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Articolo 1462 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 31/01/2024]

Clausola limitativa della proponibilità di eccezioni

Dispositivo dell'art. 1462 Codice Civile

La clausola con cui si stabilisce che una delle parti non può opporre eccezioni al fine di evitare o ritardare la prestazione dovuta(1), non ha effetto per le eccezioni di nullità [1418 ss.], di annullabilità [1425] e di rescissione [1447 ss.] del contratto.

Nei casi in cui la clausola è efficace, il giudice, se riconosce che concorrono gravi motivi, può tuttavia sospendere la condanna, imponendo, se del caso, una cauzione [167](2).

Note

(1) Si tratta della c.d. clausola solve et repete in base alla quale ad una parte è concesso il diritto di non vedersi opposta alcuna eccezione ad opera della controparte se non dopo che questa ha adempiuto. Tra i contratti nei quali trova frequente applicazione vi è la fideiussione (1936 ss. c.c.).
(2) Ad esempio, se il giudice ritiene che l'eccezione possa essere fondata.

Ratio Legis

La norma limita la possibilità di inserire nel contratto una clausola solve et repete in quanto la stessa costituisce un limite alla libertà delle parti di proporre eccezioni (v. 1341 c.c.). In particolare, essa non opera se è in discussione la stessa validità del contratto, in quanto tale invalidità non giustificherebbe alcuna prestazione.

Brocardi

Solve et repete

Spiegazione dell'art. 1462 Codice Civile

La clausola «solve et repete» nei contratti: concetto

Concetto. Con la clausola «solve et repete», quale è disciplinata dall'art. 1462, le parti contraenti stabiliscono che l'onerato non possa opporre determinati mezzi di difesa contro la domanda di adempimento proposta dall'altra parte: detti mezzi di difesa potranno, eventualmente, essere fatti valere solo dopo l'esecuzione della prestazione dovuta.

La disciplina di questo patto, quale è ora data dal nostro legislatore, costituisce la soluzione di una questione particolare che si inquadra nel vasto problema della tutela dei diritti delle parti contraenti nel momento della esecuzione dei rapporti derivanti dai contratti sinallagmatici, e risente nettamente dell'esistenza e dell'operare di due correnti opposte: la corrente individualistica privata e quella pubblicistica.

Di questo si deve tener conto nell'esaminare i punti fondamentali dell'istituto, e cioè:
1) la funzione di detta clausola,
2) i limiti di applicazione,
3) la sua costruzione giuridica.


Funzione di detta clausola

Funzione della clausola «solve et repete». — Tenendo presente che siamo qui nel campo dei contratti sinallagmatici, in cui ciascun contraente è ad un tempo creditore e debitore dell'altro, e in cui quindi ciascuno di essi ha diritto alla tutela del suo credito, occorre porre ben chiaro il principio (testualmente ricordato nell'articolo che qui si commenta) che, se è ammissibile, in base all'autonomia della volontà contrattuale (1322), una posizione di favore di un dato contraente rispetto all’altro, tale posizione non può mai servire a tutelare la malafede del primo di fronte al secondo.

Di conseguenza, la funzione della clausola «s. et r.» è quella di tutelare l'onesto creditore contro quelli che potrebbero essere semplici pretesti dilatatori del debitore, e questa tutela consiste quindi nel togliere la possibilità a quest'ultimo di esercitare, in contrasto con la domanda del creditore, quei mezzi di difesa che possono differire l'esecuzione della sua prestazione: si legge nei lavori preparatori che la clausola del «s. et. r.» «regola soltanto gli atteggiamenti temporali del rapporto».

Certo, non può nascondersi che, qualche volta, la clausola «s. et r.» possa valere a rendere più difficile la difesa contro le inadempienze del soggetto attivo della clausola; ma, in sè e per sè considerata, è indubitabile che tale patto costituisce un mezzo singolarmente efficace per tutelare il creditore contro i cavilli del debitore, il quale, accumulando pretesti su pretesti, ben spesso cerca solo di sfuggire alla osservanza dei suoi obblighi.

D'altronde, con la clausola del «s. et. r.» non si vuole già, ad es., obbligare il compratore a pagare il prezzo (in modo definitivo) nonostante il cattivo adempimento del venditore, bensì semplicemente rinviare ogni discussione sull'esattezza o meno di detto adempimento fino a dopo il pagamento del prezzo. Di conseguenza, non sarebbe da considerarsi lecita una clausola che avesse per risultato di esimere uno dei contraenti dall'adempimento anche di una soltanto delle sue obbligazioni, mantenendo invece le obbligazioni dell'altro: ciò sarebbe contrario allo stesso concetto di contratto sinallagmatico.

Ora, se l'efficacia della clausola consiste semplicemente in questo che il soggetto passivo di essa deve, per intanto, adempiere, salvo far valere successivamente, e in separata sede, i suoi diritti dipendenti dal comportamento della controparte, ciò praticamente significa che quel soggetto, in forza della clausola, dovrà istituire apposito giudizio, ossia far valere quei diritti in via di azione, anziché in via di eccezione nello stesso giudizio nel quale è convenuto.

La funzione del «solve et repete» può così riassumersi: subordinare il rilievo indiretto della causa all' adempimento da parte del soggetto passivo della clausola stessa.

Anche questa è una forma di autotutela, perfettamente lecita, che può farsi rientrare nell'ambito dell'autonomia contrattuale ex art. 1322: infatti [eccezione fatta per il caso in cui si volesse dalle parti contraenti eliminare il rapporto di corrispettività teleologica tra gli arricchimenti, essendo un tale rapporto quello che determina la figura del contratto sinallagmatico e quindi inseparabile da esso, il rilievo indiretto della causa, a differenza di quello genetico, non è un rilievo sempre necessario: come si è visto, qui la causa non è più da considerarsi come elemento costitutivo del negozio, avendo già essa, come tale, esaurita la sua funzione. Per convincersi di questa affermazione, basta pensare alla derogabilità del principio «casum sentit debitor» sancito nell’art. 1463.

Vedremo subito quale importanza abbia questa precisazione della funzione del solve et repete sul problema dei limiti della sua applicazione, nonché sulla costruzione giuridica dell'istituto.


Limiti di applicazione

Quali sono i mezzi di difesa che possono costituire l'oggetto del solve et repete, nel senso che il soggetto passivo di esso si deve ritenere tenuto a non opporre al soggetto attivo, prima del proprio adempimento?

Una prima distinzione qui s'impone: ed è quella tra «obiezioni» e «eccezioni in senso tecnico», intendendo per obiezioni le difese fondate su fatti rilevabili d'ufficio dal giudice [così, ad es., la nullità del contratto (1421), l'estinzione del rapporto per sopravvenuta impossi­bilità (1463)]; e per eccezioni le difese per le quali è necessaria l'istanza della parte interessata.

Ora, quanto alle obiezioni, esse non possono formare oggetto del solve et repete e quindi possono sempre essere fatte valere nonostante la presenza di tale clausola: infatti, le obiezioni sono necessariamente sottratte alla disponibilità delle parti e non possono quindi farsi rientrare nel campo dell’autonomia contrattuale ex art. 1322. Quanto alle eccezioni, occorre distinguere tra quelle di diritto sostanziale e quelle di diritto processuale: queste ultime (es., eccezione di incompetenza per territorio, eccezione di litispendenza, ecc.) non possono essere comprese nella clausola del solve et repete, in quanto pure esse sono da ritenere indisponibili, essendo indisponibili i diritti processuali in generale, a cagione del carattere pubblicistico proprio del diritto processuale.

Non essendo invece sottratte alla disposizione dei privati, le eccezioni sostanziali possono, in linea generale, essere oggetto della clausola del s. et. r.: qui l'autonomia contrattuale delle parti non subisce altro limite che quello generale della buona fede ex articoli 1337, 1366, 1375.

Occorre qui dire brevemente di queste eccezioni sostanziali.

Sono eccezioni di diritto sostanziale quei poteri spettanti al soggetto passivo di rapporti giuridici materiali e rivolti, a scopo di difesa, ad impugnare il diritto del soggetto attivo di essi. Prendono il nome di eccezioni in virtù della forma in cui normalmente esse vengono esercitati: normalmente, ma non necessariamente in quanto essi possono essere esercitati anche in via di azione, nonché in via stragiudiziale. Pertanto, l'appartenenza di un potere d'impugnativa al diritto sostanziale ovvero al diritto processuale va giudicata dalla natura sostanziale o processuale degli effetti che quel potere è diretto a produrre, restando indifferente il fatto che quel potere si eserciti nel processo oppure fuori di esso.

Tutte le eccezioni sostanziali possono essere oggetto della clausola « solve et repete»? No certo. La difficoltà più notevole consiste nel determinare quali sono le eccezioni che devono ritenersi escluse dalla stessa.

Pare che, tenendo ben presente:
a) la funzione della clausola,
b) l'esclusione testuale, fatta dal legislatore, delle eccezioni di nullità, annullabilità e rescissione;
c) che la clausola è chiamata ad operare solo nei contratti con attribuzioni corrispettive;
d) che l'art. 1462 parla di eccezioni dirette ad «evitare o ritardare la prestazione dovuta»,
due punti si possono affermare con sicurezza, e cioè:

I) che oggetto della clausola «s. et r. » non possono essere quelle eccezioni che sono una conseguenza diretta e necessaria di quel rapporto di corrispettività teleologica tra gli arricchimenti che costituisce la caratteristica insopprimibile di ogni contratto sinallagmatico: rientrano in questa categoria di eccezioni tutte quelle difese con cui il convenuto eccepisca di non dovere la prestazione, o perché l'obbligazione della controparte è venuta meno [es. per sopravvenuta impossibilità fortuita della prestazione (1463)], o perché la propria obbligazione è già estinta (es. per prescrizione, remissione, ecc.).

E’ evidente che, se il convenuto non potesse, in forza del solve et re­pete, opporre dette eccezioni ciò equivarrebbe a togliere al contratto sinallagmatico la sua caratteristica insopprimibile, la quale è data appunto dal rapporto di corrispettività teleologica tra gli arricchimenti: ora, se è da ritenersi che alle parti è interdetto di fare ciò, in quanto tale possibilità non rientra in quella autonomia contrattuale di cui all'art. 1322, si deve concludere che le suddette eccezioni possono essere opposte, nonostante il patto del solve et repete. E nei lavori preparatori è detto chiaramente che «la clausola può essere legittima solamente quando subordina all'adempimento di una delle parti l’esercizio dei diritti derivanti dall'inadempienza dell'altro contraente»: il che significa che le due obbligazioni corrispettive devono essere entrambe in vita. Si aggiunga che lo stesso art. 1462 parla di «clausola con cui si stabilisce che una delle parti non può opporre eccezioni al fine di evitare o di ritardare la prestazione dovuta»: è evidente che in tutti i casi in cui l’obbligazione del soggetto passivo del s. et r. è già estinta, si è fuori dell'applicabilità della clausola, perché in detti casi la prestazione.... non è più dovuta. D'altronde, come si potrebbe dire al convenuto che, ad es., oppone l'estinzione della propria obbligazione per impossibilità fortuita sopravvenuta della prestazione (1256): tu non puoi far valere l'evento di forza maggiore come causa di estinzione del tuo obbligo senza prima .... aver adempiuto?

II) che, per esclusione, possono considerarsi oggetto del «solve et repete» le seguenti difese:
α) la risoluzione per inadempimento,
β) l'exceptio non adimpleti contractus o non rite adimpleti contractus,
?) la sospensione della prestazione ex art. 1461,
δ) la risoluzione per eccessiva onerosità, nel (solo) caso di contratto ad esecuzione differita,
?) il diritto di ritenzione.

Il capoverso dell'art. 1462 allude poi ad un presupposto generico per l'applicazione del solve et repete e cioè: non dev'essere imputabile al creditore che si serve di tale clausola la mala fede, perché il diritto non può prestare i suoi mezzi a tutela di situazioni immorali (inter bonos, bene agere oportet). Si deve anche qui fare riferimento alla c. d. buona fede oggettiva, cioè a quel comportamento informato a onesta rettitudine e diligenza che è doveroso per ogni contraente nei singoli rapporti contrattuali (1337, 1366, 1375). Quando, pertanto, consti la mancanza di detto comportamento nel soggetto attivo della clausola, oppure quando l'eccezione di dolo, opposta dal convenuto, risulti seria ed attendibile e le circostanze del caso concreto consiglino l'esperimento di una prova, il giudice rifiuterà di dare applicazione al solve et repete, oppure sospenderà la condanna, imponendo, se del caso, una cauzione.


Costruzione giuridica

Con il patto del solve et repete si ha che il soggetto passivo:

a) rinunzia a date eccezioni di diritto sostanziale, e cioè: alla risoluzione del contratto re adhuc integra; all' «exceptio non adimpleti contractus», alla sospensione della prestazione per peggioramento delle condizioni economiche della controparte, alla ritenzione.

Qui si deve parlare, senz'altro, di rinunzia, perché dette eccezioni, non potendo farsi valere che prima del proprio adempimento, Verificandosi questo, vengono meno senz'altro. Si tratta infatti di eccezioni che non hanno altra funzione che quella di contrastare la domanda (di adempimento) dell'attore, per cui, venuta meno una tale funzione, quelle eccezioni perdono ogni loro ragione di essere.

A questo proposito, viene ancora fatto di osservare che, in linea di principio, si discute in dottrina, se l'adempiente, effettuata la prestazione possa ripeterla per riparare al mancato esercizio della exceptio non adimpleti contractus, del potere di risoluzione, ecc., e al solo fine di riacquistare la posizione di equilibrio tra i contraenti, perduta con l'adempimento: ora, nel caso del solve et repete, bisogna dire che, se non ha da ammettersi, in linea di principio, tale ripetizione, nulla quaestio; se invece essa deve ammettersi, dovrà ritenersi che, con la clausola del s. et. r., tale ripetizione diventa impossibile, e che la funzione del patto è appunto quella di eliminare la normale posizione di equilibrio tra le parti contraenti nella fase di esecuzione dei loro rapporti contrattuali;

b) si obbliga a non servirsi, prima di avere adempiuta la propria obbligazione, di date altre eccezioni e cioè: dell'«exceptio non rite adimpleti contractus», della risoluzione per inadempimento, della risoluzione per eccessiva onerosità (trattandosi di contratto ad esecuzione differita). Effetto della clausola del solve et repete non è qui la rinunzia a detti mezzi di difesa, ma soltanto la subordinazione del loro esercizio alla previa esecuzione della propria prestazione: soddisfatto questo presupposto, l’esercizio di tali mezzi è pienamente efficace.

Se è così, il patto del solve et repete va così costruito: esso è ad un tempo:

I) un negozio vero e proprio di rinunzia al potere di risoluzione re adhuc integra, all'exceptio n. a. c., alla sospensione della prestazione ex art. 1461, al potere di ritenzione;

II) un negozio con il quale si sottopone a condizione sospensiva l'esercizio dell'exceptio n. v. a. c., del potere di risoluzione per inadempimento, nonché del potere di risoluzione per eccessiva onerosità nei contratti ad esecuzione differita: qui, il verificarsi della condizione è data dalla esecuzione della prestazione da parte del soggetto passivo della clausola.

A me pare che questa mia costruzione possa dirsi pienamente aderente alla funzione del solve et repete.


Alcune conseguenze che derivano dall'esposta costruzione del « solve et repete»

Con questa costruzione si evita l'obbiezione del Liebman, secondo il quale, al convenuto (condannato per non avere potuto, a causa del solve et repete, fare valere alcune eccezioni che a lui sarebbero spettate) non sarebbe possibile valersi di quelle eccezioni neppure dopo l'aver eseguito la sua prestazione: alla proposizione di quelle eccezioni si opporrebbe la cosa giudicata derivante dalla sentenza di condanna. La cosa giudicata non pregiudica affatto i poteri che potranno essere fatti valere dal convenuto dopo l'esecuzione della prestazione, per il semplice motivo che si tratta di poteri di cui il giudice si era limitato a non ammetterne l'esercizio perché non ancora attuali (in quanto sottoposti alla condizione sospensiva dell'adempimento) e sui quali quindi non è stata emessa alcuna pronunzia di merito: verificatasi la condizione, e solo allora, l’esperibilità di quei poteri diventa attuale.

Siccome il soggetto passivo del solve et repete ha rinunziato all'exceptio n. a. c. e il suo potere di risoluzione per inadempimento non può da lui essere esercitato perché non ancora attuale, ne deriva che esso è senz'altro tenuto ad adempiere la prestazione promessa: di conseguenza deve essere risolto affermativamente i1 problema se la non osservanza del solve et repete possa essere invocata come causa di risoluzione del contratto a carico del soggetto passivo della clausola stessa. L'inosservanza del solve et repete costituisce vero e proprio inadempimento ingiustificato dell'obbligazione contrattuale in quanto il debitore era senz'altro tenuto ad adempierla senza poter opporre l'exceptio n.. a. c. Pertanto deve dirsi che detta inadempienza può dar luogo alla risoluzione del contratto, ovvero anche all'adempimento forzato (se possibile).


Applicabilità al patto del «solve et repete» degli articoli 1341, 1342

Si ricorda da ultimo che sono da applicarsi al patto del solve et repete i disposti degli articoli 1341, 1342.

Relazione al Libro delle Obbligazioni

(Relazione del Guardasigilli al Progetto Ministeriale - Libro delle Obbligazioni 1941)

240 La clausola del solve et repete (art. 260) non deve operare quando il contratto si impugna perché nullo o annullabile. Essa presuppone, come primo requisito della sua validità, precisamente un contratto valido, nel quale metta radici la sua esistenza, senza di che il rapporto assumerebbe un carattere di astrattezza, e la clausola agirebbe contro l'ordinamento giuridico, che, di regola, poggia i contratti sul presupposto della causa.
La clausola deve, perciò, operare sul solo terreno dell'adempimento; può cioè, essere legittima solamente quando subordina all'adempimento di una delle parti l'esercizio dei diritti derivanti dall'inadempienza dell'altro contraente. La giurisprudenza ha riconosciuto in questi limiti la validità del patto, superando la divisione della dottrina: tale validità non pregiudica mai la corrispettività del rapporto, perché ne regola soltanto gli atteggiamenti temporali, e non è nemmeno contraria ai principi dall'ordinamento fascista. L'assunto di tale contrarietà, autorevolmente sostenuto, non considera che l'autotutela privata non usurpa l'autorità dello Stato quando non si sottrae al controllo del giudice. La legge preordina sempre questo controllo ogni qualvolta dà al creditore il potere di realizzare direttamente la propria pretesa; e peraltro la predisposizione di mezzi di difesa così energici contro le eccezioni di mala fede aderisce al principio di tutela del credito, che il nuovo codice deve tenere presente come presupposto di uno sviluppo ordinato della produzione.
L'art. 260, del resto, reca nel suo capoverso notevoli limitazioni all'opponibilità del patto. Esso non deve applicarsi dal giudice quando la parte, avvalendosene, offende il principio della buona fede che deve dominare la condotta di entrambi i contraenti nella esecuzione dei contratti: così non deve ammetterne l'effetto né quando si chiede la prestazione in stato di insolvenza, né se l'inadempimento della parte che lo invoca è stato eliminato. Ancora una volta si potenziano i poteri del giudice, chiamandolo a fare una ricerca penetrante, per ristabilire la lealtà contrattuale turbata dall'azione di una delle parti.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

662 La sospensione della prestazione è considerata legittima quando è conforme a buona fede (art. 1460 del c.c. e art. 1461 del c.c.; cfr. anche art. 1565 del c.c.); così se la prestazione non adempiuta è di lieve importanza, l'inadempimento di una parte non può invocarsi dall'altra per giustificare il proprio. Anche quando talvolta la legge consente la sospensione di fronte ad una inadempienza di lieve entità (art. 1565), la deviazione dal principio generale di proporzione è soltanto apparente, perché si pone in tal caso l'obbligo di preannunziare la sospensione della propria prestazione; in modo che l'insistere nell'inadempimento, nella specifica ipotesi legale, converte in grave ciò che grave di per sé non sarebbe. È da notare il ristretto ambito entro cui funziona la clausola del solve et repete (art. 1462 del c.c.). Essa non impedisce di opporre le eccezioni di nullità, di annullabilità o di rescindibilità del contratto, perché tali impugnative investono l'efficacia stessa della clausola, che non può esplicare validamente la sua funzione prescindendo dalla valida esistenza del contratto che la contiene, e quindi in contrasto con ogni principio di buona fede. Nell'ipotesi poi in cui ha pieno effetto, la clausola non deve servire a preordinare un'autotutela quando motivi gravi inducono a ritenere che ciò sia esorbitante. Il giudice, delibando l'eccezione, può constatare che essa presenta elementi di fondatezza, che vi sia addirittura già una prova semipiena o che sia possibile una pronta indagine sull'eccezione in tal caso, se si ammettesse una pronunzia sulla domanda, che non tenga conto delle eccezioni, si rivestirebbe il contratto di una forza giuridica superiore a quella che ha il titolo cambiario, contro il quale, non ostante il tradizionale rigore della relativa materia, sono opponibili le eccezioni personali di non lunga indagine (art. 65, secondo comma, legge cambiaria). Perciò l'art. 1462 consente che il giudice, anche di fronte alla clausola del solve et repete, possa rinviare la pronunzia sulla domanda quando esistono gravi motivi che giustificano una sospensione della condanna; salvo, a somiglianza di quanto dispone la legge cambiaria, il potere di imporre al debitore, se del caso, un cauzione.

Massime relative all'art. 1462 Codice Civile

Cass. civ. n. 4446/2008

In tema di fideiussione, la cosiddetta clausola solve et repete inserita nel contratto con formule del tipo «senza riserva alcuna» ovvero «dietro semplice richiesta» ove prevedente l'esclusione per il garante di poter opporre al creditore principale eccezioni che attengono alla validità del contratto da cui deriva l'obbligazione principale, è pienamente valida e non è priva di efficacia ai sensi dell'art. 1462 c.c. in quanto costituisce manifestazione di autonomia contrattuale, non altera i connotati tipici della fideiussione e non comprende il divieto di sollevare eccezioni attinenti alla validità dello stesso contratto di garanzia.

Cass. civ. n. 2227/1995

La disciplina del solve et repete (art. 1462 c.c.), se ha indubbie conseguenze nel campo del processo, ha, però, un contenuto fondamentale di diritto sostanziale, come è reso manifesto non solo dalla collocazione della norma nel codice civile, ma soprattutto dagli interessi che essa tutela (assicurare al creditore il soddisfacimento della sua pretesa, senza il ritardo imposto dall'esame delle eccezioni del debitore). Il preventivo adempimento non può essere perciò considerato come un presupposto processuale, la cui mancanza impedisca l'instaurazione di un regolare rapporto processuale e non possa essere rimossa nel corso del processo stesso. La clausola limitativa di cui all'art. 1462 c.c., pertanto, è destinata ad operare solo sul piano dell'adempimento, cosicché non può rinvenirsi alcun ostacolo all'esame dell'eccezione o della domanda riconvenzionale, quando, sia pure in corso di giudizio (nella specie nel corso dell'opposizione a decreto ingiuntivo proposta dal debitore), sia avvenuto il soddisfacimento della prestazione.

Cass. civ. n. 759/1994

La clausola limitativa della proponibilità di eccezioni, di cui all'art. 1462 c.c., si differenzia dall'istituto del solve et repete in materia fiscale (oggetto della dichiarazione di incostituzionalità di cui alla sentenza Corte cost. 31 marzo 1961, n. 21) perché ha la sua fonte in un contratto liberamente stipulato (art. 1322 c.c.) e non costituisce ostacolo all'instaurarsi del rapporto processuale, avendo soltanto l'effetto di consentire la pronta soddisfazione della pretesa creditoria della controparte, senza far luogo all'esame dell'eccezione del debitore, le cui ragioni possono essere fatte valere anche nello stesso giudizio dopo l'adempimento salvo il potere del giudice, a norma dell'art. 1462 comma secondo, di sospendere la condanna, ove ricorrano gravi motivi, imponendo se del caso una cauzione.

Cass. civ. n. 11284/1993

La clausola solve et repete non può essere invocata dal contraente a cui favore è stabilita, quando questi chieda la risoluzione del contratto.

Cass. civ. n. 4122/1982

L'eccezione d'inadempimento ex art. 1460 c.c., quando è fondata, impedisce l'operatività della clausola risolutiva espressa di cui al precedente art. 1456, in quanto tale clausola non è limitativa della proponibilità di eccezioni (art. 1462 c.c.), ma attuativa di un diritto potestativo di risoluzione immediata del rapporto negoziale, con effetti retroattivi, nel caso di comportamento della controparte costituente inadempimento in senso tecnico, mentre l'eccezione suindicata postula requisiti (prontezza all'adempimento e giustificazione della sospensione provvisoria del medesimo con la mancanza di sincronicità di quello corrispettivo) escludenti nel comportamento dell'eccipiente la situazione d'inadempimento.

Cass. civ. n. 6406/1981

La clausola solve et repete, di cui all'art. 1462 c.c., volta soprattutto a garantire da eccezioni dilatorie il contraente tenuto per primo ad adempiere, non ha un'efficacia tale da paralizzare in toto l'exceptio inadimpleti contractus, bensì resta correlata all'ambito di operatività della exceptio non rite adimpleti contractus, sicché essa non incide sulla possibilità di far valere la mancata esecuzione, totale o parziale, della controprestazione, ma impedisce di opporre solo l'inesatto adempimento, con la conseguente riserva di ogni questione relativa ad una fase successiva alla solutio, salva la ricorrenza di gravi motivi idonei a determinare la sospensione della condanna, ai sensi del secondo comma dell'art. 1462 citato.

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