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Articolo 1379 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 31/01/2024]

Divieto di alienazione

Dispositivo dell'art. 1379 Codice Civile

Il divieto di alienare stabilito per contratto ha effetto solo tra le parti(1), e non è valido se non è contenuto entro convenienti limiti di tempo e se non risponde a un apprezzabile interesse di una delle parti.

Note

(1) Ad esempio, se Tizio e Caio si accordano affinché il secondo non venda un bene di cui è proprietario a nessuno ma questi lo aliena a Sempronio, Tizio può far valere il patto contro Caio ed ottenere il risarcimento del danno (v. 1218 ss. c.c.), mentre non può opporre l'accordo a Sempronio, il cui acquisto è valido ed efficace.

Ratio Legis

Tale norma soddisfa una pluralità di interessi, primo tra i quali quello alla libertà dei traffici giuridici. In secondo luogo, la natura obbligatoria del patto che prevede il limite tutela i terzi, ai quali il patto non è opponibile con salvezza del relativo acquisto; la natura obbligatoria del patto si giustifica anche considerando l'impossibilità di garantire a tutti la conoscibilità del limite dovuta, a sua volta, dall'impossibilità di istituire un sistema di pubblicità per ogni bene.
Infine, la necessità che il vincolo soddisfi l'interesse di una parte e sia temporalmente contenuto si pone come garanzia della libertà contrattuale di ogni soggetto dell'ordinamento.

Brocardi

Accidit aliquando ut, qui dominus sit, alienare non possit
Pactum de non alienando

Spiegazione dell'art. 1379 Codice Civile

L'efficacia obbligatoria del divieto di alienare

L'art. 1379 contiene tre regole: a) l'efficacia obbligatoria del limitato divieto di alienare; b) l'inefficacia di tale divieto, quando sia senza limiti; c) l'inefficacia reale di ogni divieto di alienazione.

La prima regola era già ammessa nel diritto anteriore, ed aveva già ricevuto varie applicazioni. Ma, mentre essa non era ricordata nel codice civile 1865, è posta espressamente nel codice del 1942.

Allorché l'efficacia del divieto è soltanto obbligatoria, non si può dire che essa contrasti col diritto di proprietà, perché si risolve in un semplice obbligo di non fare. La ricordata Relazione ricollega a tale divieto alcuni casi speciali previsti dal codice del 1912 come per es. il patto che proibisce l'alienazione del diritto dell'enfiteuta per non oltre il ventennio, disciplinato all'art. 965; ed il patto di incedibilità del credito menzionato all'art. 1260.

Più frequenti dei divieti di alienare, sono gli obblighi di non alienare se non a certe condizioni e ad un certo prezzo, obblighi che hanno la stessa natura giuridica del divieto di alienare puro e semplice, e che per conseguenza sottostanno alle stesse disposizioni dell'art. 1379. Obblighi di tale natura si trovano in quei contratti che costituiscono e disciplinano i consorzi fra produttori o fra commercianti, ovvero che sindacano in qualche modo la produzione o la vendita. Fra questi obblighi vi sono anche quelli relativi alla vendita di prodotti coperti da marchi di fabbrica: i tentativi di dare portata ideale al divieto di vendere prodotti di marca se non a certe condizioni, possono dirsi naufragati, ma l'efficacia obbligatoria di tali accordi deve, almeno in linea di principio, essere ammessa. Se ne può derivare pregiudizio per il pubblico bene, spetta al legislatore e non ad altri il compito di dettare norme repressive.


L’inefficacia del divieto obbligatorio illimitato o non sorretto da apprezzabile interesse

Senonché il divieto di alienare senza limiti di tempo e senza apprezzabile interesse della parte, avrebbe dato al patto una estensione pericolosa. La ricordata Relazione avverte che con tale eccessiva estensione, si sarebbe svuotato il contenuto della proprietà. Veramente, posto il carattere esclusivamente obbligatorio del divieto, non si vede come la proprietà potrebbe essere seriamente pregiudicata. In ogni caso però anche l’onere obbligatorio di non fare, a tempo illimitato, avrebbe troppo menomato la libertà futura del contraente; per tale motivo il codice del 1942 ammette che i1 patto è valido solo se è contenuto entro convenienti limiti di tempo e se corrisponde ad un apprezzabile interesse di una delle parti.

Il divieto di alienare senza interesse apprezzabile di una delle parti, è bensì nullo, ma basta a renderlo valido l'interesse di chi riceve la cosa, come del donatario di un libro di studio, a cui si è ingiunto di conservarlo, almeno fino a che abbia compiuto un corso di studi od abbia superato un esame. E, più generalmente parlando, può dirsi che basta l'interesse morale del donante al conseguimento del fine utile per il beneficiato; se non fosse così, il largo criterio espresso dall’art. 1379, menzionando una delle parti, cadrebbe nel vuoto. Ciò è confermato anche dalla ricordata Relazione, che avverte che l'interesse per la validità del patto, può anche avere carattere affettivo, può anche riguardare la tutela di un diritto altrui.


L’efficacia del divieto di fronte ai terzi

L'inefficacia del divieto di alienare, di fronte ai terzi, costituisce un vero e proprio presidio a tutela della proprietà e dei diritti reali. La cosa, circolando nei vari patrimoni, passa libera da divieti di alienazione, che non potrebbero estendersi ai successori, in difetto di conveniente pubblicità, senza insidiare i loro acquisti. A, questo principio posto dall'art. 1379 non può fare eccezione né la parte né il giudice, ma può farla il legislatore. Per esempio, l'art. 43 del R. decreto 21 dicembre 1933, n. 1 736, sulla clausola di non trasferibilità apposta agli assegni bancari, costituisce una eccezione manifesta che, per la spe­cialità della materia, sopravvive al codice del 1942 e deroga all'articolo 1379. Dispone infatti tale articolo che le girate apposte nonostante il divieto, si hanno per non scritte. Altre eccezioni poi si trovano addirittura nello stesso codice civile del 1942. Tale è per esempio l'intrasferibilità convenzionale delle quote delle società a responsabilità limitata (art. 2479). Queste restrizioni hanno evidentemente effetto esteso ai terzi.

Ma quando l'art. 1379 spiega gli effetti suoi, nulla vale ad eludere l'efficacia cogente di tale norma. Cosicché inutilmente si opererebbe la trascrizione del divieto di alienare, per opporlo ai terzi; inutilmente si inciderebbe a fuoco il prezzo sulla merce, perché il compratore può, ciò nonostante, rivenderla a qualsiasi prezzo, od anche donarla, senza che l'acquirente abbia nulla a temere.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

630 Ha effetto soltanto obbligatorio, e quindi limitato ai rapporti tra le parti, il divieto convenzionale di alienare (art. 1379 del c.c.). La validità di questo divieto, dubbia nel diritto romano classico, si è ora affermata, sulla base di una tendenza dottrinale molto diffusa sotto l'impero del codice del 1865 e sulla considerazione che il potere illimitato di disposizione è attributo soltanto naturale ma non essenziale del diritto di proprietà. Del resto, il sistema positivo ha già ammesso la validità del patto di indisponibilità dei propri diritti consentendo di apporre nell'assegno bancario la clausola non trasferibile (art. 43 r. d. 21 dicembre 1933, n. 1736). Si devono ricollegare a questo indirizzo le disposizioni che, nel nuovo codice, attribuiscono efficacia giuridica al patto di inalienabilità ventennale del diritto dell'enfiteuta (art. 965 del c.c., terzo comma) ai patti di inalienabilità dell'usufrutto (art. 980 del c.c., primo comma), di incedibilità del credito (art. 1260 del c.c., secondo comma), di intrasferibilità delle quote di partecipazione nella società a responsabilità limitata (art. 2479 del c.c., primo comma), di incedibilità delle quote o delle azioni di cooperativa (art. 2523 del c.c., secondo comma); mentre, la nullità del divieto, fatto dal testatore all'erede, di disporre dei beni ereditari (art. 692 del c.c. ultimo comma), mirando ad evitare i fedecommessi taciti, non potrebbe essere ritenuta in antitesi con la direttiva dell'art. 1379. E' parso esorbitante riconoscere al patto una efficacia reale data la difficoltà di organizzare per esso un sistema di pubblicità che potesse attuarsi rispetto ad ogni categoria di beni e di diritti; perciò l'obbligo convenzionale di non alienare si è mantenuto nell'orbita delle semplici obbligazioni personali come, sotto l'impero del codice del 1865, la dottrina che ne aveva ritenuto la validità, aveva opinato di doverlo considerare, in mancanza di una disposizione testuale che ne affermasse l'opponibilità ai terzi. Le alienazioni in urto al divieto sarebbero perciò valide; ma colui che si è obbligato a non alienare risponderà dei danni verso la parte alla quale aveva promesso di non disporre della cosa o del diritto. Era anche eccessivo un illimitato divieto di disporre, che avrebbe praticamente svuotato di contenuto il diritto di proprietà. Perciò si è stabilito che il divieto deve essere ristretto entro convenienti limiti di tempo, e deve rispondere a un apprezzabile interesse di una delle parti (art. 1379). Data la varietà dei diritti che possono formare oggetto della convenzione di cui si discorre, non era possibile stabilire un termine massimo di durata del divieto, valevole per ogni caso; si è preferito perciò rimettere la valutazione dei limiti, caso per caso, al prudente arbitrio del giudice. Perché il patto in parola sia valido, l'interesse potrà anche avere carattere morale o affettivo, potrà riguardare la protezione di un diritto proprio od anche di un diritto altrui; ma in ogni caso dovrà apparire suscettibile di tutela.

Massime relative all'art. 1379 Codice Civile

Cass. civ. n. 18726/2018

Nel contratto di edizione "per edizione", l'eventuale previsione di un diritto di prelazione a favore dell'editore non preclude la libertà dell'autore, né comporta la violazione degli artt. 1379 c.c. e 122, comma 2, l. n. 633 del 1941, poiché per effetto di esso il titolare del diritto resta libero di disporre dei suoi beni ed alle condizioni che preferisce essendogli unicamente imposto, dopo la conclusione del contratto e qualora voglia instaurare un nuovo rapporto contrattuale con un terzo, di comunicare all'originario stipulante le condizioni dell'accordo per consentirgli di valutare la possibilità di assumere in proprio l'impegno.

Cass. civ. n. 15240/2017

L’attribuzione patrimoniale gratuita (nella specie, sotto forma di legato) di un bene con vincolo perpetuo di destinazione imposto dal disponente con clausola modale, è nulla per violazione dell’art. 1379 c.c., risultando eccessivamente compromesso il diritto di proprietà dell’onerato, i cui poteri dispositivi sul bene - destinato a circolare, a pena di inadempimento, con il medesimo vincolo - risultano sostanzialmente sterilizzati “sine die”.

Cass. civ. n. 3082/1990

La norma dell'art. 1379 c.c. con riguardo alle condizioni di validità — limite temporale di durata, rispondenza ad apprezzabile interesse di una parte — del divieto convenzionale di alienare, si applica, essendo espressione di un principio di portata generale, anche a pattuizioni che, come quelle contenenti un vincolo di destinazione, se pur non puntualmente riconducibili al paradigma del divieto di alienazioni, comportino, comunque, limitazioni altrettanto incisive del diritto di proprietà.

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Consulenze legali
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ARTUR P. chiede
martedì 04/08/2020 - Trentino-Alto Adige
“Ho appena ereditato da mia madre, unitamente a mio fratello (entrambi eredi universali al 50%), un vecchio edificio da ristrutturare. Purtroppo tra mio fratello e me non corre buon sangue e per la santa pace gradirei vendere la mia quota.

Il testamento di mia madre contiene, fra l'altro, la seguente disposizione testamentaria/CONDIZIONE:

"Desidero esplicitamente che l'immobile non sarà venduto. Dovrà rimanere una casa delle generazioni.
Se uno di voi due fratelli dovesse volere vendere la sua quota dell'immobile, l'altro fratello dovrà essere l'unico possibile acqirente, affinchè l'immobile rimanga di proprietà della famiglia."

QUESITO?
========
DEVE ESSERE RISPETTATA QUESTA DISPOSIZIONE EREDITARIA/CONDIZIONE ?”
Consulenza legale i 11/08/2020
Il nostro codice civile non contiene una specifica disposizione volta a regolare il testamento con divieto di vendere, ed è per tale ragione che si rende necessario cercare di analizzare quelle altre disposizioni che potrebbero trovare applicazione nel caso concreto.

Anteriormente alla riforma del diritto di famiglia (Legge n. 151/1975), l’ultimo comma dell’art. 692 c.c. sanciva la nullità di qualunque disposizione con la quale il testatore manifestava la volontà di proibire all’erede di disporre per atto tra vivi o di ultima volontà di uno o più beni ereditari.
Con l’entrata in vigore della Riforma del diritto di famiglia questa disposizione non è stata riprodotta, e da ciò se ne è argomentato che tale scelta coincidesse con la volontà del legislatore di ammettere la possibilità di ricorrere a tale divieto per testamento.
In contrario, però, è stato immediatamente fatto osservare che quanto statuito dall’abrogato quarto comma dell’art. 692 c.c. doveva intendersi riprodotto al quinto comma post riforma di quella medesima disposizione, dal quale può chiaramente evincersi che, al di fuori dell’ipotesi di sostituzione fedecommissaria (nel qual caso il legislatore riconosce eccezionalmente la possibilità di istituire erede un soggetto interdetto con obbligo di conservare e restituire i beni ereditari al soggetto che avrà avuto cura di lui), non si ammettono altri casi di imposizione all’erede testamentario di un obbligo di conservare (e, dunque, di non alienare).

Altra norma da poter prendere in considerazione è l’art. 1379 c.c., dettato in tema di disciplina del contratto in generale, il quale dispone che il divieto di alienazione non può avere altra natura che quella di accordo avente effetto tra le sole parti e che non è valido se non contenuto entro convenienti limiti di tempo e se non risponde ad un apprezzabile interesse di una delle parti.

Il problema che a questo punto ci si pone è quello di stabilire se, pur mancando una norma espressa in materia testamentaria, possa applicarsi in via analogica il disposto dell’art. 1379 c.c.
Per risolvere tale problema occorre innanzitutto prendere in considerazione il generale principio di libera circolazione dei beni, il quale non sembra più avere una connotazione pubblicistica, tanto che lo stesso art. 1379 c.c. ne disciplina una eccezione, disponendo in quali casi ed a quali condizioni può avere effetto, solo tra le parti, il divieto di alienare stabilito per contratto.

Si tratta di un divieto che ha efficacia meramente obbligatoria, non essendo in grado, in quanto tale, di limitare il potere di disporre del bene, potendone al massimo determinare il risarcimento del danno in caso di inadempimento.
Alla luce di tali considerazioni, dunque, è stata riconosciuta la possibilità per il testatore di effettuare un lascito gravato dall’onere consistente nel divieto di alienazione del bene che ne costituisce oggetto, purchè vengano rispettati i medesimi limiti che l’art. 1379 c.c. impone per il divieto di fonte contrattuale.

Più precisamente, costituiranno limiti di tale divieto:
  1. la sua efficacia esclusivamente obbligatoria e non reale: ciò comporta che se il testatore lascia la piena proprietà di un immobile con l’espresso divieto di alienarlo e l’erede poco dopo decide egualmente di venderlo, l’alienazione resterà valida ed efficace nei confronti del terzo acquirente, mentre gli altri eredi avranno diritto di pretendere dal coerede alienante il risarcimento del danno.
Va anche precisato che se il testatore dispone che dall’inadempimento del divieto di alienazione ne conseguirà la risoluzione della disposizione testamentaria, i coeredi adempienti avranno anche il diritto di agire in giudizio per far dichiarare l’inefficacia della disposizione testamentaria nei confronti dell’erede inadempiente, ferma restando sempre la validità ed efficacia dell’atto di alienazione.
  1. la determinazione di “convenienti limiti di tempo”: il legislatore ha preferito non predeterminare un limite massimo di durata del divieto, ma lasciare alla valutazione del caso concreto il rispetto del conveniente limite di tempo.
L’uso di tale espressione, tuttavia, esclude l’ammissibilità di un divieto indeterminato, che come tale sarebbe da ritenere nullo.
Inoltre, poiché si tratterebbe di una nullità parziale, vale il brocardo latino vitiatur sed non vitiat, il che comporta che la disposizione resterà valida, ma dovrà considerarsi priva del divieto di alienazione.
  1. la sussistenza dell’interesse apprezzabile di una delle parti: tale interesse si rende necessario per controbilanciare la compressione di quel principio di libera circolazione dei beni proprio del nostro ordinamento ed a cui prima si è fatto cenno.

Dall’esame dei suddetti elementi ci si può agevolmente accorgere che nel caso di specie, mentre può dirsi sussistente un interesse apprezzabile del testatore (far sì che l’immobile resti adibito a “casa” per le generazioni future), difetta al contrario la determinazione di un conveniente e preciso limite temporale.
La circostanza, poi, che il legislatore non abbia espressamente stabilito un termine massimo di durata del divieto di alienazione, ha indotto la dottrina e la giurisprudenza a ricavare da un’altra norma argomenti per stabilire un termine massimo da applicare analogicamente.
E’ stato così ritenuto applicabile per analogia il terzo comma dell’art. 713 del c.c. che, dettato in tema di divisione testamentaria, riconosce espressamente al testatore il potere di vietare che la divisione dell’eredità o di alcuni beni di essa non abbia luogo prima che sia trascorso dalla sua morte un termine non eccedente il quinquennio.
E’ stato, infatti, osservato che divieto di alienazione e obbligo di permanenza in comunione sono due modi diversi attraverso cui il testatore può limitare con efficacia obbligatoria la libertà di disporre dell’erede, in quanto sia il “dividere” che “l’alienare” sono due forme diverse di trasferire pur sempre un diritto.

Della questione del testamento con divieto di vendere si è anche occupata la Corte di Cassazione nella sentenza n. 15240/2017, nella quale si afferma che nell’ipotesi in cui il testatore abbia stabilito per testamento un divieto di vendere senza fissare alcun limite temporale, l’erede non è tenuto a rispettarlo per tutta la propria vita, ma solo per un margine di tempo ragionevole.
E’ stato anche affermato che in caso di contestazione da parte degli altri coeredi, dovrà essere il giudice a stabilire se il termine rispettato è da considerarsi ragionevole o meno.

A questo punto, volendo dare, in conformità a tutto quanto sopra riportato, delle indicazioni sul comportamento da tenere alla presenza di tale divieto testamentario, si consiglia quanto segue:
  1. rispettare il termine quinquennale dall’apertura della successione, in analogia a quanto previsto dal terzo comma dell’art. 713 c.c. in materia di divisione;
  2. trascorso tale termine, accertarsi se l’altro fratello abbia intenzione di rispettare quel divieto a tempo indeterminato, rappresentando al medesimo, per tale ipotesi, che un divieto di alienazione a tempo indeterminato è da ritenere nullo per contrarietà al principio di libera circolazione dei beni;
  3. procedere alla vendita della propria quota indivisa su quell’immobile, rispettando il diritto di prelazione che l’art. 732 del c.c. riconosce all’altro coerede;
  4. qualora neppure l’altro fratello abbia intenzione di rispettare quel divieto per un termine maggiore di cinque anni, procedere entrambi alla vendita dell'immobile in piena libertà, non dimenticando che in ogni caso la vendita resterebbe pur sempre valida ed efficace nei confronti del terzo acquirente.

A garantire ancor di più la liceità della linea di condotta che si è appena suggerito di seguire vi è il disposto dell’art. 549 del c.c., il quale vieta al testatore di imporre pesi o condizioni sulla quota spettante ai legittimari, salvo alcune limitazioni in tema di divisione (ossia il divieto di procedere a divisione prima di cinque anni previsto dall’art. 713 c.c., applicabile per analogia).
Nel caso di specie i figli sono legittimari, il divieto di alienazione andrebbe a colpire proprio la loro quota e, dunque, non può che applicarsi integralmente l’art. 549 c.c.