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Articolo 743 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 31/01/2024]

Società contratta con l'erede

Dispositivo dell'art. 743 Codice Civile

(1)Non è dovuta collazione di ciò che si è conseguito per effetto di società [2247 c.c.] contratta senza frode [1344 c.c.](2) tra il defunto e alcuno dei suoi eredi, se le condizioni sono state regolate con atto di data certa(3) [2704 c.c.].

Note

(1) L'articolo in commento non si applica all'associazione in partecipazione (v. art. 2549 del c.c.) e alle società di capitali.
(2) Per fronde si intende la volontà di recare pregiudizio alle ragioni degli altri eredi, nascondendo la liberalità.
(3) La mancanza di data certa si ritiene essere una presunzione iuris tantum circa la natura liberale della società senza

Ratio Legis

Gli utili conseguiti dall'erede attraverso il lavoro e gli apporti personali non costituiscono atto di liberalità e, quindi, non sono oggetto di collazione.

Spiegazione dell'art. 743 Codice Civile

L’elemento centrale della disposizione è l’inciso “senza frode”, cioè senza che il contratto sociale abbia creato al figlio condizioni di eccessivo favore, sproporzionate al suo apporto nella società.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

360 La regolamentazione data all'ipotesi di società contratta tra il defunto e l'erede, ha fatto sorgere molti dubbi, perché è stato osservato che, in pratica, le società tra genitori e figli sono società di fatto regolate dalla fiducia e dalla fede, ed è difficile che risultino da atto di data certa. Perciò l'erede, che ha per lungo tempo collaborato fattivamente col de cuius alla vita di un'impresa, alla morte di quest'ultimo dovrebbe conferire anche gli utili del proprio lavoro. E' stata perciò ritenuta preferibile la soppressione della norma, considerando che essa è assorbita dall'art. 276 del progetto — cioè dall'art. 737 del c.c. — i1 quale pone il principio generale che solo le donazioni dirette o indirette devono essere comprese nella collazione, e non altri cespiti legittimamente conseguiti nei confronti del defunto. Sono però stato contrario alla soppressione della disposizione, perché avrebbe fatto sorgere in pratica dubbi assai gravi. La disposizione — conservata nell'art. 743 del c.c. — presenta l'indiscutibile vantaggio pratico di eliminare ogni insidia, prescrivendo che la collazione di ciò che si è conseguito non è dovuta, se le condizioni dell'asserta società sono state regolate con atti di data certa e salva sempre la prova dell'eventuale frode.

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Consulenze legali
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Stefania S. chiede
giovedì 21/12/2017 - Lazio
“Buongiorno, ho avviato una causa di divisione giudiziale con un coerede, mio fratello, a seguito di successione legittima di nostro padre e testamentaria di nostra madre della quale sono erede in quota di legittima e di disponibile. Mio fratello rivendica “la restituzione dei canoni di locazione” non corrisposti ai miei genitori per aver svolto per oltre 20 anni in una stanza dell’appartamento di cui mia madre era comproprietaria al 50% con mio padre, e rappresentante circa il 14% della superficie totale lorda della casa, una attività d’impresa senza un contratto di comodato formalmente registrato. Preciso che, come risulta dagli atti pubblici di costituzione delle società, io e mia madre eravamo state socie prima di una sdf (dal 1993 al 1997 ripartizioni utili miei 40% di mia madre 60%) poi regolarizzata in sas (dal 1997 al 2014, ripartizioni utili io socia accomandataria al 97% e mia madre socia accomandante al 3%), società che aveva posto la sua sede legale per l’appunto nell’appartamento de quo. Mio fratello avvalora la sua pretesa, oltre che sull'assenza di un contratto di comodato registrato, anche sul fatto che dal 1997 al 2014 la ripartizione degli utili attribuiva alla mamma soltanto il 3% dal 1997 al 2014. Aggiungo che, poiché queste rivendicazioni erano state avanzate dal figlio alla madre quando ella era ancora in vita, quest’ultima nel suo testamento pubblico dispone che “per eventuali attribuzioni patrimoniali delle quali mia figlia potrebbe essersi avvantaggiata per l’attività di traduzioni ed interpretariato, svolta insieme, la dispenso da collazione, avendo io percepito gli utili”. Infine, preciso, che la società fu sciolta prima della morte della mamma e che la stanza ritornò nella disponibilità di questa ultima, non appena ella ne richiese la restituzione, oramai vedova, per avviare un progetto di convivenza con la cognata; che non vi è stato alcun passaggio di proprietà patrimoniale a mio favore; e che l’erede è pertanto entrato nel compossesso pro quota dell’appartamento de quo dopo la morte della madre. Ha fondamento la rivendicazione del coerede? Il fatto che si trattasse di un comodato di fatto e non registrato, in virtù del rapporto familiare e di fiducia tra le socie, le quali di comune accordo avevano posto la sede legale della loro società nell’appartamento de quo, ha rilevanza ai fini dell’accoglimento di tale pretesa? In caso, affermativo, quali sono i criteri di legge per la determinazione di detto canone?”
Consulenza legale i 12/01/2018
Le pretese avanzate dal fratello coerede si ritiene che difficilmente possano avere una valenza giuridica.
Diversi sono gli aspetti da valutare nel dare la motivazione a tale risposta.

Intanto occorre inquadrare correttamente sotto il profilo successorio la pretesa di cui si discute, in quanto, al di là di ciò che si chiede (la restituzione dei canoni di locazione), l’azione che giuridicamente si vuole porre in essere è una vera e propria azione di riduzione di una donazione indiretta o atto di liberalità (art. 809 c.c.), consistente in quelle somme che non sono mai state corrisposte a titolo di canone di locazione e di cui ci si sarebbe arricchiti in danno dell’altro erede legittimario.

Per giungere a tale risultato occorre indubbiamente esperire in via preliminare una azione di simulazione, tendente a dimostrare che il godimento di quell’immobile dissimulava in realtà un contratto di locazione per il conseguimento di un intento fraudolento, ossia nascondere la donazione alla sorella di quelle somme di denaro che la medesima avrebbe dovuto corrispondere ai genitori a titolo di canone di locazione.

E’ corretto comunque che una azione di tale tipo (simulazione) venga esercitata solo post mortem del disponente, in quanto solo in tale momento è riscontrabile l’interesse dei futuri legittimari ad agire a tutela delle proprie ragioni; costituisce, infatti, orientamento costante della Suprema Corte di Cassazione quello secondo cui i figli non possono in alcun modo vantare diritti attuali sul patrimonio dei propri genitori se ancora in vita, poiché questi ultimi, in ossequio al principio di autonomia privata, devono poter essere liberi di disporre dei propri beni come meglio credono, sia a mezzo di atti inter vivos che mortis causa.
Solo dopo l’apertura della successione del disponente i legittimari, ritenendosi lesi o pretermessi, potranno esperire tutti quei rimedi volti a reintegrare la quota di riserva loro spettante non vantando, di contro, alcun diritto attuale sul patrimonio in epoca antecedente alla morte del disponente stesso.

L’esercizio di tale azione, però, ossia di simulazione prima e conseguentemente di riduzione (se positivamente esperita la prima), deve fare i conti con alcune norme del codice civile che smentiscono quanto vuole sostenere il legittimario che si presume leso.

Una prima norma che può invocarsi a tutela della propria posizione, almeno per il periodo che va dal 1993 al 1997, è l’art. 230 bis del codice civile, dedicato a quella che viene definita impresa familiare.
Infatti, in assenza di un titolo da cui desumere l’esistenza di un diverso rapporto giuridico, si ritiene che l’impresa familiare possa senza alcun dubbio dare una veste giuridica all’attività esercitata nell’abitazione dei genitori, tenuto conto che chi partecipa all’impresa familiare può anche apportare capitali (l’immobile della madre), purché tale apporto non sostituisca l’attività di lavoro (in tal senso Oppo, per il quale il titolo dell’apporto può essere il più vario, fra cui anche la concessione in godimento del locale sede dell’impresa).

Per quanto concerne la misura della ripartizione degli utili, la norma disciplinante tale istituto non detta alcuna disposizione precisa al riguardo, limitandosi a stabilire che la partecipazione agli utili dell’impresa deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato.

Altro istituto giuridico che si adatta benissimo al rapporto intercorrente tra madre e figlia (sempre per il periodo che va dal 1993 al 1997) è quello della associazione in partecipazione, disciplinato dall’art. 2549 c.c., ove la madre (associante) attribuisce alla sorella (associata) una partecipazione agli utili della sua impresa verso il corrispettivo di un determinato apporto.

Ovviamente, essendo l’impresa di titolarità dell’associante (madre), risulta naturale che venga svolta nel proprio immobile, mentre l’apporto della figlia si farebbe consistere nel prestare la propria attività lavorativa.

Nessun rilievo può assumere il secondo comma della norma appena citata, il quale vieta espressamente, per il caso in cui associato sia una persona fisica, che il suo apporto possa consistere in una prestazione di lavoro, e ciò perché si tratta di comma aggiunto dall’art. 53, comma 1, lett. a), D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, a decorrere dal 25 giugno 2015, norma la quale prevede che i contratti di associazione in partecipazione in atto alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, nei quali l'apporto dell'associato persona fisica consista, in tutto o in parte, in una prestazione di lavoro, si intendono fatti salvi fino alla loro cessazione.

A tutto ciò si aggiunga quanto rilevato dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 12353/2005, la quale afferma il principio secondo cui la stipulazione di contratti di comodato gratuito spesso simulano un contratto di locazione con canone c.d. in nero (e conseguente probabile evasione delle imposte sia dirette che indirette) qualora non siano rivolti a parenti del proprietario.

Come può notarsi, dunque, diverse sono le forme giuridiche cui poter fare riferimento per dimostrare, in sede di divisione ereditaria, che quanto il coerede legittimario vorrebbe far valere è privo di fondamento, non essendo neppure necessario fare ricorso al negozio giuridico del comodato per giustificare il godimento di quella porzione di immobile.
Inoltre, anche a voler ammettere la sussistenza di tale contratto, per il quale è bene precisare non occorre alcuna forma particolare (potendo anche risultare da facta concludentia), la stessa Corte di Cassazione ritiene del tutto normale che tra parenti del proprietario si possa fare ricorso a questa forma contrattuale, non ravvisandovi neppure un probabile intento di evasione fiscale.

Diversa, invece, è la situazione per il periodo che va dal 1997 al 2014, periodo in cui si assiste al venire ad esistenza di una società in accomandita semplice fra madre e figlia.
Di tale ipotesi si occupa espressamente una norma del codice civile dettata proprio in materia di successione, ossia l’art. 743 c.c., il quale prevede che, in caso di società contratta senza frode tra il defunto e alcuno dei suoi eredi, le cui condizioni sono state regolate con atto di data certa (l’atto costitutivo della s.a.s.), non è dovuta collazione di ciò che, per effetto di tale società, si è conseguito.

Quindi, per avvalorare la tesi del fratello, occorrerebbe dar prova della sussistenza di un intento fraudolento fra madre e figlia nell’aver posto in essere tale società, prova che si ritiene quanto mai difficile da conseguire, considerato che tale società ha voluto dare continuità ad una attività che già la madre e la figlia conducevano insieme regolarmente da diversi anni.

Nulla può dirsi in merito alla percentuale di partecipazione agli utili, essendosi il legislatore preoccupato soltanto di vietare ex art. 2265 c.c. quello che si definisce “patto leonino”; tale norma, infatti, presuppone una situazione statutaria caratterizzata dall'esclusione assoluta e costante di uno dei soci dalla partecipazione al rischio di impresa o dagli utili ovvero da entrambe tali situazioni, esulando pertanto dal divieto quelle pattuizioni regolanti la partecipazione agli utili e alle perdite in misura diversa dall’entità della partecipazione del singolo socio (cfr. Cass. 3 marzo 1955 n. 626; Trib. Roma 5 maggio 1960; Cass. 22 giugno 1963 n. 1686; Cass. 25 marzo 1966 n. 787; Trib. Milano 22 ottobre 1990).

La possibilità di invocare l’applicazione dell’art. 743 c.c., in combinato disposto con l’art. 2265 c.c. da ultimo citato, dunque, rende perfino vano far valere la dispensa da collazione contenuta nel testamento pubblico della de cuius, dispensa che in ogni caso avrebbe valore nei limiti della quota disponibile del patrimonio del defunto (art. 737 comma 2 c.c.), mentre il ricorso alle suddette norme consente di escludere da collazione tutte le somme che hanno incrementato il patrimonio dell’erede per effetto della società contratta con il defunto.

Come può ben notarsi, quindi, diversi sono gli strumenti giuridici di cui in sede di divisione giudiziale può invocarsi l’applicazione per sconfessare quanto il coerede legittimario vuol sostenere al fine di reintegrare la proprio quota di riserva.