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Articolo 11 Legge sui reati tributari

(D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74)

[Aggiornato al 06/11/2022]

Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte

Dispositivo dell'art. 11 Legge sui reati tributari

1. È punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Se l'ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni.

2. È punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei tributi e relativi accessori, indica nella documentazione presentata ai fini della procedura di transazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila. Se l'ammontare di cui al periodo precedente è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni.

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Consulenze legali
relative all'articolo 11 Legge sui reati tributari

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

L. R. chiede
mercoledì 17/05/2023
“Buonasera, ho un figlio minorenne.
Ho debiti verso l'agenzia dell'entrata per circa € 72 000,00 e verso l'INPS per circa €120 000,00.
A gennaio è morto mio padre lasciando una eredità di soli attivi: immobili e soldi. Se io dovessi rinunciare all'eredità , la mia rinuncia verrebbe considerata un atto in frode "per evitare che l'eredità venga aggredita dai creditori". Se si, quali sono le conseguenze penali.”
Consulenza legale i 21/05/2023
Nella richiesta di parere si fa riferimento al reato di cui all’art. 11 della legge sui reati tributari.

L’articolo in parola, come evidente, fa specifico riferimento a “atti fraudolenti”. Stando alla giurisprudenza, dunque, anche nell’ottica di attribuire un minimo connotato di offensività al reato in questione, il soggetto agente deve aver posto in essere una condotta frodatoria, insidiosa e concretamente idonea a indurre in errore l’Agenzia delle Entrate e a metterla in condizioni di esercitare le ordinarie operazioni di riscossione.

E’ davvero difficile pensare che la non accettazione dell’eredità, che rappresenta un diritto personalissimo dell’erede e di per sé neutro, possa assumere, per il sol fatto che impedisce all’AdE di soddisfarsi sui beni ereditandi, una connotazione fraudolenta rilevante ai fini del predetto articolo 11.

Il penale, comunque, non è l’unica circostanza da considerare.

Va considerato, infatti, che i creditori hanno a loro disposizione molteplici azioni per evitare che l’erede non accetti l’eredità.
Prima tra tutte la facoltà di cui all’ art. 524 del c.c..

M. M. chiede
domenica 11/09/2022 - Puglia
“Ho pendenze col fisco superiori a 50000 euro;
Vorrei donare ai miei figli la mia metà della casa di abitazione. Il commercialista sostiene che incorrerei nell’illecito penale si sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, anche se lascio in mia proprietà un’altro immobile il cui valore commerciale copre ampiamente il debito.
L’illecito scatterebbe d’ufficio indipendentemente dal valore patrimoniale posseduto;
D’altra parte ho intrapreso alcune rateizzazioni per pagare il debito.
Poiché per logica, non mi pare che le cose stiano come dice il commercialista, vorrei conoscere la giurisprudenza attuale al riguardo”
Consulenza legale i 14/09/2022
Il ragionamento del commercialista non è errato ma vanno fatte alcune precisazioni.

A rigore, la condotta del soggetto che aliena/dona un immobile su cui l’erario potrebbe soddisfare le sue pretese in via esecutiva a fronte di un debito superiore ai 50.000 euro, può integrare il reato di cui all’art. 11 della legge reati tributari.

Sussisterebbero, invero, tutti gli elementi costitutivi della fattispecie e, nello specifico:
- un debito con l’erario maturato antecedentemente all’atto di disposizione patrimoniale;
- il quantum superiore ai 50.000 euro;
- la condotta donativa. Si noti che, stando al sopra richiamato art. 11, ciò che viene punito è qualsivoglia atto simulato o condotta fraudolenta. Nell’accezione di condotta fraudolenta, secondo giurisprudenza costante, rientrano “tutti quei comportamenti che, quand'anche formalmente leciti, siano tuttavia connotati da elementi di inganno o di artificio, per essere in essi ravvisabile uno stratagemma tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali all'Erario o a renderne più difficoltosa la procedura di riscossione coattiva” (si veda, tra le altre, Cass. pen. Sez. III, 22/09/2021, n. 40067). In buona sostanza, la giurisprudenza maggioritaria tende a includere tra gli atti fraudolenti qualsiasi condotta che possa effettivamente danneggiare la pretesa erariale in sede esecutiva.

Vero è, pure, che si tratta di un reato procedibile d’ufficio e, pertanto, la notizia di reato verrebbe di certo trasmessa dall’Agenzia delle Entrate alla Procura competente.

Il problema, quindi, nel caso di specie, non è tanto l’astratta sussumibilità della condotta nel reato di sottrazione fraudolenta (questa è, come detto, abbastanza pacifica), ma la possibilità che il reato sia integrato anche se l’atto di disposizione patrimoniale non metta concretamente a repentaglio la pretesa erariale, essendoci altri immobili su cui l’AdE possa soddisfarsi.

Ora, tale ragionamento coinvolge, tuttavia, altri istituti del diritto penale e presenta una complessità giuridica notevole.

In primo luogo possiamo parlare del dolo.
La giurisprudenza maggioritaria (tra le altre Cass. pen. Sez. III, 14/09/2021, n. 37576) sostiene che “ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 11 del D.Lgs. n. 74/2000 si richiede esclusivamente che l'atto simulato di alienazione o gli altri atti fraudolenti sui beni siano idonei ad impedire il soddisfacimento totale o parziale del credito tributario, non essendo necessaria la sussistenza di una procedura di riscossione in atto; ne consegue che il reato è integrato, sotto il profilo soggettivo, dal dolo specifico, rappresentato dal fine di sottrarsi al pagamento del proprio debito tributario e, sotto il profilo materiale, da una condotta fraudolenta atta a vanificare l'esito dell'esecuzione tributaria coattiva”.

Il soggetto che sottrae un bene alla pretesa esecutiva dell’erario, dunque, deve agire con l’obiettivo specifico di ledere o rendere difficoltoso il soddisfacimento del tributo e questo fine potrebbe essere incompatibile col fatto che il soggetto agente sia consapevole che la pretesa tributaria possa essere tranquillamente soddisfatta in altro modo.

Si può, poi, parlare di offensività.
Senza entrare in questioni giuridiche complesse, possiamo dire che, ad oggi, il reato penale si configura quando la condotta lede in concreto l’interesse giuridico sotteso dalla fattispecie penale.
Nel caso dell’articolo 11 del d. lgs. 74/2000, l’interesse giuridico tutelato è quello di assicurare la pretesa erariale, evitando condotte che possano rappresentare un pericolo rispetto a tale soddisfacimento.

Stando così le cose, è ragionevole muovere qualche dubbio sull’offensività della condotta di chi, pur alienando un bene, conservi altre sostanze patrimoniali su cui l’Agenzia delle Entrate potrebbe soddisfarsi in modo comodo e agevole. Se così è, l’offensività della condotta può essere concretamente messa in dubbio.

Va, però, detto quanto segue.
I ragionamenti sopra esposti in tema di dolo e offensività sono validi, ma sono pur sempre subordinati ad una prova che non sempre è facile ottenere.
In buona sostanza, potrebbe essere tutt’altro che semplice, per il soggetto donante, provare che la donazione in esame non abbia avuto alcun riverbero sulla pretesa erariale.

Pertanto, prima di concludere la donazione, si sollecita una riflessione molto attenta, soprattutto per evitare di invischiarsi in un processo (che di certo nascerà) da cui si può uscire vittoriosi ma che, comunque, sarà estremamente faticoso, dispendioso e complesso da affrontare.

Andrebbe fatta una analisi precisa della fattispecie, verificando il complessivo valore patrimoniale detenuto e i redditi annuali.

Marcello C. chiede
sabato 05/10/2019 - Puglia
“Una cooperativa di produzione e lavoro (facchini) formata da 15 soci lavoratori dipendenti, operante all'interno del mercato generale della frutta, è ormai, a causa della crisi in uno stato di insolvenza che renderebbe legittimo il ricorso ad una procedura concorsuale oppure liquidazione coatta amministrativa. Il patrimonio è negativo azzerato dalle perdite accumulate negli ultimi anni, esiste una debitoria importante nei confronti dell'erario di circa 200.000 euro e una scomoda cassa contanti di circa 70.000 generatasi per il pagamento a nero di alcuni operai. La cooperativa non ha attivo essendo una attività che si avvale di sola forza lavoro e nessuna attrezzatura. La cooperativa si è retta negli ultimi anni omettendo di pagare imposte e contributi, privilegiando il pagamento degli operai. Il mancato pagamento delle imposte non ha superato i limiti previsti dal DPR 74/2000. Si chiede quale possono essere le conseguenza per il professionista contabile se dovesse consigliare alla società la liquidazione coatta della coop e contestualmente prevedere la creazione di una nuova cooperativa la cui amministrazione venisse affidata ad alcuni soci lavoratori non impegnati nella vecchia amministrazione. Il professionista potrebbe essere punito in astratto per tale attività, e soprattutto in considerazione della normativa antiriciclaggio per omissione segnalazione sospetta considerata che la condotta dell'azienda potrebbe essere censurata dall'art. 11 del DPR 74/2000. Si tenga presente che nell'attivo è solo presente la cassa contanti.”
Consulenza legale i 21/10/2019
L’art. 11 del D. Lgs. n. 74 del 10 marzo del 2000 (citato nel quesito) è rubricato “Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte”. La disposizione, infatti, individua le sanzioni di natura penale previste in ipotesi di sottrazione fraudolenta al pagamento del tributo, ossia in ipotesi in cui vengano alienati simulatamente o vengano compiuti altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila.
In tale ipotesi è prevista la reclusione da sei mesi a quattro anni; ovvero da un anno a sei anni se l’ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro duecentomila.

Il comma 2 disciplina il caso in cui dette azioni fraudolente vengano poste in essere nell’ambito della procedura di transazione fiscale.
In tal caso, infatti, nell’ipotesi in cui nella documentazione presentata ai fini della procedura di transazione fiscale vengano indicati elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, si applica la reclusione da sei mesi a quattro anni a carico di chiunque adotti detto comportamento al fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei tributi e relativi accessori; ovvero, la reclusione da un anno a sei anni se l’ammontare di cui al periodo precedente è superiore ad euro duecentomila.

Dalla lettura della norma non si evincono casi di punibilità in relazione all’ipotesi prospettata nel quesito. La liquidazione della precedente cooperativa e la creazione di una nuova cooperativa, per altro, con soci diversi da quelli della precedente non rientra né nell’ipotesi di cui al comma 1 né tanto meno in quella di cui al comma 2 che fa esclusivo riferimento alla transazione fiscale.
D’altra parte, è evidenziato nel quesito che la cooperativa non ha mai avuto un attivo patrimoniale costituito da beni o da attrezzature posto che si tratta di una cooperativa di produzione e lavoro la cui attività è stata integralmente basata sulla forza lavoro dei propri soci cooperatori; ne deriva che è difficile ipotizzare una sottrazione fraudolenta di beni ad una eventuale azione riscossiva.
Né l’ipotesi prospettata potrebbe essere ricondotta a quella presa in considerazione dalla Cassazione penale nella Sentenza n. 17163 depositata il 17 aprile 2018, in cui era stato affermato che integra il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva l’operazione di scissione di una società, successivamente dichiarata fallita, a favore di altra società alla quale siano conferiti beni di rilevante valore, qualora tale operazione si riveli volutamente depauperatoria del patrimonio aziendale e pregiudizievole per i creditori sociali, posto che nel caso di specie:
  • non sussiste un patrimonio aziendale da depauperare;
  • non è ipotizzata una scissione societaria ma la creazione di una nuova cooperativa con soci diversi da quelli della precedente.

Tra gli elementi evidenziati nel quesito, quello che, invece, potrebbe meritare una qualche attenzione, in riferimento ad una eventuale responsabilità del professionista che ha assistito la cooperativa in questi anni, è la presenza di una cassa inesistente determinata dalla corresponsione in nero di stipendi e/o compensi a personale e collaboratori non regolarmente “iscritti a libro paga” e la presenza di una esposizione debitoria “importante” nei confronti dell’erario, di circa € 200.000,00.
La cooperativa di cui al quesito, così come molte altre realtà imprenditoriali, a causa delle crescenti difficoltà legate alla crisi economica degli ultimi anni, si sarà probabilmente trovata nella necessità di effettuare alcune scelte aziendali per superare al meglio la crisi o per cercare di ridurre il proprio carico fiscale. E i consulenti della stessa, così come la categoria dei professionisti in generale, saranno stati chiamati a fornire consigli e pareri sulle più opportune scelte aziendali da compiere in tal senso.

Quindi, il tema non è solo quello della eventuale responsabilità del professionista nelle scelte che lo stesso può indirizzare al fine di gestire la situazione di crisi e di difficoltà in cui la cooperativa si è venuta a trovare ma, probabilmente, anche quello della sua co-responsabilità nel giungere a detta situazione di crisi.
Sul tema, infatti, la Suprema Corte ha ritenuto che, nel caso in cui il professionista fornisca un consiglio poco consono o agevolativo di condotte evasive, è astrattamente configurabile a carico dello stesso il reato di concorso in bancarotta fraudolenta; reato che è configurabile anche nel caso in cui la condotta del professionista, dannosa nei confronti della massa dei creditori, è continuata fino alla dichiarazione di insolvenza dell’azienda incriminata (Cfr, inter alia, Sentenza n. 30412 del 2011 e Sentenza n. 39988/2012).
Ne deriva che il commercialista che aiuta l’imprenditore a far fallire la società si ritrova coinvolto insieme all’imprenditore rispondendo, ex art. 110 del c.p. (della pari responsabilità) nel reato del soggetto proprio.
Secondo il suddetto articolo del codice penale, infatti, il reato realizzato da più soggetti viene ricostruito dalla legge in maniera oggettiva.
Tutti i soggetti che hanno dato il loro contributo alla realizzazione del fatto criminoso sono sottoposti alla stessa pena, e ciò indipendentemente dalla natura fondamentale o meramente accessoria dei rispettivi apporti.

La responsabilità del commercialista non sussiste se mancano elementi certi ed univoci atti a comprovare al di là di ogni ragionevole dubbio che lo stesso fosse consapevole dei propositi fraudolenti e distrattivi degli amministratori di diritto; abbia fornito consigli e suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori; abbia assistito gli amministratori nella conclusione dei relativi negozi (oltre i limiti all’incarico di consulenza); abbia svolto attività dirette a garantire agli amministratori l’impunità o ne abbia rafforzato, con il proprio ausilio e con le proprie considerazioni l’intento criminoso (Sentenza del Tribunale di Sondrio del 20.10.2016).
Ovviamente, la responsabilità del professionista di cui si parla è quella di tipo concorsuale.
La responsabilità del commercialista in rapporto all’impresa può infatti assumere tre forme: responsabilità diretta, responsabilità indiretta o di controllo e responsabilità concorsuale.
La responsabilità diretta può configurarsi nel caso in cui il professionista abbia esercitato i poteri tipici dell’amministratore di diritto in maniera significativa e continuativa. In tal caso, lo stesso risponde dei reati tipici degli organi societari come amministratore di fatto.
La responsabilità indiretta o di controllo è, invece, tipica della figura del sindaco o revisore dei conti. Il professionista può essere chiamato a risponderne nei casi in cui aveva un potere di controllo sul soggetto controllato (imprenditore) ed ha omesso di esercitarlo.
La responsabilità concorsuale (responsabilità in concorso con altri), è tipica, invece, del caso in cui il professionista risponde in veste di consulente. In questo caso, egli è estraneo alla compagine sociale e non ha doveri di controllo, ma risponde per il semplice fatto di avere dato consigli tecnici o tenuto comportamenti che abbiano agevolato la commissione del reato da parte dell’imprenditore.

Ne deriva che, se l’imprenditore in crisi tende a porre in essere una serie di attività volte a salvare il proprio patrimonio o la propria impresa, chiedendo aiuto ai professionisti con cui collabora o a cui ha affidato un incarico professionale, il commercialista può incorrere nei cosiddetti reati propri, ossia quei reati che si caratterizzano per avere una soggettività ristretta. Tali reati, che sono individuabili nel falso in bilancio, false comunicazioni sociali e bancarotta fraudolenta ad esempio, non possono essere commessi da chiunque, ma solamente da determinati soggetti individuati in base alla loro specifica qualifica o funzione.
La presenza di una cassa non reale di € 70.000,00 potrebbe, in astratto, comportare tali tipologie di responsabilità del professionista, posto che lo stesso potrebbe non avere correttamente svolto la funzione di controllo che gli era stata affidata ovvero, potrebbe avere concorso alla redazione di un bilancio falso o di false comunicazioni sociali posto che, indubbiamente, si tratta di una posta di bilancio non rappresentativa dell’effettiva realtà aziendale.

Occorre, però, tenere conto anche del fatto che, nella fattispecie di cui si discute, è stato omesso il pagamento delle imposte a causa della necessità di corrispondere gli stipendi ai dipendenti.
Il tema è stato preso in considerazione anche da parte della Suprema Corte, che sul punto è intervenuta con altalenanti pronunce.
Con Sentenza n. 47482/2018 del 18.10.18 era stato precisato che “utilizzare la liquidità disponibile per rispettare gli impegni con dipendenti e fornitori non integra la causa di forza maggiore che esclude il reato di omesso pagamento delle ritenute”.
L’art. 10 bis della legge reati tributari punisce, infatti, con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta (cinquantamila euro sino alla data del 21.10.2015).
Con la citata sentenza, la Suprema Corte aveva ritento che l’azienda in crisi di liquidità non potesse non pagare le tasse, cioè le ritenute d’acconto operate sulle retribuzioni dei dipendenti, per destinare i soldi che aveva in cassa al versamento degli stipendi e al pagamento dei fornitori, poiché non ci si trova di fronte ad una causa di forza maggiore.
Così facendo, sostengono i giudici di legittimità, l’azienda si finanzia con denaro incamerato a titolo di sostituto d’imposta.
La causa di forza maggiore sussiste soltanto quando si presentano dei fatti che non dipendono dall’imprenditore e non sarebbe questo il caso.
Ritiene infatti la Cassazione che non c’è forza maggiore quando non ci sono i soldi per pagare le tasse per colpa di una scelta politica dell’azienda: in sostanza, quando l’imprenditore non ha saputo gestire adeguatamente il proprio denaro.
La crisi, infatti, non era dovuta ad un fatto improvviso ma si trascinava già da tempo e l’imprenditore aveva fatto le sue scelte che, secondo il parere della Cassazione, erano sbagliate. Avrebbe dovuto, piuttosto, distribuire quelle risorse in modo da pagare le tasse anche se ciò comportava non riuscire a versare l’intero stipendio ai dipendenti.

Con successiva Sentenza n. 6737/2018, la stessa Corte ha però precisato che in caso di grave crisi finanziaria, un’azienda è legittimata a non pagare le tasse e a dare priorità agli stipendi dei dipendenti quando non ha sufficiente liquidità per onorare entrambi gli impegni. Secondo questa sentenza, non sussiste in questo caso il reato di omesso pagamento delle ritenute, posto che:
  • non ci sono i presupposti per il reato, poiché l’imprenditore era legittimato a preferire il pagamento degli stipendi;
  • non c’è un comportamento doloso da parte dell’imprenditore in quanto rispettare un suo dovere (il pagamento degli stipendi) non equivale ad una scelta (decidere di mandare avanti l’azienda pagando le retribuzioni anziché destinare i soldi all’Erario).
La Suprema Corte ha, quindi, affermato che è incostituzionale condannare il titolare dell’azienda che omette il pagamento delle tasse per una crisi finanziaria a lui non imputabile quando le risorse che ha a disposizione vengono utilizzate per rispettare «improcrastinabili adempimenti verso altri creditori, quali i lavoratori dipendenti» e per non negare alle loro famiglie i mezzi di sostentamento necessari per vivere.
Diversamente in materia di IVA, laddove la Suprema Corte ha affermato (Sentenze n. 2614/2014 e n. 37424/2013) che l’imprenditore o il professionista che non paga l’Iva sono punibili per il reato di omesso versamento dell’imposta, che sussiste per la sola coscienza e volontà di non pagare all’Erario ciò che è dovuto.
Secondo la Suprema Corte, nel momento in cui si emette una fattura e si incassa l’Iva, bisogna accantonare i soldi necessari a versare l’imposta al Fisco.
Non c’è, dunque, crisi di liquidità che giustifichi il fatto di non pagare detto tributo.

Un altro profilo che merita attenzione, in tema di responsabilità del professionista, è quello relativo all’eventuale ruolo di liquidatore nell’ambito della procedura di liquidazione, ovvero di attestatore che lo stesso potrebbe essere chiamato a svolgere nell’ambito delle soluzioni concordate per la crisi di impresa.
In ordine al primo profilo e con specifico riferimento al caso di specie, occorre considerare che al liquidatore è richiesto, tra l’altro, di trasmettere all’autorità di vigilanza il verbale di consegna della documentazione sociale, l’inventario dei beni e una dettagliata analisi delle problematiche esistenti, unitamente alla situazione economico-patrimoniale.
È chiaro che, nel caso di specie, la redazione del predetto verbale potrebbe creare non poche difficoltà in ordine alla presenza in contabilità di una disponibilità di cassa non reale che, ovviamente, al fine di non incorrere in responsabilità di tipo concorsuale, dovrà essere esplicitamente denunciata nell’ambito della dettagliata analisi delle problematiche esistenti di cui si è detto.

Riguardo al ruolo di attestatore, occorre premettere che il legislatore degli ultimi anni ha individuato una serie di strumenti di composizione della crisi di impresa alternativi alla procedura fallimentare, passando da una impostazione rigida, che tra le soluzioni all’insolvenza aziendale privilegiava il ricorso al fallimento, il cui dominus assoluto, il giudice delegato, doveva far sì che i creditori si dividessero, per quanto possibile in parti proporzionali, le spoglie dell’imprenditore fallito, a una concezione elastica, nella quale la crisi rappresenta un’occasione di catarsi per l’impresa, la quale, una volta libera dal peso insostenibile dei propri debiti, può, proseguire la propria attività e garantire ai creditori la migliore delle liquidazioni possibili.
In questa nuova prospettiva, che vede affiancarsi al fallimento una moltitudine di strumenti ad esso alternativi, se da un lato il ruolo del giudice viene confinato al “semplice” vigilare sulla legalità della procedura e sul rispetto del principio della par condicio creditorum, dall’altro emerge con forza una nuova figura, quella del professionista attestatore, il quale, nell’ambito di una gestione privatistica della crisi d’impresa, assume su di sé il ruolo di garante della veridicità e della sostenibilità del piano di risanamento, del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione del debito.
Proprio in considerazione della rilevanza delle attestazioni che lo stesso professionista rilascia, l’art. 236-bis del R.D. n. 267/1942, così come da ultimo modificato dall’art. 10 del Decreto-legge del 27/06/2015 n. 83, prevede che “il professionista che nelle relazioni o attestazioni di cui agli articoli 67, terzo comma, lettera d), 161, terzo comma, 182-bis, 182-quinquies, 182-septies e 186-bis espone informazioni false ovvero omette di riferire informazioni rilevanti, è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 50.000 a 100.000 euro. Se il fatto è commesso al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri, la pena è aumentata. Se dal fatto consegue un danno per i creditori la pena è aumentata fino alla meta".

La norma presenta, ovviamente, forti analogie con l’articolo 236, che punisce l’imprenditore che “al solo scopo di essere ammesso alla procedura di concordato preventivo o di ottenere l’omologazione di un accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari o il consenso degli intermediari finanziari alla sottoscrizione della convenzione di moratoria di amministrazione controllata, siasi attribuito attività inesistenti, ovvero (...) abbia simulato crediti in tutto o in parte inesistenti” e che è pacificamente considerato un delitto contro l’amministrazione della giustizia.

Il quesito, comunque, non prospetta un intervento del professionista in tal senso per cui, le informazioni fornite si ritengono sufficienti per avere una quadro abbastanza completo delle possibili responsabilità del professionista nel caso di specie.