specifica che acquista, mira sempre alla tutela di un interesse secondario o parallelo, che non elimina nè sposta quello fondamentale. Se si è riconosciuta come proprietà quella dei beni demaniali, in relazione ai quali la funzione si compenetra con lo stesso diritto dell'ente proprietari, a fortiori si deve riconoscere come proprietà (e come diritto, s'intende) la proprietà gravata da obblighi. Io ebbi a proporre una costruzione del rapporto, che mi pare idonea a superare ogni preoccupazione ed ogni difficolta. Con gli obblighi imposti al proprietario si vuole la realizzazione di un interesse pubblico, non contro il suo privato interesse, ma insieme e per mezzo della realizzazione di questo.

Il rapporto « si profila in questo modo, rispetto alla struttura: il proprietario è sempre soggetto attivo di un rapporto assoluto, e quindi fa valere la sua signoria sulla cosa, pur dentro i limiti segnati dal diritto. Egli però, in quanto proprietario di una data cosa, assume degli obblighi nei confronti della pubblica amministrazione: cosicché al rapporto assoluto si lega, in un determinato punto, un rapporto personale. Finché adempie agli obblighi di prestazione nascenti dal rapporto personale, il proprietario può tranquillamente esercitare le facoltà costituenti il contenuto del rapporto reale. L’ inadempimento può avere come effetto la surrogazione ad opera del creditore secondo i dettami di leggi speciali: e ciò conferma l'indipendenza strutturale dei due rapporti. Ma la sanzione può consistere anche nella espropriazione: il rapporto obbligatorio inadempiuto comunica a quello reale, attraverso la valvola posta nel punto di contatto, i suoi effetti. Il collegamento però è più stretto dal punto di vista funzionale, poiché l'obbligo rappresenta lo stimolo atto a costringere il proprietario ad usare del suo diritto, in modo da permettere il raggiungimento di fini pubblici, che trascendono quelli privati, ma non li negano, anzi li potenziano e avviano a realizzazione ».

Del resto, tanto il limite in senso tecnico, quanto l'onere, quanto, infine, l'obbligo, hanno una medesima funzione: consentire la concomitante tutela di un interesse diverso da quello del proprietario (di solito: interesse pubblico). Che questo ulteriore interesse debba essere realizzato attraverso il non facere o il pati del proprietario o attraverso il suo facere è logicamente irrilevante. Del resto l'onere importa un fare e nessuno ha mai pensato che esso potesse compromettere o scardinare il concetto di proprietà: perché poi dovrebbero compromettere questo concetto gli obblighi, in quanto menzionati nella definizione legale, se essi hanno operato sempre in questo campo, senza destare allarmi? (per es., si vedano gli obblighi nascenti dagli art. 6o, 75 e 76, R.D. 20 marzo 1865, n. 2248 sui lavori pubblici, e dall'art. 38 R.D. 13 febbraio 1933, n. 215). In realtà, le limitazioni specifiche possono concretarsi in limiti in senso tecnico, in oneri o in obblighi, senza che per ciò il diritto di proprietà subisca alterazioni.

La formula adottata nella definizione legale vuole, in sostanza, porre i termini estremi entro i quali si racchiude tutta la gamma delle limitazioni legali, presupposto il loro razionale impiego in ragione delle opportunità: limiti, oneri ed obblighi. Non vuol dire che la proprietà, anziché un diritto, è un obbligo del proprietario: ciò non avrebbe senso, nè che essa sia sempre onerata da obblighi generici, anch'essi privi di giustificazione. Gli obblighi, come gli altri limiti, saranno specifici quando vi saranno da tutelare interessi che solo con questo strumento possono essere tutelati. Ciò risulta chiaramente sia dalla natura della disposizione in esame, sia dal contenuto della formula. Quanto alla natura, è chiaro che, trattandosi di una norma impropria (come è stato già rilevato), non può essa sola avere il potere di snaturare il diritto di proprietà; quanto al contenuto, è da rilevare che l'art. XXX parla di obblighi « stabiliti dalla legge », cioè, in sostanza, opera un rinvio. E nel nostro sistema quel rinvio si fraziona in altrettanti rinvii a tutte le norme specifiche le quali pongono le singole limitazioni.

Sotto altro profilo la formula legislativa deve essere ancora chiarita. L'art. 18 del Progetto della Commissione reale recava una formula che voleva essere innovatrice e parve a tutti pericolosa: per essa il diritto di proprietà era diritto di disporre in conformità alla funzione sociale della cosa. Questa formula fu eliminata perché parve equivoca, in quanto innocua formula descrittiva, ed eccessiva, in quanto espressione normativa, perché poteva ridurre il diritto di proprietà a un semplice interesse protetto. Non poteva certo essere intento del legislatore sostituire una formula equivoca e pericolosa con un'altra non meno, anzi ancora pù equivoca o pericolosa. L'espressione letterale della legge non è, in realtà, correttissima, poiché pare voglia attribuire ai limiti e agli obblighi due funzioni generali diverse, mentre essi devono avere la medesima funzione, salve le specifiche applicazioni. Ma la necessità di ricostruire la mens legis con processo logico induce e consente di procedere alle necessarie rettificazioni. Si può, dunque, completare l’elencazione con la menzione degli oneri, e attribuire al testo la forma che pienamente si adegui al suo contenuto normativo.

La definizione della proprietà sulla base del testo legislativo potrebbe dunque essere espressa nei termini seguenti: la proprietà è il diritto reale fondamentale avente per contenuto la facoltà di godimento pieno ed esclusivo della cosa da parte del proprietario con i limiti, gli oneri e gli obblighi specifici stabiliti dall' ordinamento giuridico.


La funzione sociale della proprietà

Per completare l'analisi della definizione legale della proprietà è necessario esaminare la più comune questione che oggi viene posta in relazione al concetto della proprietà: se essa, cioè, debba intendersi come funzione sociale, o se essa abbia una funzione sociale.

Già si è visto che essa fu presente anche alle commissioni legislative proprio in relazione alla definizione legale e alla opportunità di farne menzione, a mezzo di una formula appropriata, nella definizione stessa. E si è visto che il legislatore ha rinunciato a tale menzione: il che, in sostanza, può anche considerarsi come indice di un orientamento che voglia evitare rischiosi eccessi. Ciò non significa però che si debba senz'altro risolvere la duplice questione in senso negativo, o che si possa fare a meno di prospettarla nei suoi termini positivi.

a) L'esame della disposizione che commentiamo offre intanto appigli testuali importanti, perché si possa risolvere in senso negativo la prima delle due questioni. Si può dunque ritenere, per le ragioni che si metteranno in evidenza, che la proprietà non è una funzione in senso tecnico. Questa si avrebbe quando il soggetto che ne è investito fosse tenuto ad agire per l'attuazione di un interesse alieno (oltre che di un interesse proprio), in base ad un dovere giuridico di esercitare quella attività in quanto intesa ad attuare l'interesse pubblico. Il soggetto investito della funzione è dunque organo di attuazione del pubblico interesse. È chiaro che la funzione implichi dei poteri, che sono legati a dei doveri, ma non è un diritto soggettivo, che implica una somma di facoltà libere, seppure sottoposte a specifiche limitazioni. « Funzione » e « diritto soggettivo » sono entità che divergono e non si possono conciliare, e l'art. 832 attribuisce al proprietario un « diritto », non già una « funzione ». Non soltanto: gli attribuisce un diritto che si risolve in una facoltà di pieno godimento della cosa, cioè un diritto che nasce fondamentalmente per la tutela dell'interesse del proprietario, in quanto tale, e tutt'al più può essere impiegato anche come strumento per l'attuazione, in situazioni determinate, di interessi pubblici specifici e concreti.

b) Rimane da vedere se al diritto di proprietà, ed in che senso, possa ritenersi connessa una funzione sociale. L'idea della funzione sociale non può assumersi in senso troppo generico, per esempio come riflesso del fatto che il proprietario, quale individuo, fa parte di un aggregato sociale, e quindi il suo diritto deve trovare un limite generico nella necessità di conciliare l'interesse del singolo con quello della collettività sociale. Ciò vale per la proprietà in quanto diritto soggettivo, perché vale per qualsiasi diritto soggettivo come tale; non è dunque il caso di parlarne, se si vuole definire un aspetto specifico e peculiare del nuovo diritto di proprietà.

La funzione sociale, per consenso quasi unanime, pare si debba rinvenire in ciò: che il diritto di proprietà non si deve intendere come mezzo di esclusiva tutela dell'interesse del proprietario, sebbene, anche come mezzo di attuazione di un interesse pubblico, comprenda pure l'interesse del privato estraneo al rapporto di proprietà, perché è altresì pubblico interesse quello che sta a base del coordinamento interindividuale, che è armonica collaborazione ai fini nazionali. Una funzione sociale come « elemento costitutivo che incide, non puramente uno scopo che aleggia al di sopra » della proprietà difficilmente si distingue dalla funzione in senso tecnico: la distinzione appare evidente quando si afferma che « nel rapporto giuridico di proprietà ritroviamo, oltre al diritto di proprietà... anche il limite: sia come dovere immediato, sia come dovere mediato »; bisognerà insistere sulla priorità della tutela dell' interesse privato del proprietario, e costruire il rapporto come si è tentato di delinearlo più sopra (n. 9).

Ma la maggiore difficolta consiste nel dare, a questo generale obbligo od onere, un fondamento giuridico. La definizione che si è analizzata non offre appigli, anzi, nella sua chiara formulazione esclude l'esistenza di un obbligo del genere, poiché indica, al plurale, le limitazioni (compresi, in esse, gli obblighi) con riferimento alle concrete disposizioni di legge. Il solo appiglio utile si può rinvenire nelle dich. VII e IX della Carta del Lavoro, specie dopo la L. 30 gennaio 1941, n. 14, che attribuisce valore di principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato alle dichiarazioni della Carta del Lavoro. E su tali dichiarazioni si fondavano, anche prima, alcuni scrittori. Ma il fondamento non è solido, poiché le predette dichiarazioni della Carta del Lavoro non parlano della proprietà privata, sebbene della iniziativa privata nel campo della produzione; non considerano, dunque, il proprietario sebbene l'imprenditore, il quale agisca e produca, impiegando anzitutto la propria attività organizzativa od anche esecutiva, e poi le core di cui si assicura la disponibilità a qualsiasi titolo, anzi indipendentemente dal titolo.

In mancanza di un obbligo od onere di carattere generale, non possono che esservi gli obblighi speciali, singolari, stabiliti da particolari disposizioni di legge. Non vi è difficolta a parlare di una funzione sociale della proprietà per indicare il complesso di questi specifici atteggiamenti nei quali si tende a realizzare, attraverso la proprietà, un concreto e particolare interesse pubblico. Ma in questo caso l'espressione citata si riduce ad un'espressione compendiosa di puro comodo, che non indica nulla di specifico: in particolare, non può qualificare il nuovo diritto di proprietà, poiché è facile rinvenire nei vari ordinamenti giuridici e nelle diverse epoche delle particolari disposizioni di legge che impongono limitazioni specifiche alla proprietà nell'interesse pubblico. Si potrà soltanto dire, ad esempio, che in una determinata epoca la funzione sociale della proprietà e più o meno ricca o accentuata, indicare cioè un profilo fisionomico esterno dell'istituto e un aspetto meramente quantitativo. Al dilemma non si sfugge: in mancanza di una fonte formale da cui derivi un limite di carattere generale e comprensivo, non possono esservi che le singole limitazioni specifiche: al che inesorabilmente si perviene quando si dice che la funzione sociale, « in quanto destinazione a interessi diversi da quelli del proprietario, più che il limite o il complesso dei limiti posti all'esercizio della proprietà, è la ragione che determina i limiti ». La ragione in quanto tale sta al di qua della norma giuridica, ed è il motivo che ispira il legislatore, acquistando concreta esistenza nell'ordinamento giuridico come elemento che si incarna nelle norme particolari che pongono le limitazioni specifiche.

In base a queste considerazioni si può adoperare la formula « proprietà-funzione » per designare l'aspetto che assume il diritto di proprietà in quanto gravato di limitazioni aventi per contenuto un obbligo positivo, dando così alla formula stessa uno specifico significato tecnico, soprattutto al fine di mettere in luce la differenza strutturale esistente tra la proprietà (privata) obbligata (a fini pubblici) e la proprietà pubblica, qualificata come proprietà funzionale.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

Massime relative all'art. 832 Codice Civile

Cass. civ. n. 33645/2022

In caso di occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, il fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità, andata perduta, di esercizio del diritto di godimento, diretto o indiretto, mediante concessione a terzi dietro corrispettivo, restando, invece, non risarcibile il venir meno della mera facoltà di non uso, quale manifestazione del contenuto del diritto sul piano astratto, suscettibile di reintegrazione attraverso la sola tutela reale.

In tema di risarcimento del danno da occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, il proprietario è tenuto ad allegare, quanto al danno emergente, la concreta possibilità di godimento perduta e, quanto al lucro cessante, lo specifico pregiudizio subito (sotto il profilo della perdita di occasioni di vendere o locare il bene a un prezzo o a un canone superiore a quello di mercato), di cui, a fronte della specifica contestazione del convenuto, è chiamato a fornire la prova anche mediante presunzioni o il richiamo alle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza; poiché l'onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti, l'onere probatorio sorge comunque per i fatti ignoti al danneggiante, ma il criterio di normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che l'evenienza di tali fatti sia tendenzialmente più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno.

In caso di occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, il fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito, rappresentato dall'impossibilità di concedere il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore al canone locativo di mercato o di venderlo ad un prezzo più conveniente di quello di mercato.

In caso di occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chiede il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato.

Cass. civ. n. 39/2021

Nel caso di occupazione illegittima di un immobile, il danno subito dal proprietario, essendo collegato all'indisponibilità di un bene normalmente fruttifero, è oggetto di una presunzione relativa, che onera l'occupante della prova contraria dell'anomala infruttuosità di quello specifico immobile. (Cassa e decide nel merito, CORTE D'APPELLO ANCONA, 21/02/2018).

Cass. civ. n. 2951/2016

Il diritto al risarcimento dei danni subiti da un bene spetta a chi ne sia proprietario al momento del verificarsi dell'evento dannoso, e, configurandosi come un diritto autonomo rispetto a quello di proprietà, non segue quest'ultimo nell'ipotesi di alienazione, salvo che non sia pattuito il contrario. (Cassa con rinvio, App. Firenze, 09/01/2013)

Cass. civ. n. 23130/2015

Lo "ius aedificandi" trova fonte nel diritto di proprietà, del quale rappresenta una facoltà ex art. 832 c.c., sicché i diritti edificatori possono assumere autonoma rilevanza solo in quanto siano oggetto di un'apposita convenzione stipulata dal proprietario dell'area cui accedono; in assenza di tale convenzione, il trasferimento della proprietà del terreno (nella specie, per espropriazione forzata) comporta anche il trasferimento della capacità edificatoria attuale (nella specie, volumetria edificabile connessa a un piano di lottizzazione). (Rigetta, App. Milano, 18/06/2010).

Cass. civ. n. 14222/2012

In caso di occupazione senza titolo di un immobile altrui, l'esistenza di un danno "in re ipsa" subito dal proprietario, sul presupposto dell'utilità normalmente conseguibile nell'esercizio delle facoltà di godimento e di disponibilità del bene insite nel diritto dominicale, costituisce oggetto di una presunzione "iuris tantum", la quale non può operare ove risulti positivamente accertato che il "dominus" si sia intenzionalmente disinteressato dell'immobile ed abbia omesso di esercitare su di esso ogni forma di utilizzazione. (Nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha cassato la sentenza di merito, che aveva liquidato il danno conseguente all'illegittima occupazione di un'autorimessa di proprietà esclusiva con tubazioni condominiali per l'intero periodo di detta occupazione, senza aver accertato se l'atteggiamento del proprietario, il quale si era accorto soltanto dopo circa un anno della presenza delle tubature, non fosse espressione di un intenzionale disinteresse per l'immobile, tale da indurre a circoscrivere il danno al solo periodo successivo alla scoperta dell'usurpazione).

Cass. civ. n. 19307/2008

L'acquirente di un bene è legittimato ad agire per il risarcimento del danno prodotto da un terzo anteriormente alla vendita in quanto dal perfezionamento del trasferimento consegue la titolarità del diritto di credito anche in mancanza di un'espressa cessione dell'azione ed anche se l'acquirente non era a conoscenza della preesistenza del danno salvo che, nell'ambito dell'autonomia negoziale delle parti, l'azione non sia stata riservata al venditore. (Rigetta, App. Catania, 13 dicembre 2002).

Cass. civ. n. 15915/2007

In tema di azione rivendicazione, la proprietà appartiene alla categoria dei diritti "autodeterminati", individuati in base alla sola indicazione del loro contenuto rappresentato dal bene che ne costituisce l'oggetto, cosicché nelle azioni ad essi relative, a differenza delle azioni accordate a tutela dei diritti di credito, la "causa petendi" si identifica con i diritti stessi, mentre il titolo, necessario alla prova del diritto, non ha alcuna funzione di specificazione della domanda. Non può pertanto ravvisarsi la nullità dell'atto di citazione per mancata indicazione del titolo in funzione del quale il bene immobile viene rivendicato. (Cassa con rinvio, App. Napoli, 28 Marzo 2003).

Cass. civ. n. 3634/2007

Ai sensi dell'art. 1069 c.c. le opere necessarie alla conservazione della servitù sono a carico del proprietario del fondo dominante che ha, perciò, facoltà di accedere al fondo servente per realizzarle, riconducendosi tale facoltà, di natura accessoria, al contenuto stesso del diritto di servitù, al cui normale esercizio è, quindi, strumentale. Pertanto, poiché nel nostro ordinamento il godimento del diritto di proprietà — ai sensi dell'art. 832 c.c. — viene esercitato entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dalla legge, nell'ambito dei limiti di natura privatistica rientra anche il divieto di impedire l'accesso al proprio fondo al proprietario del fondo dominante che intenda eseguire le opere previste dal citato art. 1069 c.c.

Cass. civ. n. 3089/2007

La proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei cosidetti diritti autodeterminati, individuati, cioè, sulla base della sola indicazione del relativo contenuto quale rappresentato dal bene che ne forma l'oggetto, con la conseguenza che la "causa petendi" delle relative azioni giudiziarie si identifica con i diritti stessi e non con il relativo titolo che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non svolge, per l'effetto, alcuna funzione di specificazione della domanda, ma è rilevante ai soli fini della prova. (Nella specie, in applicazione di tale principio, è stata ritenuta ininfluente, sotto il profilo della novità della domanda, la circostanza che l'attore, nel richiedere la rimozione di un'aiuola posta dal vicino su una strada, in primo grado avesse dedotto la comproprietà della strada e, in grado di appello, un diritto di serviù di passaggio). (Rigetta, App. Torino, 16 Dicembre 2002).

Cass. civ. n. 24702/2006

I diritti assoluti - reali o di "status" - si identificano in sé e non in base alla loro fonte, come accade per i diritti di obbligazione, sicché, l'attore può mutare il titolo in base al quale chiede la tutela del diritto assoluto senza incorrere nelle preclusioni (artt. 183, 189 e 345 cod. proc. civ.) e negli oneri (art. 292 cod. proc. civ.) della modificazione della "causa petendi", né viene a concretarsi una violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato se il giudice accoglie il "petitum" sulla scorta di un titolo diverso da quello invocato. Infatti, la proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei cosiddetti "diritti autodeterminati", individuati, cioè, in base alla sola indicazione del loro contenuto, rappresentato dal bene che ne costituisce l'oggetto, onde, nelle azioni a difesa di tali diritti, la "causa petendi" si identifica con il diritto stesso (diversamente da quanto avviene in quelle a difesa dei diritti di credito, nelle quali la "causa petendi" si immedesima con il titolo), mentre il titolo, necessario ai fini della prova di esso, non ha alcuna funzione di specificazione della domanda. Ne consegue che, nel corso del giudizio inteso alla tutela del diritto di proprietà dall'altrui esercizio di una veduta, dedotto come illegittimo perché derivante dall'intervenuta trasformazione di un'originaria luce, mediante la condanna del convenuto al ripristino degli accorgimenti impeditivi della veduta previsti dall'art. 901 cod. civ., l'allegazione di un titolo - quale l'insussistenza di una servitù di veduta - diverso rispetto a quello posto originariamente a fondamento della domanda - quale il diritto ad ottenere la conformazione dell'apertura alle caratteristiche della luce - altro non rappresenta se non un'integrazione delle difese, aggiungendosi un ulteriore elemento di valutazione a quello precedentemente dedotto, che non dà luogo alla proposizione di una domanda nuova, così come non implica alcuna rinunzia a che il primo titolo dedotto venga anch'esso se del caso preso in considerazione, e, tanto meno, influisce in alcun modo sulle conclusioni, che restano, comunque, cristallizzate nel medesimo "petitum" consistente nella richiesta di accertamento della lesione del diritto di proprietà e di pronunzia idonea all'eliminazione della situazione lesiva. Conseguentemente, decisa la controversia in primo grado sulla base dell'un titolo, non è preclusa in secondo grado la decisione sulla scorta dell'altro o di entrambi, giacchè trattasi di argomentazioni difensive intese a specificare le ragioni della tutela del diritto reale in discussione che non immutano l'originario "thema decidendum" e possono, pertanto, essere svolte dalla parte interessata non solo nell'atto di appello ma lungo tutto il corso del giudizio di secondo grado. (Rigetta, App. Roma, 10 Novembre 2004).

Cass. civ. n. 26973/2005

Con riferimento alla categoria dei diritti "autodeterminati", ai fini della precisazione della "causa petendi" non è necessaria la corretta indicazione delle norme applicabili al caso e dei relativi istituti giuridici, essendo invece sufficiente la chiara indicazione dei fatti costitutivi del diritto azionato, sicchè sussiste "mutatio libelli" vietata in appello solo quando all'iniziale domanda si sostituisca una pretesa intrinsecamente diversa, sulla quale sia del tutto mancato, in primo grado, il contraddittorio. In particolare, per quanto riguarda la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, la "causa petendi" si identifica con il diritto stesso e non, come nei diritti di credito, con il titolo che ne costituisce la fonte, la cui deduzione, necessaria ai soli fini della prova, non ha la funzione di specificazione della domanda. (Nella specie la sentenza di primo grado aveva respinto la domanda di declaratoria della acquisizione di una servitù di passaggio sulla base di titolo contrattuale, mentre quella di secondo grado, confermata dalla S.C., aveva accolto la domanda ritenendo la servitù costituita per destinazione del padre di famiglia, poichè gli elementi di fatto e le vicende giuridiche esposti dall'attore nella domanda inizialmente formulata erano sufficienti a delineare, anche in mancanza di una espressa menzione dell'art. 1062 cod. civ., la destinazione del padre di famiglia quale fatto costitutivo del diritto di transito oggetto della controversia).

Corte cost. n. 153/1977

Sono costituzionalmente illegittime le seguenti disposizioni della L. 11 febbraio 1971, n. 11: a) artt. 4, comma 3, e 15, comma 1 (<>); b) art. 12, comma 1 (<>); c) dell'art. 14, comma 2 (che attribuisce all'affittuario coltivatore diretto la facoltà di esecuzione di miglioramenti che sia in grado di compiere col lavoro proprio e della famiglia senza nemmeno dare comunicazione al proprietario del fondo).

Corte cost. n. 155/1972

La legge 11 febbraio 1971 n. 11, avente per oggetto "nuova disciplina dell'affitto dei fondi rustici", nel dettare negli artt. 3 e 4, primo comma, le nuove norme sulla formazione del canone con riferimento a tutti gli affittuari, siano essi coltivatori diretti o imprenditori non coltivatori, viola l'art. 3 della Costituzione il quale postula che a situazioni differenziate tra loro non possa praticarsi identico trattamento: ed invero, la compressione del beneficio fondiario mentre trova una valida giustificazione se si risolve in un vantaggio per l'affittuario che coltivi direttamente la terra con le forze di lavoro proprie e dei suoi familiari, si presenta invece priva di razionalità quando essa determina un arricchimento dell'affittuario imprenditore che faccia lavorare da altri la terra presa in fitto.

Corte cost. n. 55/1968

Il concetto di proprietà privata non può venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall'attitudine ad essere sottoposto, nel suo contenuto, ad un regime determinabile con legge ordinaria. Il legislatore può perfino escludere la proprietà privata di certe categorie di beni, oltre che imporre limitazioni, in via generale, o autorizzare imposizioni in via particolare, le quali peraltro non possono mai eccedere, senza indennizzo, quella portata al di là della quale il sacrificio imposto venga ad incidere sul bene oltre ciò che è connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell'attuale momento storico, assumendo così carattere espropriativo. I commi secondo e terzo dell'art. 42 Cost. vanno insieme considerati e coordinati per ricavarne, alla stregua di quello che, in base all'ordinamento giuridico attuale, rappresenta il vigente concreto regime di appartenenza dei beni, l'identificazione dei casi nei quali, nell'ipotesi della imposizione di limiti, si verifichi una incidenza negativa a titolo individuale sulla proprietà riconosciuta secondo il regime stesso, ed occorre conseguentemente far luogo all'indennizzo.

La garanzia della proprietà privata è condizionata nel sistema della Cost., dagli artt. 41 al 44, alla subordinazione a fini dichiarati, ora di utilità sociale, ora di funzione sociale, ora di equi rapporti sociali, ora di interesse ed utilità generale. Ciò con maggior ampiezza e vigore di quanto è stabilito negli artt. 832 e 845 c.c., i quali, per il contenuto del diritto di proprietà fondiaria in particolare, richiamano rispettivamente, i limiti e gli obblighi stabiliti "dall'ordinamento giuridico" e le regole particolari per scopi di pubblico interesse. Secondo i concetti sempre più progredienti di solidarietà sociale, resta escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall'attitudine di essere sottoposto nel suo contenuto, ad un regime che la Costituzione lascia al legislatore di determinare. In tale determinazione il legislatore può persino escludere la proprietà privata di certe categorie di beni, come può imporre, sempre per categorie di beni, talune limitazioni in via generale, ovvero autorizzare imposizioni a titolo particolare, con diversa graduazione e più o meno accentuata restrizione delle facoltà di godimento e di disposizione. Ma tali imposizioni a titolo particolare non possono mai eccedere, senza indennizzo, quella portata al di là della quale il sacrificio imposto venga ad incidere sul bene, oltre ciò che è connaturale al diritto dominicale, quale viene riconosciuto nell'attuale momento storico. Al di là di tale confine la limitazione assume carattere espropriativo. I commi 2 e 3 dell'art. 42 vanno insieme considerati e coordinati per ricavarne - alla stregua di quello che in base all'ordinamento giuridico attuale rappresenta il vigente, concreto regime di appartenenza dei beni - l'identificazione dei casi nei quali, incidendo essi negativamente, a titolo individuale sulla proprietà riconosciuta, secondo il regime stesso, occorre far luogo all'indennizzo.

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Ugo S. chiede
sabato 30/11/2019 - Campania
“Buongiorno.
Abito in un condominio in cui all'interno c'è un podere agricolo, recintato e con cancello di accesso, il cui proprietario ha diritto di passaggio con automezzi agricoli. Siccome nel condominio i posti macchina esterni non erano sufficienti, il proprietario del fondo agricolo ha cambiato destinazione d'uso adibendolo a parcheggio a pagamento per i solo residenti del condominio.
Ora la mia domanda è, siccome è stata cambiata la destinazione d'uso del terreno, il proprietario deve partecipare alle spese per la gestione delle cose comune visto che il parcheggio privato si trova all'interno del condominio? Posso chiedere la revisione delle tabelle millesimali? E in caso affermativo chi paga le spese per la revisione?”
Consulenza legale i 06/12/2019
Sulla base di quanto descritto pare di capire che il podere agricolo, recintato e con cancello di accesso, non abbia natura condominiale, ma al contrario esso sia di proprietà esclusiva di un soggetto, che, nell’esercizio delle facoltà che gli sono concesse dal diritto di proprietà di cui agli artt. 832 e ss. del c.c., ne ha modificato la destinazione d’uso e e lo ha adibito ad area di parcheggio, affittando i posti auto ricavati ai singoli condomini.
Tale operazione non rende l’area di natura condominiale: la stessa rimane, infatti, di proprietà esclusiva, e ciò è dimostrato anche dal fatto che i singoli condomini per poter accedere alla stessa e parcheggiare i loro automezzi devono pagare un affitto al legittimo proprietario del podere.

Proprio perché tale terreno non è condominiale, è solo il proprietario di tale area che deve sopportarne le spese di gestione, e non gli altri condomini, i quali, salvo diversa pattuizione scritta che non pare esservi, sono solo obbligati solo a corrispondere il canone di affitto. Per tale motivo non vi è alcuna necessità di modificare le tabelle millesimali in quanto nessun nuovo bene comune è stato acquisito dal condominio.

Per completezza, si precisa che affinché il podere fosse potuto diventare bene comune dell’intero condominio, sarebbe stato necessario che il suo unico proprietario, per mezzo di un rogito notarile, vendesse ai singoli condomini una quota di proprietà del fondo corrispondente ai millesimi di proprietà di ciascuno: il semplice cambio di destinazione d’uso non incide, infatti, sulla proprietà del bene medesimo.

Francesco C. chiede
martedì 01/12/2015 - Lazio
“Sono proprietario esclusivo di un appartamento in R., occupato dalla mia ex moglie dalla quale sono separato legalmente dal 2009, in virtù di un diritto di abitazione costituito in relazione al procedimento di separazione personale dei coniugi, ai sensi dell'art. 19, L. 6 marzo 1987 n. 74, esteso in via applicativa ai casi di separazione personale con la sentenza della Corte Costituzionale 10 maggio 1999 n. 154, pubbl. in G.U. 12 maggio 1999 n. 19.
L'atto è stato costituito davanti al Notaio ed è stato regolarmente registrato.
Il diritto di abitazione cesserà nel 2019.
Io ho deciso di vendere l'immobile, ovviamente come nuda proprietà, cosciente di tutte le riduzioni di valore che questo comporta.
La mia ex moglie si rifiuta di far accedere alla casa l'agente immobiliare incaricato della vendita, per le necessarie rilevazioni e foto dei locali.
Vi chiedo a quali diritti mi posso appellare per ottenere l'accesso al mio appartamento, per questa specifica necessità, e per altre future ed eventuali.”
Consulenza legale i 08/12/2015
In relazione al diritto di accesso all'immobile il riferimento è il diritto di proprietà che l'ex marito vanta sul bene. Egli può vendere tale bene, e a questo scopo è indubbio che l'attività di accesso dell'agente immobiliare nell'appartamento è funzionale alla vendita e, come tale, deve essere consentita.

Della questione la Corte di Cassazione si è occupata recentemente rispetto ad un caso diverso ma simile, per cui le considerazioni svolte possono essere riprese per dare una risposta al quesito posto.

Il caso esaminato è quello dell'inquilino che conduce l'immobile in locazione e che ostacola le visite del bene da parte di terzi, preordinate alla vendita dello stesso. La Suprema Corte ha stabilito, in merito, che "l'impedimento dell'accesso del proprietario in un immobile dallo stesso destinato alla vendita è in sé idoneo a pregiudicare le trattative e la possibilità stessa dell'alienazione" (Cass.19543/2015); si deve dire che, nel caso di specie, nel contratto di locazione era stata inserita apposita clausola per consentire le visite. Tuttavia l'affermazione contenuta nella sentenza sembra avere portata più ampia, e prescindere dall'esistenza di una clausola. Una conferma a ciò si rinviene in un'altra pronuncia della Cassazione con la quale si è riconosciuto il diritto del locatore a visitare e a far visitare l'appartamento anche se il contratto nulla prevede a riguardo (Cass. 5147/1981).

Ovviamente, il diritto di accedere all'immobile non può essere del tutto incondizionato, a mera discrezione e richiesta del proprietario. La soluzione preferibile per stabilire il numero e le date delle visite è raggiungere degli accordi precisi con chi vi abita. In alternativa, si può fare riferimento agli usi locali.

Ciò detto in relazione all'accesso all'immobile, discorso diverso, invece, si deve fare per le fotografie. Anche in tal caso si può ritenere che si tratti di attività funzionale alla vendita dell'appartamento; tuttavia essa si scontra con l'esigenza di riservatezza di chi abita l'immobile, esigenza che deve essere garantita. Nelle foto, infatti, potrebbe venire ritratti anche effetti personali dell'occupante, o suoi arredi di pregio che è lecito egli voglia voler tenere riservati. Neppure si può pensare di obbligarlo ad accatastare in qualche luogo tutta la mobilia e liberare così pareti e pavimenti da ogni cosa al fine di scattare fotografie "anonime", salvo l'occupante aderisca alla richiesta (magari in cambio di un giusto ristoro per l'incomodo).