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Articolo 56 Legge fallimentare

(R.D. 16 marzo 1942, n. 267)

[Aggiornato al 01/01/2023]

Compensazione in sede di fallimento

Dispositivo dell'art. 56 Legge fallimentare

I creditori hanno diritto di compensare coi loro debiti verso il fallito i crediti che essi vantano verso lo stesso, ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento.

Per i crediti non scaduti la compensazione tuttavia non ha luogo se il creditore ha acquistato (1) il credito per atto tra i vivi dopo la dichiarazione di fallimento o nell'anno anteriore.

Note

(1) Si intende, qualsiasi trasferimento, per atto tra vivi, nella titolarità del credito.

Ratio Legis

L'articolo prevede un particolare tipo di compensazione legale.
Il secondo comma mira ad evitare la "svendita" di beni del fallito mediante accordi tra questi e chi gli sia debitore.

Massime relative all'art. 56 Legge fallimentare

Cass. civ. n. 3336/2016

In tema di anticipazione su ricevute bancarie regolata in conto corrente, qualora le operazioni siano compiute anteriormente all'ammissione del correntista alla procedura di amministrazione controllata, occorre accertare, nel caso in cui il fallimento (successivamente dichiarato) del medesimo agisca per la restituzione dell'importo delle ricevute incassate dalla banca, se la convenzione relativa a quella anticipazione contenga una clausola attributiva del diritto di "incamerare" le somme riscosse in favore della banca stessa (cd. patto di compensazione o di annotazione ed elisione nel conto di partite di segno opposto), atteso che solo in tale ipotesi quest'ultima ha diritto a compensare il suo debito per il versamento al cliente delle somme riscosse con il proprio credito in dipendenza di operazioni regolate nel medesimo conto corrente senza che rilevi l'anteriorità del credito e la posteriorità del debito rispetto all'ammissione alla procedura concorsuale, non operando, in tale evenienza, il principio della "cristallizzazione dei crediti".

Cass. civ. n. 25609/2015

Nel giudizio promosso dalla curatela per il recupero di un credito del fallito, quando il convenuto abbia chiesto la compensazione di un controcredito in forma di eccezione riconvenzionale e il giudice di primo grado ne abbia dichiarato l'inammissibilità qualificandola come domanda riconvenzionale, in sede di gravame è necessario impugnare la qualificazione espressa dal primo giudice, altrimenti suscettibile di passare in cosa giudicata, denunciando la violazione dell'art. 112 c.p.c. con specifici motivi sul punto, posto che, nel rispetto dei principi del sistema delle impugnazioni, in mancanza di gravame è precluso al giudice d'appello mutare d'ufficio la qualificazione giuridica data dal primo giudice.

Cass. civ. n. 64/2012

Nel giudizio proposto dagli organi della liquidazione coatta amministrativa per ottenere la condanna al pagamento di un debito di un terzo nei confronti della debitrice sottoposta alla procedura concorsuale, l'eccepibilità in compensazione di un credito dello stesso terzo verso la debitrice non è condizionata alla preventiva verificazione di tale credito, purchè sia stata fatta valere come eccezione riconvenzionale; con quest'ultima, infatti, sono introdotte richieste che, restando nell'ambito della difesa, ampliano il tema della controversia, ma al solo fine di conseguire la reiezione della domanda, dato che al diritto fatto valere dall'attore viene opposto un diritto idoneo a paralizzarlo, mentre con la vera e propria domanda riconvenzionale il convenuto, traendo occasione da quella avanzata nei suoi confronti, chiede un provvedimento giudiziale a sè favorevole, che gli attribuisca beni determinati in contrapposizione a quelli richiesti con la domanda principale. Ne consegue che solamente con riferimento all'eventuale eccedenza del credito del terzo verso il debitore non può essere pronunciata sentenza di condanna nei confronti della procedura, dovendo per essa essere proposta un'autonoma istanza di insinuazione al passivo.

Cass. civ. n. 17999/2011

In tema di anticipazione su ricevute bancarie regolata in conto corrente, se le relative operazioni siano compiute in epoca antecedente rispetto all'ammissione del correntista alla procedura di amministrazione controllata, è necessario accertare, qualora il correntista - successivamente ammesso al concordato preventivo - agisca per la restituzione dell'importo delle ricevute incassate dalla banca, se la convenzione relativa all'anticipazione su ricevute regolata in conto contenga una clausola attributiva del "diritto di incamerare" le somme riscosse in favore della banca (cd. patto di compensazione o, secondo altra definizione, patto di annotazione ed elisione nel conto di partite di segno opposto); solo in tale ipotesi, difatti, la banca ha diritto a "compensare" il suo debito per il versamento al cliente delle somme riscosse con il proprio credito, verso lo stesso cliente, conseguente ad operazioni regolate nel medesimo conto corrente, a nulla rilevando che detto credito sia anteriore alla ammissione alla procedura concorsuale ed il correlativo debito, invece, posteriore, poiché in siffatta ipotesi non può ritenersi operante il principio della "cristallizzazione dei crediti", con la conseguenza che nè l'imprenditore durante l'amministrazione controllata, nè gli organi concorsuali - ove alla prima procedura ne sia conseguita altra - hanno diritto a che la banca riversi in loro favore le somme riscosse (anziché porle in compensazione con il proprio credito).

Cass. civ. n. 6711/2009

In tema di società di capitali, l'obbligo del socio di conferire in danaro il valore delle azioni sottoscritte in occasione di un aumento del capitale sociale è un debito pecuniario che può essere estinto per compensazione con un credito pecuniario vantato dal medesimo socio nei confronti della società, anche ai sensi dell'art. 56 legge fall., quando di essa sia sopraggiunto il fallimento, con la conseguenza che, in quest'ultimo caso, il giudice delegato non può ingiungere al socio il versamento del capitale sociale ai sensi dell'art. 150 legge fall., in quanto tale modalità di esazione presuppone l'esistenza del credito vantato dalla società, che risulta invece estinto per compensazione.

Cass. civ. n. 15225/2007

In tema di cessione delle ricevute bancarie, trattandosi di documento unilaterale predisposto dal creditore e con il quale si attesta di aver ricevuto una somma di danaro versata tramite una banca che ne cura presso il debitore l'incasso alla scadenza, il negozio non coincide con lo sconto bancario, in difetto di data certa ex art. 2704 c.c. e dunque di opponibilità al fallimento che chiede la revoca delle somme così introitate, restando dunque le anticipazioni degli importi già effettuate dalla banca al creditore ed il mandato in rem propriam che comunque si instaura, non influenti sia sulla titolarità del credito (che non si trasferisce alla banca cessionaria) sia sulla possibilità, che va esclusa, che la banca possa invocare la compensazione ex art. 56 legge fall. tra quanto anticipato ed i versamenti nel frattempo affluenti sul conto corrente su cui l'operazione è convenuta. (Nella fattispecie la S.C. ha negato che l'interpretazione della consegna — dal fallito alla banca — delle ricevute bancarie, cioè di un contratto e di altri atti di autonomia privata, riservata al giudice di merito, possa essere censurata ai sensi dell'art. 360 comma primo n. 3 c.p.c., essendo impugnabile solo per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale o per vizio di motivazione, se contraria a logica o incongrua).

Cass. civ. n. 4097/2007

Qualora il creditore del fallito abbia insinuato il suo credito al passivo, senza eccepire la compensazione, e il controcredito del fallito abbia costituito oggetto di accertamento innanzi al giudice competente (nella specie il giudice tributario), sul primo credito si è formata una preclusione endofallimentare e sul secondo una preclusione da giudicato, con la conseguenza che il creditore del fallito non può far valere la compensazione successivamente, con ricorso al giudice delegato, al di fuori del procedimento per l'insinuazione dei crediti al passivo.

Cass. civ. n. 22659/2006

In tema di società, la costituzione del rapporto societario e l'originario conferimento, pur rappresentando il presupposto giuridico del diritto del socio alla quota di liquidazione, non rilevano come fatto direttamente genetico di un contestuale credito restitutorio del conferente, configurandosi la posizione di quest'ultimo come mera aspettativa o diritto in attesa di espansione, destinato a divenire attuale soltanto nel momento in cui si addivenga alla liquidazione (del patrimonio della società o della singola quota del socio, al verificarsi dei presupposti dello scioglimento del rapporto societario soltanto nei suoi confronti), ed alla condizione che a tale momento dal bilancio (finale o di esercizio) risulti una consistenza attiva sufficiente a giustificare l'attribuzione pro quota al socio stesso di valori proporzionali alla sua partecipazione. Pertanto, il credito relativo alla quota di liquidazione vantato dal socio di una cooperativa escluso dalla società per effetto della dichiarazione di fallimento (ovvero, ai sensi dell'art. 2533 n. 5 c.c., nel testo introdotto dal D.L.vo 17 gennaio 2003, n. 6, a seguito della delibera di esclusione che è in facoltà della società adottare in caso di fallimento del socio) nasce o comunque diviene certo esclusivamente nel momento in cui interviene quella dichiarazione (o quella delibera), con la conseguenza che, non potendosi considerare detto credito anteriore al fallimento, viene a mancare il presupposto necessario, ai sensi dell'art. 56 della legge fallimentare, per la compensabilità dello stesso con i contrapposti crediti vantati dalla società nei confronti del socio.

Cass. civ. n. 518/2006

Ai sensi dell'art. 56 legge fall., la compensazione dei reciproci debiti e crediti nei confronti del fallito (o dell'impresa in liquidazione coatta amministrativa) è ammissibile anche se i crediti non siano scaduti prima del fallimento (o della messa in liquidazione coatta amministrativa), senza che assuma rilevanza la distinzione tra compensazione ordinaria e contabile, in quanto l'art. 1246 c.c. (che prevede che la compensazione si verifichi quali che siano i titoli da cui nascono i contrapposti debiti e crediti) è norma di carattere generale, applicabile anche alla compensazione prevista dall'art. 56 legge fall. Peraltro non rileva, ad escludere la possibilità della compensazione, la clausola del contratto tra le parti (nella specie, di agenzia), che escluda il ricorso alla compensazione contabile, stante la risoluzione di diritto del contratto stesso che consegue alla pubblicazione del decreto di sottoposizione dell'impresa a liquidazione coatta amministrativa.

Cass. civ. n. 12548/2004

Quando il creditore deduce la compensazione ed insinua al passivo il suo residuo credito, l'indagine del giudice delegato investe, non solo il titolo dal quale deriva il credito compensato, ma anche la sua efficacia e validità. Pertanto, dall'accertamento della compensazione, implicito nel provvedimento del giudice delegato che, senza altro aggiungere, ammette il creditore al passivo per l'importo del credito residuo, discende una preclusione endofallimentare che, atteso il carattere unitario della procedura e la strumentalità alla liquidazione delle azioni di massa, opera anche nei giudizi promossi dal fallimento per impugnare l'esistenza, la validità o l'efficacia del titolo dal quale deriva il credito opposto in compensazione.

Cass. civ. n. 18428/2003

La compensazione in materia fallimentare, regolata dall'art. 56, l. fall., presenta elementi di specialità rispetto alla disciplina ordinaria, in quanto opera anche se il credito vantato nei confronti del fallito non è esigibile, ferma restando la necessità che sussistano gli ulteriori requisiti previsti dal codice civile e, tra questi, che non ricorra alcuno dei casi per i quali l'art. 1246, c.c., stabilisce che essa non opera. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la compensazione del credito vantato da un agente assicurativo nei confronti di un'impresa sottoposta a liquidazione coatta amministrativa con il debito verso quest'ultima, in quanto esclusa dagli artt. 23 e 24 dell'accordo nazionale di categoria).

Cass. civ. n. 10861/2003

L'art. 56 della legge fallimentare prevede, quale unica condizione alla compensabilità dei debiti verso il fallito-creditore, l'anteriorità rispetto al fallimento del fatto genetico della situazione giuridica estintiva delle obbligazioni contrapposte, con la conseguenza, in tema di factoring, che, se è vero che è la riscossione dei crediti a rendere esigibile il prezzo della cessione, per la frazione non anticipata, ciò non significa che il credito del cedente sorga con quell'evento, ma, semmai, che è proprio esso a renderne possibile l'esazione, ferma restando l'anteriorità del momento genetico e, conseguentemente, la suscettibilità di essere portato in compensazione con i controcrediti del factor.

Cass. civ. n. 10349/2003

A seguito della presentazione della dichiarazione finale dei redditi da parte del curatore, il credito vantato dall'Amministrazione finanziaria nei confronti di un imprenditore fallito, che con la chiusura della procedura ritorna in bonis, non può essere opposto in compensazione con un debito della stessa Amministrazione verso la “massa dei creditori”, sia perché diversi sono i soggetti delle opposte ragioni di dare ed avere, in quanto il credito opposto dall'Erario ha come soggetto passivo l'imprenditore fallito mentre quello fatto valere dal fallimento con la dichiarazione finale è un credito della massa, sia perché — compensando tali opposte ragioni di dare e avere — verrebbero pregiudicati illegittimamente i creditori concorsuali, per la violazione del principio di parità di trattamento. (Nella specie la Corte ha negato la possibilità di compensare un credito del Fisco verso l'imprenditore fallito con quello relativo alle ritenute, indebitamente operate dalla banca, sugli interessi maturati sul deposito bancario intestato alla procedura).

Cass. civ. n. 8042/2003

L'art. 56 legge fallimentare prevede, quale unico limite imprescindibile per la compensabilità dei debiti verso il fallito-creditore, l'anteriorità al fallimento del fatto genetico della situazione giuridica estintiva delle obbligazioni contrapposte, e la compensazione fallimentare è, pertanto, applicabile non solo quando il credito del terzo non è ancora scaduto alla data della dichiarazione di fallimento, ma anche quando tale scadenza riguardi il credito del fallito. Ne consegue che, ai fini della decisione sulla compensazione riguardante il debito di un creditore del fallito verso quest'ultimo, derivante dall'esecuzione di mandato irrevocabile all'incasso di un credito del fallito verso terzi, è rilevante il momento dell'incasso in esecuzione del mandato, che costituisce il momento in cui sorge l'obbligazione del mandatario di restituire al mandante quanto riscosso.

Cass. civ. n. 18223/2002

Il principio del concorso formale, sancito dall'art. 52 legge fall., secondo cui ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione, deve essere accertato secondo le norme sulla verificazione dello stato passivo, non esclude che, nel giudizio proposto dal curatore fallimentare per la condanna al pagamento di un debito di un terzo nei confronti del fallito, il terzo possa opporre in compensazione, in via di eccezione, il suo credito, anche quando esso non sia stato accertato in sede di verificazione del passivo ed anche quando tale accertamento non sia stato neppure richiesto, giacché in tal caso il terzo chiede l'accertamento della sua pretesa creditoria, non ai fini della partecipazione al concorso, ma soltanto per contrastare la pretesa del curatore.

Cass. civ. n. 12489/2000

In tema di contratti bancari, il «bonifico» (ossia l'incarico del terzo dato alla banca di accreditare al cliente correntista la somma oggetto della provvista) costituisce un ordine (delegazione) di pagamento che la banca delegata, se accetta, si impegna (verso il delegante) ad eseguire; da tale accettazione non discende, dunque, un'autonoma obbligazione della banca verso il correntista delegatario, trovando lo sviluppo ulteriore dell'operazione la sua causa nel contratto di conto corrente di corrispondenza che implica un mandato generale conferito alla banca dal correntista ad eseguire e ricevere pagamenti per conto del cliente, con autorizzazione a far affluire nel conto le somme così acquisite in esecuzione del mandato. Ne deriva che, secondo il meccanismo proprio del conto corrente, la banca, facendo affluire nel conto passivo il pagamento ricevuto dall'ordinante, non esaurisce il proprio ruolo in quello di mero strumento del terzo, ma diventa l'effettiva beneficiaria della rimessa, con l'effetto ad essa imputabile (se l'accredito intervenga nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento, ricorrendo il requisito soggettivo della revocatoria fallimentare) di avere alterato la condicio creditorum (nella specie, la società, poi fallita, aveva ottenuto da un istituto di credito fondiario un mutuo da utilizzare per estinguere altre passività; la stessa aveva, dunque, accreditato una parte della stessa somma mutuata su un conto corrente di corrispondenza acceso presso una banca; la sentenza impugnata aveva revocato quell'accreditamento, ritenendolo un pagamento posto in essere in violazione della par condicio creditorum. La S.C., nell'affermare il principio di diritto massimato, ha respinto la tesi della banca, la quale sosteneva che il proprio credito nei confronti della fallita al momento dell'accreditamento s'era estinto non attraverso un pagamento astrattamente revocabile, bensì per effetto della compensazione, sottratta alla revocatoria ex art. 56 legge fall.)

Cass. civ. n. 4530/2000

L'art. 56 della legge fallimentare, prevedendo che tutti i creditori hanno diritto di compensare con i loro debiti verso il fallito (o la società posta in liquidazione coatta amministrativa) i crediti che essi vantano verso lo stesso «ancorché» non scaduti prima della dichiarazione di fallimento, costituisce, con riferimento alla mancata richiesta dell'indefettibilità del requisito dell'esigibilità di tali ultimi crediti, un'eccezione alla regola di cui all'art. 1243 c.c., secondo la quale la compensazione si verifica solo in caso di coesistenza di due contrapposti debiti aventi ad oggetto somme di denaro o quantità di cose fungibili dello stesso genere che siano però «ugualmente liquidi ed esigibili».

Cass. civ. n. 775/1999

Poiché l'art. 1246 c.c. si limita a prevedere che la compensazione si verifica quali che siano i titoli da cui nascano i contrapposti crediti e debiti senza espressamente restringerne l'applicabilità all'ipotesi di pluralità di rapporti, non può in assoluto escludersi che detto istituto operi anche fra obbligazioni scaturenti da un'unica fonte negoziale. Una tale esclusione è giustificata allorquando le obbligazioni derivanti da un unico negozio siano tra loro legate da un vincolo di corrispettività che ne escluda l'autonomia, perché se in siffatta ipotesi si ammettesse la reciproca elisione delle obbligazioni in conseguenza della compensazione, si verrebbe ad incidere sull'efficacia stessa del negozio, paralizzandone gli effetti. Qualora, invece, le obbligazioni, ancorché aventi causa in un unico rapporto negoziale, non siano in posizione sinallagmatica ma presentino caratteri di autonomia, non v'è ragione per sottrarre la fattispecie alla disciplina dell'art. 1246 c.c. che, riguardando l'istituto della compensazione in sé, è norma di carattere generale e come tale applicabile anche alla compensazione contemplata dall'art. 56 della legge fallimentare.

Cass. civ. n. 10097/1996

Qualora, dopo il fallimento del promissario acquirente, venga dichiarata la risoluzione di un contratto preliminare di compravendita (nella specie, per inadempimento del promittente venditore all'obbligo di procurarsi la proprietà del bene, per poterla trasferire al promissario), il promittente venditore, convenuto in giudizio dalla curatela per la restituzione del prezzo già interamente corrisposto dal promissario, non può eccepire, a compensazione del debito per tale restituzione, il proprio credito per l'importo di due titoli di credito, non riconducibili alla indicata promessa di vendita, apparentemente sottoscritti dal promissario medesimo (poi fallito) e dallo stesso non onorati, difettando il requisito dell'anteriorità al fallimento di entrambi i crediti (art. 56 legge fall.), in quanto l'asserito obbligo di pagamento sottostante ai titoli era sorto prima del fallimento, mentre quello di restituzione del prezzo pagato dal promissario era nato con la risoluzione del contratto per inadempimento, avutasi solo successivamente al fallimento (a seguito, nell'ipotesi, della dichiarazione in appello del promittente di non potere, né volere, adempiere).

Cass. civ. n. 7562/1990

L'art. 56 L. fall., nell'ammettere la compensazione anche nel caso in cui il credito verso il fallito non sia scaduto prima dell'apertura della procedura concorsuale, non deroga agli altri requisiti occorrenti per la compensazione legale, e, pertanto, non opera quando il corrispondente credito del fallito non sia esigibile.

Cass. civ. n. 2974/1990

La sopravvenienza del fallimento del debitore, nel corso del giudizio di primo grado da questo promosso in opposizione a decreto ingiuntivo, determina, nel caso in cui il curatore non gli sia subentrato, l'inopponibilità al fallimento di tale decreto nonché della declaratoria di esecutorietà del decreto stesso ai sensi dell'art. 647 c.p.c., con la conseguenza che il credito portato da tale decreto che non sia stato già verificato ed ammesso al passivo, ove sia opposto in compensazione, ai sensi dell'art. 56 R.D. 16 marzo 1942, n. 267, di un credito del fallito, di cui il curatore richieda il pagamento, deve essere accertato — al solo fine di (e nei limiti necessari a) paralizzare la pretesa del curatore — dal giudice da quest'ultimo adito.

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Francesco M. chiede
giovedì 19/07/2018 - Campania
“(Sono un ingegnere 73enne costretto a studiare giurisprudenza per tutti i guai che mi stanno capitando; spero in risposte esaustive anche se sarà necessario integrare il versamento)
Premessa:
Il 28.11.2003 sottoscrissi il preliminare di vendita di un terreno di mia proprietà con società s.r.l. che si occupava di edilizia , con la quale avevo anche rapporti di lavoro essendo io ingegnere.
Tra l’altro il preliminare (NON REGISTRATO) prevedeva :
Art. 5 Il presente contratto è sospensivamente condizionato all’ottenimento del Permesso di Costruire di un complesso sportivo....
Art. 6 Il promittente venditore autorizza la parte acquirente a presentare quanto necessario per l’ottenimento di tutti i permessi…
Art. 7 Le parti concordano che la validità del presente compromesso è di mesi 48 tempo reputato necessario per l’ottenimento delle autorizzazioni. Qualora le condizioni sospensive non dovessero essere verificate entro il termine del 31.12.2007, il presente contratto s’intenderà risolto.
Art. 8 Il prezzo della compravendita è fissato pari a € xx/mq per un totale di € xxxxxxx. Il suddetto importo è corrisposto con le seguenti modalità e termini : € 100.000 a titolo di caparra alla sottoscrizione del presente contratto e la restante somma alla stipula dell’atto notarile.
Art. 9 Nel caso intervenga la risoluzione del contratto per il mancato rilascio del Permesso di Costruire ,le somme versate dalla promittente acquirente a titolo di caparra (€ 100.000) saranno ritenute e incamerate dalla parte promittente venditrice quale corrispettivo di attività professionale maturate ( Ingegnere) di consulenza svolte a favore della società s.r.l. promittente acquirente.

Tanto premesso GLI ACCADIMENTI :
- Il permesso di costruire non fu rilasciato entro il termine stabilito del 31.12.2007
-La promissoria venditrice incamerò la caparra di € 100.000
-In seguito dopo circa 5 anni ,la società srl fu dichiarata fallita nel gennaio del 2012
-Il Curatore fallimentare il 17.06.2014 , mi ha citato invocando l’art. 72 L.F. chiedendo la restituzione della caparra incassata da me nel gennaio 2004.

DOMANDE :
1) Atteso che l’art. 72 si applica a contratti ancora in essere o non compiutamente eseguiti , considerato che il preliminare si era risolto il 31.12.2007 e con la conseguente trattenuta della caparra ai sensi dell’art. 9, COSA SI INTENDE PER CONTRATTO ANCORA IN ESSERE ? E IN PARTICOLARE IL MIO PRELIMINARE E’ DA CONSIDERARE ANCORA INESEGUITO ? A me pare che il preliminare fosse “morto e sepolto” e interamente compiuto ,diversamente se fosse giusta la richiesta della curatela , anche se il fallimento fosse avvenuto dopo altri dieci anni, quel preliminare sarebbe stato attaccabile rispetto alla restituzione della caparra . O pur essendo totalmente eseguito lo si considera “ ineseguito” solo perché non registrato e quindi non opponibile alla curatela?
E’ pur vero che il Preliminare non essendo registrato non è opponibile alla Curatela , ma è anche vero che la data certa (art. 2704 c.c.) è certificata dagli assegni versati in occasione della sottoscrizione del preliminare e BEN CITATI ELENCATI ED ALLEGATI DALLA CURATELA ALLA CITAZIONE ( dunque data certa ben individuata).
E’ condivisibile che il preliminare pur essendo contratto compiutamente eseguito lo si deve considerare ineseguito e ancora in essere, in quanto non trascritto e conseguentemente non opponibile alla curatela ?

2) La citazione e la richiesta di restituzione della caparra da parte della curatela risulta essere successiva ai dieci anni dal versamento della caparra , si può invocare l’avvenuta prescrizione ai sensi dell’art. 2946 c.c. ?
O i dieci anni si considerano iniziati il 31.12.2007 ,termine previsto di validità del preliminare ?


A questo proposito va considerato che :
Per i contratti con condizione sospensiva la Cassazione individua ,oltre ad una condicio facti, anche una condicio iuris , il cui mancato definitivo avveramento ,RENDE IRRIMEDIABILMENTE INEFFICACE IL CONTRATTO INDIPENDENTEMENTE DALLA VOLONTA’ DELLE PARTI. Nella specie , le parti avevano subordinato l’efficacia del contratto preliminare di vendita di un bene immobile al rilascio ,mai avvenuto ,della concessione edilizia entro un dato termine.
Le conseguenze dell’avveramento della condizione sono disciplinate all’art. 1360, chiaro nello statuirne la retroattività ex tunc al momento della conclusione del contratto (anche se con delle eccezioni).
L’ EFFETTO DELL’AVVERAMENTO O MENO DELLA CONDIZIONE E’ AUTOMATICO E NON NECESSITA DI ULTERIORI AZIONI OD ATTIVITA’ AD OPERA DELLE PARTI,
Sono anche ravvisabili casi in cui l’avveramento o non della condizione conferisce ad una delle parti o ad entrambe una potestas decidendi in ordine all’efficacia del contratto : in tal caso, l’efficacia del negozio non viene definitivamente inibita o riaffermata dal semplice verificarsi della condizione dedotta ma , bensì, dall’esercizio del potere ad opera del soggetto cui è conferito.
E’ comunque da sottolineare come sia ormai ammessa la possibilità, per la parte nel cui favore sia prevista la condizione, di rinunziare agli effetti dell’avveramento DANDONE PRONTA COMUNICAZIONE ALLA CONTROPARTE : tale ricostruzione non contraddice il carattere AUTOMATICO DELL’EFFETTO RETROATTIVO ex art. 1360 c.c. ma è , all’opposto, diretta ad assicurare alle parti un maggiore spazio di autonomia contrattuale; ovviamente, essendo l’effetto normale quello dell’ automatica retroattività, la parte nel cui interesse è prevista la condizione e che sia interessata a rinunziare agli effetti della stessa sarà onerata dell’obbligo di comunicare, ENTRO UN RAGIONEVOLE LASSO DI TEMPO,la propria volontà alla controparte E NON CINQUE ANNI DOPO).
Da ciò (retroattività) parrebbe ovvio che la prescrizione prescinde dalla data di validità del preliminare (il 31.12.2007) e inizia invece dalla data di sottoscrizione del preliminare , il 28.11.2003.

3) La curatela ha anche chiesto in subordine che il preliminare venga dichiarato NULLO in quanto su una delle due copie del preliminare, su quello in possesso del fallito, non risulta la firma della parte acquirente.

Nel caso di dichiarazione di nullità il preliminare risulterebbe privo di efficacia e quindi avrei incamerato l’importo della caparra senza alcun titolo.

MA se questo accadesse si ritornerebbe all’ipotesi di prescrizione ultra decennale , infatti la sentenza di fallimento non interrompe la prescrizione decennale (art. n. 2946 c.c.)

4) Considerato che la società fallita è rimasta mia debitrice per rilevanti importi relativi a mie competenze professionali (circa € 1.200.000 dico unmilione duecentomila) consolidatisi molto tempo prima della dichiarazione di fallimento, è applicabile l’art. n. 56 L.F., atteso che non ritenuto di inserirmi al Passivo avendo certezza e conoscenza della insufficienza patrimoniale della società fallita.?”
Consulenza legale i 27/07/2018
Il problema della nullità del preliminare potrebbe essere facilmente superato con la produzione in giudizio della copia recante la sottoscrizione di entrambe le parti.
Diverso, indubbiamente, è il discorso se la scrittura privata non reca in nessuna delle copie esistenti la sottoscrizione della parte promittente acquirente, in quanto ciò determinerebbe la nullità della stessa.

A tanto si arriverebbe dal combinato disposto degli artt. 1350 e 1351 c.c.
In particolare, l’art. 1350 del c.c. individua tra gli atti che devono farsi per atto pubblico sotto pena di nullità i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili, mentre il successivo art. 1351 del c.c., dedicato proprio al contratto preliminare, dispone che questo è nullo se non viene fatto nella stessa forma prescritta per il contratto definitivo.
Ebbene, la mancata di sottoscrizione di una delle parti, non soltanto fa venir meno il requisito della forma scritta prescritto dalle norme sopracitate (con conseguente nullità del documento contrattuale), ma non consente neppure alla stessa di produrre quella efficacia probatoria prevista dall'art. 2702 del c.c.

Non sussistendo alcun documento contrattuale che possa provare gli obblighi assunti dalle parti e le pattuizioni convenute (tra cui quella contenuta nell’art. 9), è chiaro che la somma versata a titolo di caparra con assegno non potrà più avere alcuna giustificazione causale, potendo così essere soggetta ad azione di ripetizione ex art. 2033 del c.c. perché indebitamente corrisposta e trattenuta.

Tuttavia, come già osservato nella precedente consulenza, il curatore in realtà non avrà più alcun diritto di esercitare l’azione di ripetizione, essendosi oramai prescritto il termine per il suo esercizio, considerato che tale termine deve farsi decorrere dalla data del pagamento e non da quello della sentenza dichiarativa di fallimento (avvenuta nel gennaio del 2012).

In tal senso può argomentarsi dalla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione (in particolare Cass. 28.10.1982 n. 5926; Cass. 08.09.2004 n. 18059; Cass. 19.11.2008 n. 27510; Cass. sez. I 19.12.2012 n. 23429), la quale sostiene che il curatore fallimentare, nel momento in cui agisce in giudizio per la restituzione di una somma di denaro, che assuma corrisposta indebitamente in epoca antecedente alla procedura concorsuale, poiché non fa altro che esercitare un’azione rinvenuta nel patrimonio del soggetto sottoposto alla procedura, si pone nella sua stessa posizione sostanziale e processuale, cioè nella posizione che il soggetto avrebbe avuto qualora avesse agito in bonis per acquisire al suo patrimonio poste attive di sua spettanza.

Ciò comporta che troverà un termine di prescrizione per la ripetizione già iniziato, decorrente dalla data del pagamento avvenuto con assegno, e già scaduto alla data di notifica dell’atto di citazione.
Ciò che ci si auspica, a questo punto, è che sia stata almeno emessa fattura per aver ricevuto quella somma di denaro, tenuto conto di quanto previsto dall’art. 6, comma 3, del D.P.R. 633/1972, nella parte in cui prevede che il momento in cui sorge l’obbligo di emissione della parcella (fattura) è quello della effettuazione della “prestazione di servizi”, la quale, a sua volta, si considera effettuata all’atto del pagamento del corrispettivo (rimanendo giuridicamente del tutto irrilevante sia la conclusione del contratto sia l’effettiva prestazione del servizio o la sua ultimazione).

Per quanto concerne la domanda posta al n. 4 del quesito, relativa alla possibilità o meno di invocare l’art. 56 della l. fall. per far valere la compensazione di un proprio credito, va osservato quanto segue.
Mentre vi è chi ritiene che tale norma presuppone che il creditore in bonis abbia già insinuato il suo credito al passivo e che nella stessa domanda di insinuazione abbia formulato espressa richiesta di volersi giovare della compensazione, la Corte di Cassazione, in una sua recentissima ordinanza (Cass. civ. Sez. VI ord. N. 30298 del 18.12.2017), ha affermato che, per giurisprudenza ormai costante, nel giudizio proposto dalla curatela fallimentare per la condanna al pagamento di un debito di un terzo nei confronti del fallito, l’eccepibilità in compensazione di un credito dello stesso verso il fallito non è condizionata alla preventiva verificazione di tale credito, purchè sia stata fatta valere come eccezione riconvenzionale.

Si precisa, infatti, che solo l’eventuale eccedenza del credito del terzo verso il fallito non può essere oggetto di sentenza di condanna nei confronti del fallimento, ma deve essere oggetto di autonomo procedimento di insinuazione al passivo (in tal senso Cass. sentenze nn. 287/2009, 15562/2011, 64/2012, 14418/2013).

Applicando i suddetti principi al caso di specie, dunque, potrà dirsi che, non essendo stata avanzata nei termini domanda di insinuazione al passivo per il proprio credito professionale di € 1.200.000, la compensazione potrà essere eccepita solo per la somma di € 100.000 di cui è stata richiesta la restituzione.

Di particolare interesse, infine, si ritiene che sia anche la sentenza della Corte di Cass. Sez. III civ. n. 21784 del 27.10.2015, nella quale si afferma che la compensazione nel fallimento deve considerarsi ammessa anche quando il controcredito del debitore del fallimento divenga liquido ed esigibile dopo il fallimento, purchè il fatto genetico della obbligazione sia anteriore alla relativa dichiarazione, essendo invece irrilevante che la sentenza di accertamento del controcredito intervenga successivamente alla dichiarazione di fallimento.
L’importanza di quest’ultima pronuncia della Corte di Cassazione può individuarsi nella possibilità concessa al creditore del fallito, non soltanto di eccepire in compensazione un proprio credito, ma anche di far accertare, nel corso di quel giudizio, l’esistenza del proprio credito professionale da opporre in compensazione, sul presupposto che la prestazione dei servizi (ossia il fatto genetico dell’obbligazione) è stata resa in epoca anteriore al fallimento.

Indubbiamente si tratta di un procedimento alquanto complesso e delicato ma, considerate le poste in gioco, si ritiene che possa valere la pena di provare a seguire tale strada.

Fabio B. chiede
martedì 13/03/2018 - Toscana
“Buonasera, vorrei sapere se il debito che insorge verso il fallimento a seguito dell'esercizio di un'azione di responsabilità, può essere compensato con il preesistente credito privilegiato ammesso allo stato passivo.
Grazie”
Consulenza legale i 20/03/2018
La compensazione tra crediti e debiti nei confronti del fallito è regolata dall’art. 56 della Legge Fallimentare (R.D. n. 267/1942), il quale afferma che essa è, in genere, possibile.

Si tratta di un’ipotesi di compensazione legale particolare, soggetta alle regole dettate in materia dal codice civile (articoli 1241 e seguenti) con una sola eccezione rispetto a queste ultime: perché essa operi non è necessario che i contrapposti crediti siano diventati esigibili prima della dichiarazione di fallimento.
Può quindi realizzarsi la compensazione anche tra crediti e debiti non ancora scaduti a tale data.

Tuttavia, ad evitare che siano artificiosamente creati i presupposti perché la compensazione si traduca in un danno per il fallimento, la regola principale della compensazione fallimentare prevede che i crediti, anche se non ancora scaduti, siano preesistenti al fallimento o discendano da un titolo anteriore: è, pertanto, escluso che possa opporsi in compensazione un credito concorsuale (già ammesso al passivo) con un credito della massa sorto dopo la dichiarazione di fallimento (ad esempio a seguito di un’azione giudiziale risultata vittoriosa per il fallimento).

Si riporta a tal proposito, tra le molte, Commiss. Trib. Reg. Lombardia Milano Sez. XVII, 05/07/2017, la quale recita: “(…) L'operatività della compensazione in sede di fallimento, invero, ha quale limite generale che i crediti, anche se non scaduti, siano preesistenti all'apertura del fallimento o, quantomeno, discendano da un titolo anteriore. Di talché deve escludersi che possa porsi in compensazione un credito vantato nei confronti del fallito prima dell'apertura della procedura concorsuale con un credito della curatela fallimentare maturato dopo la dichiarazione di fallimento (come nella specie preteso).

Visto e considerato quanto sopra, dunque, la risposta al quesito parrebbe purtroppo negativa.