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Articolo 17 Codice del processo amministrativo

(D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104)

[Aggiornato al 06/10/2023]

Astensione

Dispositivo dell'art. 17 Codice del processo amministrativo

1. Al giudice amministrativo si applicano le cause e le modalità di astensione previste dal codice di procedura civile. L'astensione non ha effetto sugli atti anteriori.

Spiegazione dell'art. 17 Codice del processo amministrativo

La norma in esame si occupa di estendere al processo amministrativo le regole sull’astensione del giudice previste dal Codice di procedura civile.
Tale istituto è uno strumento applicativo del principio, costituzionalmente imposto, di imparzialità del giudice, il quale è obbligato a “ritirarsi” dal processo in tutti i casi in cui non possa garantire l’equidistanza rispetto alle parti o agli interessi coinvolti nel giudizio.

Le cause di astensione sono quelle disciplinate dall’art.51 c.p.c.
Tale norma, nello specifico, prevede delle ipotesi di astensione obbligatoria (al co.1). Esse sono:

1. se il giudice ha interesse nella causa (o in altra vertente su una questione di diritto identica);
2. se il giudice o il coniuge è parente fino al quarto grado o convivente o commensale abituale di una delle parti o di un difensore;
3. se il giudice o il coniuge ha una causa pendente o rapporti debitori/creditori con una delle parti o con un difensore, o i rapporti tra questi siano comunque connotati da grave inimicizia;
4. se il giudice ha già manifestato la sua opinione circa la questione oggetto di causa (dando consiglio, prestando patrocinio, rendendo testimonianza, svolgendo le funzioni di magistrato in altro grado, ecc.);
5. se il giudice è tutore, curatore, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti oppure se è amministratore o gerente di un ente, associazione, comitato, società o stabilimento che ha interesse in causa.

Tale elenco, per la giurisprudenza maggioritaria, è da considerarsi tassativo, sicchè non è ammissibile il ricorso all’analogia legis. Va segnalato però che la questione è controversa e si registrano anche recenti pronunce del Consiglio di Stato di segno opposto.

Il co. 2 dell’art. 51 c.p.c., inoltre, prevede l’astensione facoltativa, disponendo che in ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza il giudice può richiedere al capo dell’ufficio l’autorizzazione ad astenersi.

Circa le conseguenze della mancata astensione va poi segnalato che essa non comporta nullità della sentenza che verrà poi pronunciata e non può essere dedotta in sede di impugnazione, salvo il caso in cui l’obbligo di astenersi da parte del giudice scaturisca dal fatto di essere titolare di un interesse proprio e diretto nella causa, tale da porlo nella veste di parte (in tale ipotesi, infatti, la lesione del principio di imparzialità del giudice risulta di particolare gravità e non può non comportare la nullità assoluta della sentenza che sia stata pronunciata).
Ipotesi ancora diversa è quella del giudice che abbia egualmente partecipato alla pronuncia, sebbene autorizzato ad astenersi o la cui ricusazione sia stata accolta; in tal caso, infatti, viene ad essere integrata una nullità per vizio di costituzione del giudice ex art. 158 c.p.c.
A tale forma di nullità, tuttavia, si applica il principio della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione, con la conseguenza che, se il vizio non viene rilevato, esso dovrà essere denunciato in sede di gravame, in difetto di che dovrà ritenersi sanato a seguito del formarsi del giudicato sul punto.

Massime relative all'art. 17 Codice del processo amministrativo

Cons. Stato n. 2889/2019

In tema di revocazione, la "svista" che ne autorizza e legittima la proposizione del rimedio, tendenzialmente eccezionale anche nei casi di c.d. revocazione ordinaria, è rappresentata o dalla mancata esatta percezione di atti di causa, ovvero dall'omessa statuizione su una censura o su una eccezione ritualmente introdotta nel dibattito processuale. Infatti, non v'è dubbio che l'errore di fatto revocatorio debba cadere su atti o documenti processuali. Non è ammissibile un ricorso per revocazione proposto avverso una sentenza di revocazione. In particolare il divieto di impugnare per revocazione una decisione che si è pronunciata su un ricorso per revocazione si giustifica perché l'ordinamento intende evitare che la definizione di una lite sia oggetto di ripetute contestazioni (spesso pretestuose), che impediscano la formazione di una statuizione idonea a concludere definitivamente la controversia. Il medesimo divieto non si applica unicamente quando la domanda di revocazione sia stata dichiarata inammissibile "per ragioni formali" insussistenti, che abbiano precluso il suo esame, cioè quando la stessa statuizione di inammissibilità si sia basata su un errore di fatto (ad es., quando il ricorso per revocazione sia stato dichiarato erroneamente inammissibile per irritualità della sua notifica). Va esclusa l'applicabilità della norma di cui all'art. 51, n. 4, c.p.c. - richiamata dalla norma di rinvio di cui all'art. 17 D.Lgs. n. 104/2010; ne consegue che, ad eccezione dell'ipotesi del dolo del giudice o, comunque, dell'ipotesi in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, i magistrati che hanno pronunciato la sentenza impugnata per revocazione possono legittimamente far parte del collegio investito della cognizione del giudizio revocatorio.

Cons. Stato n. 3985/2015

La circostanza che nei confronti di un giudice che abbia reso una decisione interlocutoria, parziale etc. - e che quindi non si sia definitivamente "spogliato" della causa - sia stata intrapresa da una delle parti del processo una azione risarcitoria di responsabilità non può integrare causa di incompatibilità, con conseguente obbligo di astensione; opinando diversamente, l'azione di responsabilità civile, ove intrapresa da una parte in corso di causa, costituirebbe - sempre e comunque - il mezzo per impedire al Giudice naturale di pronunciare definitivamente sulla controversia che ha dato causa all'azione civile medesima, creando un vulnus al precetto di cui all'art. 25 Cost.

Cons. Stato n. 5/2014

Nel caso di ricorso per revocazione di un'ordinanza cautelare (salvo che nell'ipotesi di dolo del giudice o nell'ipotesi in cui il giudice abbia un interesse proprio o diretto alla causa), può essere componente del collegio che decide il ricorso anche il magistrato che abbia fatto parte del collegio che aveva pronunciato l'ordinanza impugnata. Alla luce del nuovo codice del processo amministrativo, deve escludersi l'applicabilità della norma di cui all'art. 51, n. 4, c.p.c. - richiamata dalla norma di rinvio di cui all'art. 17 c.p.a. - che prevede l'obbligo del giudice di astenersi quando abbia conosciuto della causa in altro grado del processo, allorquando sia lo "stesso ufficio giudiziario" che ha reso la pronuncia oggetto di revocazione, competente a decidere nuovamente; ne consegue che, ad eccezione dell'ipotesi del dolo del giudice o, comunque, dell'ipotesi in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, i magistrati che hanno pronunciato la sentenza impugnata per revocazione possono legittimamente far parte del collegio investito della cognizione del giudizio revocatorio.

Cons. Stato n. 2/2009

Nel processo amministrativo, la regola della incompatibilità prevista dall'art. 51, n. 4, c.p.c. è applicabile anche quando è lo stesso ufficio giudiziario, che ha reso la pronuncia originaria annullata con rinvio dal giudice di appello, a doversi nuovamente pronunciare sulla medesima questione, con la conseguenza che la sua definizione deve essere affidata ad altra sezione o alla medesima sezione, ma con diversa composizione.

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