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Articolo 2252 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 10/10/2025]

Modificazioni del contratto sociale

Dispositivo dell'art. 2252 Codice Civile

Il contratto sociale può essere modificato soltanto con il consenso di tutti i soci, se non è convenuto diversamente [2259, 2272 n. 3, 2300].

Ratio Legis

Conformemente al principio consensualistico che informa la disciplina dei contratti, la norma dispone che il contratto di società possa essere modificato con il consenso di tutti i soci, salvo diversa previsione di segno contrario inserita nello stesso contratto. La disposizione, peraltro, contribuisce a far risaltare l'elemento personalistico che contraddistingue le società di persone.



Spiegazione dell'art. 2252 Codice Civile

L'articolo in esame richiede l'unanimità dei consensi dei soci per le modifiche del contratto sociale, in conformità al carattere personale della società. Tali modifiche possono essere oggettive o soggettive: le prime riguardano le clausole che regolano la vita della società; le seconde riguardano i mutamenti della compagine sociale. Di conseguenza, il consenso unanime riguarda normalmente anche l'ingresso di nuovi soci.

Per alcune modificazioni dell’atto costitutivo, tuttavia, è la legge stessa a disporre l’impiego del criterio maggioritario (ad esempio, per la decisione riguardante il compimento di operazioni straordinarie, salvo diversa previsione del contratto sociale).

L'articolo in commento, secondo una tesi, permetterebbe di colmare il vuoto normativo in merito ai criteri di assunzione delle decisioni nelle società di persone. In particolare, la norma esprimerebbe il principio secondo cui le decisioni capaci di intaccare le basi organizzative, legali o convenzionali della società andrebbero assunte all’unanimità, mentre il criterio della maggioranza dovrebbe guidare l'assunzione della decisioni afferenti alla gestione dell'impresa.

Per quanto concerne le modificazioni dell’atto costitutivo, la medesima disposizione fa peraltro salva in ogni caso la diversa volontà dei soci espressa nel contratto sociale. Ciò ha portato tuttavia la dottrina e la giurisprudenza a interrogarsi sull’ampiezza e sul grado di derogabilità della norma, dal momento che secondo parte degli interpreti la maggioranza non sarebbe comunque abilitata a modificare le clausole dell’atto costitutivo che vadano a delineare la complessiva posizione del socio all'interno della compagine sociale (è l’esempio dell’accomandante che venga "retrocesso" ad accomandatario, o viceversa).

Incerte sono inoltre le modalità in base alle quali le decisioni devono essere assunte, sebbene l’orientamento prevalente sembri negare la necessità di adottare il metodo assembleare.

Nelle ipotesi in cui la legge o l’atto costitutivo prevedano la regola di maggioranza, i soci dissenzienti possono azionare i rimedi di cui all’art. 2377, disposizione ritenuta applicabile in via analogica anche alle società di persone.

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Consulenze legali
relative all'articolo 2252 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

L. G. chiede
lunedì 10/11/2025
“Buongiorno volevo sapere se in una società semplice che prevede che anche gli articoli dello statuto possano essere modificati a maggioranza (l’art dice le assemblee deliberano sempre anche in caso di modifica dei patti sociali, con la presenza ed il consenso del 51% del capitale sociale) anche un articolo come il seguente possa essere modificato a maggioranza e non con l’unanimita’ . Inizialmente l’articolo diceva:
Le somme versate verranno accreditate in apposito fondo bloccato per finanziamento in conto aumento di capitale e si intenderanno vincolate per tutta la durata della società…”

E la modifica dice :

“Le somme così versate verranno contabilizzate in apposito fondo per finanziamento in conto futuro aumento di capitale e potranno anche essere utilizzate, su delibera dell’assemblea, per aumento del capitale sociale.

Tra l’altro la camera di commercio si rifiuta di approvare le modifiche dello statuto se non confermate da un notaio (secondo uno dei soci perché lo statuto originario era accertato da notaio)

Posso oppormi ad accettare la ratifica del notaio per questo articolo per cui sono l’unico tra tre soci a non essere d’accordo sulla modifica? Nel caso di lavori straordinari su immobili della stessa società posso oppormi se non sono d’accordo su alcuni aspetti tecnici e finanziari di tali lavori?

Infine posso chiedere che il finanziamento dei lavori sia riconosciuto come aumento di valore degli stessi rispetto a quanto calcolato di recente da una perizia?

Saluti”
Consulenza legale i 19/11/2025
L’art. 2252 del c.c. dispone che il contratto sociale possa essere modificato esclusivamente con il consenso di tutti i soci, salvo che non sia convenuto diversamente.
L’atto costitutivo, all’art. 13, disciplina proprio tale aspetto, imponendo una maggioranza del 51% del capitale sociale, tanto di presenza, quanto di consenso, per la modifica dei patti sociali.

L’art. 6 dell’atto costitutivo, nella versione originaria, aveva la seguente formulazione: “Per il fabbisogno finanziario della società, i soci, salvo diversi accordi, potranno prevedere tanto disgiuntamente quanto congiuntamente tra loro, proporzionalmente alle rispettive quote di capitale possedute, od anche entro i limiti suddetti, mediante versamenti nelle casse sociali. Sulle somme così versate non sarà corrisposto alcun interesse. Esse verranno accreditate in apposito fondo bloccato per finanziamento in acconto aumento di capitale e si intenderanno vincolate per tutta la durata della società, seguendo lo stesso comportamento delle quote di capitale a tutti gli effetti”.

In linea generale, possono definirsi versamenti in conto futuro aumento di capitale quelle dazioni di denaro effettuate dai soci in favore della società, che non siano acquisite definitivamente al patrimonio sociale, avendo uno specifico vincolo di destinazione.
A tale vincolo consegue, nel caso in cui l’aumento di capitale non dovesse perfezionarsi, che il socio avrebbe diritto alla restituzione di quanto versato; ciò non vale nel caso esposto, poiché è lo stesso atto costitutivo che ne esclude la possibilità di ripetizione e prolunga il vincolo per tutta la durata della società.

Al contrario, la nuova formulazione, così come rappresentata, introduce alcune modifiche essenziali: in primo luogo sostituisce “potranno” con “dovranno”, istituendo un obbligo di versamento (proporzionale alle quote possedute) in caso di fabbisogno finanziario della società; in secondo luogo, esplicita la possibilità di utilizzare detti versamenti per un aumento di capitale, previa delibera assembleare.
Anche detta delibera dovrà essere assunta con la maggioranza del 51% del capitale sociale, tanto di presenza, quanto di consenso.

Per quanto concerne il rifiuto della Camera di Commercio di registrare le modifiche statutarie, ciò appare corretto, poiché le modifiche statutarie in una società di persone devono essere assunte mediante atto pubblico, pertanto tramite l’intervento di un Notaio.
A tal fine, sarà necessaria un’apposita delibera assembleare, nella quale la modifica venga approvata con le maggioranze disposte dalla legge o dall’atto costitutivo.

Il sistema delle maggioranze adottato e convenuto in sede di costituzione della società, che prevede il consenso del 51% del capitale sociale anche per le modifiche dell’atto costitutivo, non consente azioni di rilievo in capo ai soci di minoranza dissenzienti; detta disposizione, infatti, è stata approvata all’unanimità proprio alla costituzione, pertanto da tutti i soci.
Soltanto eventuali vizi della delibera stessa possono inficiarne l’efficacia, mediante apposita impugnazione; tuttavia, non sono state rappresentate circostanze significative in tal senso.

Di certo, il socio di minoranza ha la facoltà di pretendere una relazione specifica e dettagliata sui lavori da svolgere e sull’impegno finanziario imposto; ciò anche al fine di valutare le effettive esigenze finanziarie della società e la reale necessità dei lavori da svolgere.
Al contempo, potrà richiedere che i lavori in discussione vengano svolti a regola d’arte e che la società non ne risulti danneggiata, nonché che le sue osservazioni vengano messe a verbale.
La decisione definitiva, in ogni caso, tanto sulla modifica dei patti sociali, quanto sull’esecuzione dei lavori di ristrutturazione e, in ogni caso, sulla deliberazione di un aumento di capitale, spetta alla maggioranza.

La questione di maggiore rilevanza risiede proprio nella modifica dell’atto costitutivo che introduce l’obbligo di versamenti in conto aumento di capitale in caso di fabbisogno finanziario della società.
Mediante tale clausola, anche il socio di minoranza sarà obbligato a versare quanto la società necessita, proporzionalmente alla quota posseduta (mentre prima l’atto costitutivo ne prevedeva la possibilità).
Oltretutto, visti i lavori da svolgere, sembra potersi affermare che la ristrutturazione deliberata sia necessaria, tanto da un punto di vista strutturale, quanto per il mantenimento del valore dell’immobile stesso; non risultano lavori superflui o di eccessivo pregio od onerosità, tali per cui potrebbe mettersi in discussione l’opportunità stessa delle opere e, di conseguenza, la presenza di un eventuale danno economico da ciò derivante alla società.

L’unica alternativa che rimane in capo al socio di minoranza è il recesso dalla società.
L’art. 2285 del c.c. prevede che ogni socio possa recedere dalla società: quando questa è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci; nei casi previsti nel contratto sociale; oppure quando sussiste una giusta causa.

I criteri al verificarsi dei quali si ritiene integrata una giusta causa di recesso sono individuati dalla giurisprudenza in modo molto restrittivo, potendosi identificare la giusta causa nella legittima reazione ad un comportamento scorretto di altri soci, tale da rendere obiettivamente difficile la prosecuzione del rapporto e da incrinare la fiducia del socio; non è sufficiente un semplice disaccordo o un motivo pretestuoso di dissenso, ma è necessario che vengano perpetrate violazioni di obblighi contrattuali o di doveri di fedeltà, lealtà, diligenza o di correttezza che incidono sulla natura fiduciaria del rapporto.
Sorvolando sulla valutazione della sussistenza della giusta causa di recesso, considerando la durata della società (fino al 2050) e l’età dei soci, potrà intentarsi la via del recesso con preavviso di cui all’art. 2285, comma 1, del c.c., poiché la società è contratta per tutta la vita del socio eventualmente recedente.
Esercitato il diritto di recesso, il socio recedente avrà diritto alla liquidazione della propria quota sulla base della situazione patrimoniale della società aggiornata al momento del recesso, come disposto dall’art. 2289 del c.c..

Infine, circa la possibilità di riconoscere il finanziamento dei lavori come aumento del valore degli immobili, si tratta di una questione contabile, che dipenderà dall’effettivo aumento di valore apportato, eventualmente valutato tramite apposita perizia; in seguito, ciò dovrà essere riportato nelle apposite scritture contabili.


Anonimo chiede
giovedì 21/02/2019 - Sicilia
“Società in nome collettivo con tre soci. Uno dei soci decide di trasferire al figlio parte delle proprie quote, per donazione, senza interpellare gli altri soci, in forza della seguente clausola nello statuto:
“In caso di trasferimento totale o parziale di quote da parte di uno dei soci, gli altri soci avranno diritto di prelazione; non si farà luogo all’esercizio di prelazione nel caso in cui il trasferimento della quota avvenga a favore di parente in linea retta del cedente.”
Quesito
La predetta clausola consente in automatico l’inserimento del donatario nella compagine societaria?
Non è necessario l’unanime parere degli altri soci (intuitus personae)?
La suddetta clausola, oltre a regolare il diritto di prelazione, costituisce una clausola di gradimento?
Con il solo atto di donazione, è possibile ottenere la modifica della compagine societaria presso la camera di commercio?
In conclusione, nel caso esposto, non è necessario un atto ricognitivo con la partecipazione di tutti i soci che prestino il loro consenso?”
Consulenza legale i 23/03/2019
Ai sensi dell' art. 2252 del c.c. ogni modificazione del contratto sociale, compresa la cessione della quota, necessita del consenso di tutti i soci, salvo venga diversamente previsto. La regola è, quindi, la unanimità dei consensi ma non è una regola che non ammette eccezioni: le parti, infatti, possono anche decidere in modo diverso, come è accaduto nel caso sottoposto al nostro esame.
Più precisamente, qualora lo statuto preveda modalità differenti, come nel caso di specie, la cessione delle quota è valida ed efficacie ed opponibile alla società anche a prescindere dall'unanimità della deliberazione dell'assemblea dei soci (Cfr. Trib. Milano,31.05.2001; Trib. Milano, 22.12.1989; Trib. Napoli, 24.04.1997).
Orbene, la clausola statutaria per cui “ Non si farà luogo all’esercizio del diritto di prelazione nel caso in cui il trasferimento della quota avvenga a favore di un parente in linea retta del cedente” implicitamente ammette la cedibilità della quota e comporta che la cessione in oggetto è valida sia inter partes che verso la società.
Con detta statuizione infatti i soci non solo rinunciano ad esercitare il loro diritto di prelazione, ma manifestano già il loro consenso alla cessione, dettandone addirittura le condizioni (cessione a favore di parente in linea retta del cedente).
Pertanto, considerato che la cessione è avvenuta dal socio verso il proprio figlio – parentela in linea retta - l’inserimento del donatario nella compagine societaria è automatico.
Detta pattuizione non costituisce nemmeno clausola di mero gradimento, in quanto vi è una precisa predeterminazione delle qualità soggettive (figlio di, nipote di) o delle specifiche situazioni oggettive alle quali è subordinata la concessione del gradimento.
Il gradimento è da ritenersi implicito. Diversamente sarebbe stato se la cessione fosse subordinata espressamente all'autorizzazione (gradimento) degli altri soci.
Infine, per ottenere la modifica della compagine societaria presso la camera di commercio è sufficiente il solo atto di donazione.
Difatti, la cessione di quote nelle società di persone è opponibile ai terzi con l’iscrizione dell’atto nel Registro Imprese, come previsto dal' [[2300 c.c.]], e tal fine è necessario che la stessa sia avvenuta almeno per scrittura privata autenticata (Cfr. Cass, 1.02.2006, n 2215; 03.01.1970, n 2). La donazione, peraltro, deve essere fatta necessariamente per atto pubblico notarile, atto ancora più idoneo alla iscrizione.

Gregorio C. chiede
sabato 08/10/2016 - Sicilia
“Un laboratorio di analisi cliniche SNC in forza del decreto assessoriale pubblicato in GU il 07-10-2016 deve aggregarsi con altro laboratorio per superare le cento mila prestazione annue.

I soci sono 5 con le seguenti quote proporzionali di possesso:
A 30% B 30% C 10% D 15% E 15%.
Si desidera sapere se A e B che rappresentano il 60% possono decidere con quale laboratorio aggregarsi.
Oppure C D E ( 3 persone di cui l'amministratore ) col 40% possonono decidere il laboratorio di aggregazione.
Si aggiunge che un articolo dell'atto costitutivo recita:
L'amministrazione ordinaria e la rappresentanza della società sono affidate sino a dimissione o revoca,quest'ultima deliberata dalla maggioranza dei soci, al dott. Anonimo il quale potrà compiere tutti gli atti di ordinaria amministrazione senza il preventivo consenso degli altri soci e quelli dell'amministrazione straordinaria con il preventivo consenso della maggioranza dei soci.
Inoltre si desidera sapere se l'amministratore può iniziare la burocrazia dell'aggregazione senza consultare i soci A e B.
In pratica come dovrebbe procedere in una SNC cosi composta la burocrazia tra i soci per ottemperare al citato decreto della regione ?”
Consulenza legale i 14/10/2016
Si tratta, in buona sostanza, di capire se i due soci che – per quote – detengono la maggioranza del capitale sociale, possano assumere autonomamente la decisione relativa all’aggregazione dei due laboratori, oppure se, in virtù di quanto scritto nell’atto costitutivo, possa farlo anche l’amministratore da solo.

La risposta dipende dalla riconducibilità della decisione in questione al novero di quelle di ordinaria o di straordinaria amministrazione.

Le norme del codice civile sulle società di persone tacciono sulla necessità della unanimità dei consensi, piuttosto che sulla sufficienza di una sola maggioranza, in ordine alle decisioni assunte dai soci che riguardino la vita sociale.
La dottrina e la giurisprudenza, a partire dall’analisi dell’art. 2252 c.c., per il quale “Il contratto sociale può essere modificato soltanto con il consenso di tutti i soci, se non è convenuto diversamente [2259, 2272 n. 3, 2300]”, nel tempo è giunta ad elaborare una regola, secondo la quale il discrimine è se la decisione riguardi la struttura organizzativa ovvero la gestione della società: la regola dell’unanimità è applicabile quando si tratti di decisione che tocchi le fondamenta organizzative della società, mentre la diversa regola della maggioranza è applicabile (anche a mente dell’articolo 2257) quando si tratta di decisioni che afferiscono alla mera gestione dell’impresa.
In tale ultima eventualità, secondo la opinione dei più autorevoli interpreti del diritto societario (Scialoja e Branca, Cottino, Ferri), la maggioranza normalmente si calcola per capi (teste) e non per quote: ciò si può ritenere per deduzione logica, dal momento che laddove il legislatore ha voluto, al contrario, che il calcolo avvenisse per quote l’ha precisato, come nell’ipotesi del 2257 c.c. sulle modalità dell’amministrazione disgiuntiva; tuttavia, va aggiunto – per completezza - che altri studiosi ritengono, al contrario, che proprio da quest’ultima norma possa desumersi la regola della maggioranza calcolata per quote qualora si tratti di decisioni e/o conflitti relativi all’amministrazione.

Purtroppo non esistono norme che contengano una regola chiara e definitiva a tal proposito: in questi casi, normalmente, ci si attiene agli orientamenti giurisprudenziali maggioritari, oppure ci si affida alla decisione dell’Autorità Giudiziaria.

Il quesito non chiarisce che forma abbia l’altro laboratorio cui si accenna, se s.n.c. o altra: pare ragionevole ritenere che si tratti comunque di società, probabilmente di persone anche nell’altro caso, con la conseguenza che allora, ad avviso di chi scrive – la decisione sull’”aggregazione” delle due società/laboratori rientrerebbe senza dubbio nei casi di straordinaria amministrazione: essa comporterebbe infatti delle modifiche nella struttura societaria (entrata di nuovi soggetti nella compagine sociale, solo per fare un esempio).
Di conseguenza, la decisione di cui si sta parlando dovrebbe essere adottata all’unanimità dei soci.

Quand’anche, tuttavia, si potesse decidere a maggioranza (quindi, in ogni caso, l’amministratore non potrebbe agire in autonomia - perchè trattasi di atto di straordinaria amministrazione - ma dovrebbe consultare la maggioranza dei soci) va tenuto presente che due soci su cinque non saranno sufficienti a formare la maggioranza richiesta.

Salvatore C. chiede
domenica 01/05/2016 - Sicilia
“Salve.Una SNC composta da 5 soci gestisce un laboratorio di analisi cliniche convenzionato con l 'ASP.
Un socio biologo esercita il ruolo di amministratore,direttore sanitario ed esegue esami clinici coadiuvato da tecnico non socio.
Tale socio viene remunerato mensilmente dopo emissione di fattura con ritenuta d'acconto pagata dalla società
Due soci che detengono il 60% del capitale sociale possono (causa crisi ) ridurre il pagamento mensile?
Inoltre questi 2 soci possono pretendere che il socio che svolge queste mansioni venga remunerato con una maggiorazione dei suoi utili?
Con quale modalità agire ?
Grazie e distinti saluti.

Consulenza legale i 06/05/2016
Per rispondere al quesito occorre valutare la possibilità, da parte di due soci di snc che detengano la maggioranza di capitale, di adottare decisioni vincolanti per la restante compagine sociale.

In questo caso, in particolare, si tratterebbe di decidere la riduzione del compenso del socio che riveste il ruolo di amministratore, anche se dal quesito non risulta chiaro se la somma di cui si sta parlando consista nella remunerazione del ruolo specifico di amministratore oppure se si tratti di compenso per le mansioni che svolge quale, ad esempio, socio d’opera.

In ogni caso, la dottrina e la giurisprudenza, a partire dall’analisi dell’art. 2252 del c.c., per il quale “Il contratto sociale può essere modificato soltanto con il consenso di tutti i soci, se non è convenuto diversamente [2259, 2272n. 3, 2300].”, nel tempo è giunta ad elaborare una regola, secondo la quale il discrimine è se la decisione riguardi la struttura organizzativa ovvero la gestione della società: la regola dell’unanimità è applicabile quando si tratti di decisione che tocchi la struttura/base organizzativa della società, mentre la diversa regola della maggioranza è applicabile (come nel caso specifico dell’art. 2257 del c.c. che si occupa dell’amministrazione disgiuntiva) quando si tratta di decisioni che afferiscono alla gestione dell’impresa, al suo funzionamento.

Nel caso di specie, la decisione sulla riduzione del compenso del socio amministratore sembrerebbe, quindi, dover essere presa a maggioranza, nonostante si tratti senza dubbio di un caso di modifica del contratto sociale, perché normalmente è quest’ultimo documento che contiene la determinazione del compenso dell’amministratore e la disciplina di eventuali rapporti di lavoro o di quello dei soci d’opera.

Come si diceva poc’anzi, se la regola generale è quella della modifica all’unanimità, tale regola può essere senz’altro derogata a favore del principio maggioritario. Va, tuttavia, precisato, che la maggioranza, nelle società di persone, secondo i più autorevoli interpreti del diritto societario (Scialoja e Branca, Cottino, Ferri), normalmente si calcola per capi (per teste) e non per quote: ciò si può ritenere per deduzione logica, dal momento che laddove il legislatore ha voluto, al contrario, che il calcolo avvenisse per quote l’ha precisato, come nell’ipotesi del 2257 c.c. sulle modalità dell’amministrazione disgiuntiva; tuttavia va aggiunto – per completezza - che altri studiosi ritengono, al contrario, che proprio da quest’ultima norma possa desumersi la regola della maggioranza calcolata per quote qualora si tratti di decisioni e/o conflitti relativi all’amministrazione. Purtroppo (o per fortuna, nel caso particolare in esame) non esistono norme che contengano una regola chiara e definitiva a tal proposito: in questi casi, normalmente, ci si attiene agli orientamenti giurisprudenziali maggioritari, oppure ci si affida alla decisione dell’Autorità Giudiziaria.

Nel caso concreto in esame, in definitiva, due soci su cinque non saranno sufficienti a formare la maggioranza richiesta; a meno che, si noti bene, l’atto costitutivo non preveda diversamente (occorrerebbe, quindi, visionare attentamente il contenuto di quest’ultimo documento per vedere se i fondatori abbiano previsto eventualmente regole diverse sulla formazione delle maggioranze).

Per quanto riguarda, invece, un’eventuale decisione relativa alla remunerazione dell’amministratore con una maggiorazione degli utili, va detto, in primo luogo, che anche quest’ultima costituisce, evidentemente, una modifica dell’atto costitutivo, poiché, per legge, anche la quota di utili spettante a ciascun socio e le modalità di ripartizione degli stessi sono informazioni contenute in quest’ultimo documento. Tuttavia, la ripartizione degli utili sociali è questione che attiene, ad avviso di chi scrive, più alla “struttura” interna della società che non al suo “funzionamento” e quindi, per ogni eventuale modifica in questo senso, sembrerebbe più corretta ed opportuna l’unanimità dei consensi.

Risolto il problema delle maggioranze necessarie, potranno poi essere assunte entrambe le decisioni ipotizzate nel quesito posto, ovvero sia l’aumento del compenso del socio amministratore che una sua remunerazione attraverso una maggior partecipazione agli utili (a tale ultimo proposito, infatti, normalmente viene pattuito a favore dell’amministratore uno speciale compenso, salvo patto contrario o nel senso di escludere totalmente quest’ultimo oppure nel senso di garantire all’amministratore in questione una posizione di particolare rilievo nella distribuzione degli utili).

Infine, relativamente alle concrete modalità con cui procedere, che le società di persone non possono dirsi, a rigore, connotate al proprio interno da un’articolazione organica, la quale è piuttosto propria delle società di capitali.

Con il termine “articolazione organica” si descrive l'organizzazione interna di una persona giuridica, nella quale in genere si distinguono un organo amministrativo, deputato alla manifestazione della volontà dell'ente all'esterno e un organo assembleare, che costituisce la base determinativa interna delle decisioni di maggior rilievo.

In effetti, il codice civile non contiene alcuna norma che consente di ritenere configurabile, all’interno delle società di persone, un’assemblea come organo deliberante permanente.
Pertanto la giurisprudenza sul punto appare orientata a ritenere che sia sufficiente, ai fini della formazione della volontà sociale, che il consenso dei soci si raccolga in via progressiva, anche separatamente, senza che si faccia ricorso alla convocazione ed alle formalità proprie di un’assemblea (Tribunale di Napoli, 07/10/1986; Cass. Civ. Sez. I, 1977/73). Ciò non esclude tuttavia che sia vietato ai soci fare ricorso al metodo assembleare (cfr. Cass. Civ. Sez. I, 8276/02).

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