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Articolo 281 ter Codice di procedura civile

(R.D. 28 ottobre 1940, n. 1443)

[Aggiornato al 02/03/2024]

Poteri istruttori del giudice

Dispositivo dell'art. 281 ter Codice di procedura civile

Il giudice può disporre d'ufficio la prova testimoniale (1) formulandone i capitoli, quando le parti nella esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità (2).

Note

(1) Il potere del giudice (mutuato da quello che era concesso al pretore nel processo ordinario di cognizione) è limitato alla sola prova testimoniale con esclusione degli altri mezzi di prova.
(2) Anche in questo caso valgono i limiti di ammissibilità della prova testimoniale previsti dagli artt. 2721 ss. c.c. e dell'art. 246 del c.p.c..
Nonostante sia il giudice a formulare i capitoli di prova, l'onere dell'intimazione dei testi spetta comunque alla parte interessata.
Quanto al termine per l'esercizio del potere istruttorio del giudice, una parte della giurisprudenza, avallata dalla Corte costituzionale, ritiene che il potere sia precluso quando siano già maturate le preclusioni istruttorie a carico delle parti; secondo una diversa tesi, invece, il giudice potrebbe esercitare il potere anche dopo il passaggio in decisione della causa.

Ratio Legis

La norma costituisce un'eccezione al principio dispositivo, in base al quale sono le parti a disporre del materiale istruttorio e ad indicare al giudice i mezzi di prova dei quali intendano valersi.
Pertanto, vi è chi ne ha sottolineato i rischi di agevolare una conduzione più autoritaria del processo da parte del giudice, con possibilità, inoltre, di influire in maniera determinante a favore dell'una o dell'altra parte.

Spiegazione dell'art. 281 ter Codice di procedura civile

La presente disposizione non costituisce una vera e propria novità, in quanto il legislatore non ha fatto altro che riprodurre l’ormai abrogato art 312 c.p.c., il quale attribuiva il medesimo potere istruttorio ufficioso al pretore e al giudice di pace.

L’attribuzione del potere istruttorio ufficioso anche in favore del tribunale in composizione monocratica costituisce un'attenuazione del principio dispositivo in materia di prove ed un rafforzamento dei poteri dell'organo giudicante.
L’inserimento di tale norma nell'ambito del procedimento da seguire innanzi al tribunale in composizione monocratica ha, in buona sostanza, trasformato in regola quel potere istruttorio d'ufficio che nella previgente disciplina costituiva mera eccezione.

Raffrontando l'art. 281 ter con l'omologo art. 257 del c.p.c. comma 1, applicabile a tutte le controversie soggette al rito ordinario, emerge da un lato la medesima ratio, ossia quella di ricercare la verità materiale, ma nello stesso tempo la più ampia portata del potere istruttorio del giudice monocratico, essendo tale potere esercitabile in via autonoma sulla base di riferimenti provenienti dalla parte, attraverso la diretta formulazione dei capitoli da parte del giudice.
Dal raffronto, poi, con il secondo comma dell'art. 421 del c.p.c., relativo ai poteri istruttori del giudice del lavoro, si desume come il potere istruttorio del giudice monocratico del rito ordinario sia più ristretto di quello attribuito al giudice del lavoro, in quanto il primo è circoscritto alla sola prova testimoniale e legato alla circostanza che il riferimento a persone capaci di conoscere la verità deve provenire dalle indicazioni operate dalle parti.

Il potere di disporre d'ufficio la prova testimoniale va esercitato nel pieno rispetto dell'attività di allegazione dei fatti individuati dalle parti nei loro scritti difensivi; ciò comporta che la prova testimoniale disposta d'ufficio dal giudice potrà riguardare solo fatti allegati dalle parti, mai fatti derivanti dalla scienza privata del giudice (il giudice, pertanto, non ha alcun potere di acquisire autonomamente al processo fatti e/o fonti di prova).

Altro presupposto per l’esercizio del potere ufficioso è che i fatti allegati siano bisognosi di prova; pertanto, i poteri istruttori ufficiosi non possono essere esercitati in relazione a fatti che, allegati dalle parti, sono pacifici o non contestati.
Al fine di rispettare il principio del contraddittorio, il giudice, ancora, è tenuto a sottoporre l'ammissione della prova d'ufficio alle deduzioni e controdeduzioni delle parti circa l'ammissibilità e rilevanza dello stesso mezzo di prova; le parti, dunque, hanno il diritto di vedersi assegnare dallo stesso giudice un termine perentorio per poter dedurre i mezzi di prova che si sono resi necessari in relazione a quelli disposti d'ufficio.

Ciò si impone non solo per ragioni di carattere logico e sistematico, ma anche in osservanza del disposto di cui al comma 8 dell'art. 183 del c.p.c., in forza del quale “nel caso in cui vengano disposti d'ufficio mezzi di prova con l'ordinanza di cui al 7° co., ciascuna parte può dedurre, entro un termine perentorio assegnato dal giudice con la medesima ordinanza, i mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi”.
Poiché la lettera dell'art. 281 ter prevede solo il potere di disporre d'ufficio la prova testimoniale, si ritiene che il giudice:
a) può disporre d'ufficio la sola prova testimoniale;
b) lo può fare solo in relazione ai fatti allegati dalle parti, anche se non occorre che i fatti debbano risultare dagli atti introduttivi delle parti (citazione e comparsa di risposta), potendo anche emergere da dichiarazioni orali;
c) può disporre l'assunzione del teste di riferimento ex art. 257 del c.p.c. comma 1 soltanto ove la conoscenza del fatto da parte del terzo si sia palesata nel corso di una testimonianza e non anche quando la stessa emerga già dalle allegazioni di una delle parti.

Per quanto concerne le persone a conoscenza della verità dei fatti, anch'esse devono essere indicate dalle parti, in forma scritta o in forma orale nel corso dell'interrogatorio o durante l'assunzione di un'altra prova; ciò comporta che la prova testimoniale potrà essere disposta d'ufficio solo nei confronti di persone la cui identità, sebbene non indicata con precisione dalle parti, possa agevolmente ricavarsi dal contesto delle attività svolte dalle parti nei loro atti difensivi o in sede di interrogatorio libero.

Ulteriore limite al potere ufficioso del giudice monocratico è rappresentato dalla circostanza che la prova va dedotta comunque per capitoli (pertanto, occorrerà seguire le modalità previste dall'art. 244 del c.p.c.).

Per quanto concerne il momento ultimo entro il quale il giudice può esercitare il suo potere ufficioso, ci si chiede se tale potere sia soggetto ai medesimi limiti temporali previsti per le parti.
A tale riguardo parte della dottrina riteneva che il limite alla possibilità per il giudice di disporre d'ufficio la prova testimoniale fosse dato dal termine ultimo concesso alle parti per l'allegazione dei fatti di causa, per cui doveva escludersi che dopo la chiusura della prima udienza di trattazione, o al più tardi, dopo il decorso dei termini concessi dal giudice per le allegazioni istruttorie, le parti potessero allegare fatti nuovi e il giudice potesse d'ufficio disporre la prova testimoniale.
Secondo altra tesi, invece, poiché il potere qui previsto non va considerato come potere meramente discrezionale, ma come potere-dovere da esercitarsi, ad opera del giudice, ogni qualvolta, al fine di decidere la controversia, fosse costretto a ricorrere alla regola formale di giudizio di cui all'art. 2697 del c.c., doveva ammettersi l'esercizio di tale potere anche e soprattutto oltre le barriere preclusive stabilite per le parti.
Dopo la riforma del 2005, stando al riformato art. 183, 8° co., si ammette che il giudice possa esercitare i suoi poteri istruttori ufficiosi con la stessa ordinanza con cui egli ammette le prove dedotte dalle parti, dunque con un provvedimento che è successivo al momento ultimo entro il quale le parti possono dedurre istanze probatorie.

Ci si è anche chiesti se il potere del giudice possa essere esercitato con riferimento a prove testimoniali rispetto alle quali la parte sia decaduta.
A tal proposito si distingue l'ipotesi in cui la decadenza si sia verificata in forza della previsione di cui all'art. 183 c.p.c. da quella in cui si sia verificata, invece, in forza della previsione di cui all'art. 208 del c.p.c..
Si esclude che la deduzione ex officio possa consentire l'ammissione di una prova testimoniale in ordine alla quale la parte interessata è ormai decaduta, ad esempio per mancata citazione dei testi.

Nel caso in cui il giudice abbia esercitato il proprio potere ufficioso al di là dei limiti appena visti oppure abbia disposto l'ammissione di una prova testimoniale senza aver consentito alle parti di poter reagire a tale attività mediante la deduzione di prove contrarie, il relativo vizio potrà essere sottoposto a verifica in sede di gravame.
Nella fase del gravame, invece, le parti non potranno sindacare il mancato esercizio del potere ufficioso da parte del giudice, nonostante ricorrano i presupposti di cui all'art. 281 ter, poiché si tratta di un potere e non di un dovere processuale.

E’ discusso se la norma in esame sia applicabile anche al procedimento innanzi al tribunale in composizione collegiale.
La dottrina maggioritaria è per la soluzione negativa, in considerazione del fatto che l'applicazione dell'art. 281 ter nelle cause riservate al giudice monocratico presenta aspetti fortemente pubblicistici.
Anche la Corte costituzionale è intervenuta sul punto (C. Cost. 14.3.2003, n. 69) dichiarando manifestamente inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 281 ter nella parte in cui non si applica ai giudizi demandati al tribunale in composizione collegiale, in riferimento agli artt. 3, 24 Cost.

Deve invece essere data soluzione positiva a tale problema per il procedimento innanzi al giudice di pace, argomentando dal disposto attuale dell'art. 311 del c.p.c., il quale testualmente prevede che “il procedimento davanti al giudice di pace, per tutto ciò che non è regolato nel presente Titolo o in altre espresse disposizioni, è retto dalle norme relative al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, in quanto applicabili” e dunque anche dell'art. 281 ter (in tal senso è anche orientata la giurisprudenza di legittimità).

Massime relative all'art. 281 ter Codice di procedura civile

Cass. civ. n. 18324/2015

Il potere officioso del giudice di disporre l'assunzione del teste di riferimento ai sensi dell'art. 257, comma 1, c.p.c., comportando una deroga al potere di deduzione probatoria della parte, può essere esercitato soltanto ove la conoscenza del fatto da parte del terzo si sia palesata nel corso di una testimonianza e non anche quando la stessa emergeva già dalle allegazioni di una delle parti.

Cass. civ. n. 707/2004

In materia di procedimento civile avanti al giudice di pace (in forza dell'art. 311 c.p.c. disciplinato, per quanto non espressamente previsto, dalle norme relative al procedimento avanti al Tribunale, in quanto applicabili), ben può tale giudice, ai sensi del combinato disposto degli artt. 311, 281 bis, 270 e 107 c.p.c., ordinare la chiamata in causa del terzo ex art. 107 c.p.c. «in ogni momento» del giudizio di primo grado, senza limiti di tempo, e quindi anche dopo l'esaurimento dell'istruttoria orale, non essendo al riguardo vincolato dalle preclusioni in cui siano eventualmente incorse le parti originarie per effetto dell'art. 320 c.p.c., giacchè, attese le finalità pubblicistiche che presiedono alla chiamata del terzo iussu iudicis la deroga al regime delle ordinarie preclusioni nascente dal combinato disposto di cui agli artt. 270 e 184 bis c.p.c. non può non trovare applicazione anche nel procedimento in questione, atteso che l'economia dei giudizi e l'uniformità dei giudicati sono valori che devono prevalere sulle pure apprezzabili esigenze di snellezza e celerità a tale procedimento impresse dalla riforma del 1990, come si desume dalla circostanza che proprio con il mantenere in tale occasione immutata la disciplina dell'istituto in questione il legislatore ha dimostrato di considerare le suindicate finalità pubblicistiche come meritevoli di maggiore tutela.

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