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Articolo 523 Codice di procedura penale

(D.P.R. 22 settembre 1988, n. 477)

[Aggiornato al 11/01/2024]

Svolgimento della discussione

Dispositivo dell'art. 523 Codice di procedura penale

1. Esaurita l'assunzione delle prove, il pubblico ministero e successivamente i difensori della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e dell'imputato formulano e illustrano le rispettive conclusioni, anche in ordine alle ipotesi previste dall'articolo 533, comma 3-bis(1).

2. La parte civile presenta conclusioni scritte, che devono comprendere, quando sia richiesto il risarcimento dei danni, anche la determinazione del loro ammontare.

3. Il presidente dirige la discussione e impedisce ogni divagazione, ripetizione e interruzione.

4. Il pubblico ministero e i difensori delle parti private possono replicare; la replica è ammessa una sola volta e deve essere contenuta nei limiti strettamente necessari per la confutazione degli argomenti avversari.

5. In ogni caso l'imputato e il difensore devono avere, a pena di nullità, la parola per ultimi se la domandano.

6. La discussione non può essere interrotta per l'assunzione di nuove prove, se non in caso di assoluta necessità. Se questa si verifica, il giudice provvede a norma dell'articolo 507.

Note

(1) Le parole "anche in ordine alle ipotesi previste dall'articolo 533, comma 3bis" sono state inserite dall'art. 4, comma 1 bis, del D.L. 24 novembre 1999, n. 341, convertito nella l. 19 gennaio 2001, n. 4.

Ratio Legis

La disposizione in esame disciplina la discussione finale, moderata e diretta dal Presidente, cui partecipano le parti secondo 'ordine stabilito per l'esposizione introduttiva e per l'assunzione delle prove.

Spiegazione dell'art. 523 Codice di procedura penale

La norma in commento si occupa della discussione finale, stabilendo che le parti, una volta esaurita l'assunzione delle prove, intervengono nello stesso ordine previsto per l'esposizione introduttiva e per l'assunzione delle prove, ovvero il pubblico ministero, i difensori della parte civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e, da ultimo, dell'imputato. Ciò avviene anche quando il giudice disponga la separazione dei procedimenti quando la condanna riguardi i gravi delitti di cui all'articolo 407, comma 2 , lett. a.

La parte civile è tenuta a presentare anche conclusioni scritte (più confacente alla natura civilistica della sua partecipazione al procedimento), le quali devono comprendere eventualmente la quantificazione dei danni.

La discussione finale è diretta dal presidente, il quale impedisce ogni divagazione, ripetizione e interruzione, esercitando dunque i suoi poteri di polizia processuale tesi alla speditezza del procedimento.

Tutte le parti, incluso il pubblico ministero, hanno la facoltà di replicare alle deduzioni delle altre parti, ma solo una volta (eccezion fatta per l'imputato ed il suo difensore). La replica deve inoltre essere contenuta nei limiti strettamente necessari a confutare gli argomenti avversari, e dunque non può essere utilizzata per colmare quanto omesso con la prima esposizione.

L'imputato, vista la delicatezza della sua posizione, ha diritto all'ultima parola in ogni caso, anche dopo aver già replicato, qualora seguano altre controrepliche.

Per quanto riguarda l'assunzione di nuove prove nella fase di discussione, essa può essere ammessa solo in caso di assoluta necessità ed il giudice provvede ai sensi dell'articolo 507.

Massime relative all'art. 523 Codice di procedura penale

Cass. pen. n. 12603/2017

La facoltà dell'imputato di rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni che ritiene opportune, purché esse si riferiscano all'oggetto dell'imputazione, va coordinata con la previsione del comma sesto dell'art. 523 cod. proc. pen., in base al quale l'interruzione della discussione può essere giustificata solo dall'assoluta necessità di assunzione di nuove prove, talché, non essendo assimilabili le dichiarazioni spontanee dell'imputato a nuove prove, deve escludersi la facoltà dello stesso imputato di rendere dette dichiarazioni, anche attraverso un memoriale in forma scritta indirizzato al giudice, fermo restando il suo diritto di avere la parola per ultimo, se lo richiede.

Cass. pen. n. 43479/2015

Si ha revoca tacita della costituzione di parte civile, ai sensi degli artt. 82 e 523 cod. proc. pen., nell'ipotesi in cui la parte civile revochi il proprio difensore nominandone un altro, ma ometta di conferire a quest'ultimo la procura speciale per legittimarlo allo "ius postulandi", ai sensi dell'art. 100 cod. proc. pen., non potendo tale situazione ritenersi sanata dalla presenza personale della parte in udienza. (In motivazione, la Corte ha evidenziato che la procura speciale ex art. 100 cod. proc. pen. si differenzia da quella prevista dall'art. 122 cod. proc. pen., in quanto quest'ultima ha la funzione di attribuire al procuratore la capacità di essere soggetto del rapporto processuale, mentre la prima ha riguardo al conferimento della rappresentanza tecnica della parte).

Cass. pen. n. 44524/2008

L'acquisizione documentale, a richiesta di parte, nel corso della discussione dibattimentale obbliga alla rinnovazione della discussione, a pena di nullità d'ordine generale, anche della sentenza. (In motivazione, la S.C. ha precisato che alle parti deve essere assicurata la facoltà di interloquire sulla documentazione acquisita, previo esame della stessa).

Cass. pen. n. 20475/2002

L'inosservanza dell'art. 523, comma 2, c.p.p. nella parte in cui prescrive che le conclusioni della parte civile devono comprendere anche la determinazione dell'ammontare dei danni di cui si chiede il risarcimento, non comporta alcuna nullità.

Cass. pen. n. 41141/2001

Non costituisce revoca implicita della costituzione di P.C. il fatto che le conclusioni orali, anziché precedere, la presentazione per iscritto, siano state formulate soltanto alla fine della discussione, dopo quelle dell'imputato, purché esse richiamino quelle scritte, già depositate in precedenza ed idonee ad assicurare al processo una stabile documentazione delle richiste del danneggiato.

Cass. pen. n. 11124/1997

L'inosservanza della norma di cui all'art. 523 n. 2 del c.p.p., per omessa determinazione, nelle conclusioni scritte della parte civile, dell'ammontare dei danni di cui si chiede il risarcimento, non produce alcuna nullità né impedisce al giudice di pronunciare la condanna generica al risarcimento dei danni. Ed invero, unica condizione essenziale, dell'esercizio dell'azione civile in sede penale, è la richiesta del risarcimento, la cui entità può essere precisata in altra sede dalla stessa parte, o rimessa alla prudente valutazione del giudice.

Cass. pen. n. 11783/1995

Qualora la parte civile non compaia nel giudizio di appello e non presenti le conclusioni, la sua costituzione non può intendersi revocata ai sensi dell'art. 82, comma 2, c.p.p., valendo tale disposizione solo per il processo di primo grado. Ed infatti, se la parte civile non formula le proprie richieste almeno una prima volta non si forma un petitum sul quale il giudice possa pronunciarsi, con la conseguenza che opera la regola della revoca implicita, mentre invece, le conclusioni rassegnate in primo grado restano valide in ogni stato e grado del processo.

Cass. pen. n. 3769/1995

Il sostituto del difensore della parte civile può svolgere nel dibattimento ogni attività riservata al sostituito, indipendentemente dal fatto che questi si sia o meno costituito parte civile come procuratore speciale della persona offesa. Fra le predette attività deve farsi rientrare anche la presentazione delle conclusioni, a norma dell'art. 523 c.p.p.

Cass. pen. n. 1708/1994

La facoltà dell'imputato, sancita dall'art. 494, primo comma, c.p.p., di «rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni che ritiene opportune, purché esse si riferiscano all'oggetto dell'imputazione», va coordinata con le norme dettate dall'art. 523 c.p.p., che disciplina lo svolgimento della discussione finale e, segnatamente, con il sesto comma di detto articolo, in base al quale l'interruzione della discussione può essere giustificata solo dalla assoluta necessità di assunzione di nuove prove. Ne consegue che, in detta fase, non essendo assimilabili le dichiarazioni spontanee dell'imputato a nuove prove, deve considerarsi inoperante la facoltà dello stesso imputato di rendere dette dichiarazioni.

Cass. pen. n. 8511/1992

Dalla stessa letterale formulazione dell'art. 468 del codice di rito penale abrogato (la situazione non è affatto mutata con riferimento al 523 di quello vigente) si ricava che la «discussione finale» va svolta con la illustrazione orale delle ragioni a sostegno delle conclusioni che sempre oralmente vanno presentate venendo poi, queste ultime, consacrate per scritto nel verbale redatto dal cancelliere. Nulla certamente può impedire la presentazione di note difensive ai sensi del disposto dell'art. 145 dello stesso codice. Peraltro tale facoltà, almeno nel corso della discussione, non può essere estesa sino al punto di introdurre nel processo una consulenza tecnica di parte su materie che non furono oggetto di perizia per essersi respinta la istanza di rinnovazione del dibattimento per l'espletamento di questa, dovendo pur sempre ritenersi che il diritto riconosciuto dall'ordinamento all'imputato di «difendersi provando» non può comportare l'inevitabile accoglimento anche di richieste che siano prive dei caratteri di rilevanza e pertinenza ai fini della decisione.

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Anonimo chiede
sabato 27/11/2021 - Lazio
“Spett.le Brocardi.it

Sono a richiedere il seguente parere riferito a quello precedente n. Q202128568

Il Giudice valutato i presupporti propone in sede di dibattimento al P.M., il protocollo e tale proposta viene verbalizzata nel verbale di udienza dal Giudice.

Il P.M. seppure in modo non esplicito manifesta al Giudice che seppure sussistono i presupposti per il protocollo, ritiene nel caso di specie non aderire al protocollo, ma di proseguire il processo. Tale parere contrario del P.M. non risulta nel verbale di udienza.

Il Giudice aderisce alla volontà del P.M. e prosegue il processo senza avere discusso col presidente del tribunale quindi in assenza del “nulla osta”, che non sembra previsto nel Tribunale in oggetto, ma sembra che sussiste un libero arbitrio del Giudice in accordo con il P.M.

Si ritiene che il modo operando dei magistrati come sopra prospettato, sia illegittimo in violazione dell’art. 3, 111 (e altro) della Costituzione, in quanto non si comprende come possa essere possibile che un imputato per la stessa fattispecie possa avere la possibilità di aderire al protocollo mentre un altro no. È pura discriminazione.

La domanda è, quali rimandi offre l’ordinamento per far si che l’imputato possa contestare nella prossima udienza delle conclusioni, il fatto di avere subito una discriminazione al fine di ottenere un ripensamento dei magistrati?

E in ipotesi che i magistrati (giudice e P.M.) respingono la contestazione e l’imputato viene condannato, quali rimedi offre l’ordinamento affinché l’imputato possa ottenere giustizia ?

In sostanza la legge è uguale per tutti o no ?”
Consulenza legale i 29/11/2021
Rispondere al quesito è alquanto difficile proprio perché, come già specificato nel parere precedente, i protocolli non hanno una connotazione normativa e, pertanto, sono soggetti ad applicazione differente tra loro.

Tuttavia, va ancora una volta rimarcato quanto segue.

I protocolli non hanno un valore cogente e hanno, fondamentalmente, un’esigenza deflattiva del contenzioso che, sussistendo determinati presupposti, può giustificare il fatto che tanto il giudice quanto il pubblico ministero consentano il decorso della prescrizione (a tal riguardo è incisivo il fatto che, nel caso di specie, si faccia riferimento alla assenza della costituzione di parte civile proprio in considerazione del fatto che la sola presenza della predetta parte processuale non può giustificare l’applicazione del protocollo essendo di maggiore interesse la richiesta risarcitoria della persona offesa dal reato ).

Ciò vuol dire anche che l’applicazione del protocollo è naturalmente assoggettata a valutazioni discrezionali che sono discutibili, ma difficilmente sindacabili.
Nel caso di specie, invero, è possibile ritenere che l’accusa abbia insistito per la disapplicazione del protocollo in ragione della particolare gravità del caso di specie (oppure per la sussistenza di uno degli elementi ostativi previsti dal protocollo medesimo).

Arriviamo al punto della consulenza.

Non avendo, come detto, i protocolli una connotazione normativa, la loro inosservanza non può essere interpretata quale disparità di trattamento per il soggetto nei confronti del quale il protocollo non viene applicato.
Ciò in considerazione di due ragioni dirimenti.

Verosimilmente, tanto il giudice quanto il PM si assicureranno che l’inosservanza del protocollo abbia la sua radice in ragioni di giustizia molto forti, tali per cui le esigenze deflattive del contenzioso passino in secondo piano.

A ben vedere, inoltre, l’inosservanza del protocollo non determina alcuna violazione costituzionale e/o alcuna disparità di trattamento in quanto, in realtà, ad essere derogatorio rispetto alla legge è proprio il protocollo, non già la sua disapplicazione ad personam.
Ci spieghiamo meglio.
La legge impone che un soggetto indagato, sussistendone i presupposti, vada condotto a giudizio e ivi giudicato. Non si prevede alcuna deroga e, quindi, la continuazione del procedimento rappresenta l’iter ordinario previsto.
Se, dunque, il protocollo che prevede il contrario non viene applicato, non c’è alcuna violazione della legge.
E’, peraltro, improprio parlare di disparità di trattamento perché il soggetto nei confronti del quale il protocollo viene disapplicato, in realtà, non subisce alcun trattamento peggiorativo rispetto a quello normativamente previsto.
Si potrebbe dire, tuttalpiù, che il protocollo favorisca taluno, non che danneggi talaltro.
E tale presunta “disparità” si giustifica, di certo, sul piano del merito del contenzioso penale, la cui gravità ben può giustificare che l’esigenza deflattiva del contenzioso receda dinanzi a condotte particolarmente gravi.

In sintesi, la risposta al quesito è negativa.
Il difensore non ha alcuno strumento normativo per eccepire tale presunta disparità di trattamento e, d’altra parte, non ne avrebbe alcun diritto perché la disparità di trattamento va valutata su base normativa non sulla base di “ciò che accade ad altri”.