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Articolo 37 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 27/03/2024]

Fondo comune

Dispositivo dell'art. 37 Codice Civile

I contributi degli associati e i beni acquistati con questi contributi costituiscono il fondo comune dell'associazione.

Finché questa dura, i singoli associati non possono chiedere la divisione del fondo comune, né pretenderne la quota in caso di recesso [24 c.c.].

Ratio Legis

L'autonomia patrimoniale degli enti di fatto, seppure imperfetta, ne determina una certa soggettività pur in assenza di un espresso riconoscimento giuridico da parte dell'ordinamento.

Spiegazione dell'art. 37 Codice Civile

Il fondo comune costituisce un patrimonio autonomo dell'ente, che va tenuto separato da quello dei singoli associati. Esso deve essere utilizzato per i fini propri dell'associazione e non per scopi diversi, gravando su di esso un cd. vincolo di destinazione.

Il fatto che gli associati, finché dura l'associazione, non possano chiedere la divisione del fondo, né la restituzione della propria quota in caso di recesso, evidenzia come tale patrimonio non costituisca una comunione ordinaria (artt. 1100 ss. c.c.).
Prima dell'abrogazione operata dalla legge 127/1997 (cd. legge Bassanini bis), modificata con legge 192/2000, le disposizioni testamentarie e le donazioni a favore degli enti di fatto divenivano inefficaci qualora, entro un anno, l'ente non avesse presentato istanza di riconoscimento. Oggi, invece, non sussiste più alcuna limitazione alla possibilità per gli enti non riconosciuti di ricevere liberalità.

Relazione al Codice Civile

(Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942)

Massime relative all'art. 37 Codice Civile

Cass. civ. n. 25976/2020

L'art. 38 c.c. prevede, allo scopo di contemperare l'autonomia patrimoniale dell'associazione ed il diritto di credito dei terzi nei suoi confronti, per un verso che "Per le obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l'associazione i terzi possono far valere i loro diritti (solo) sul fondo comune" e per altro verso che "Delle obbligazioni stesse rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione". Ne consegue che i (meri) rappresentanti dell'associazione non rispondono in proprio delle obbligazioni assunte dall'associazione, potendo i creditori far valere i loro diritti solo sul fondo comune (art. 37 c.c.), rispondendo invece personalmente solo coloro che hanno agito personalmente in nome e per conto dell'associazione.

Cass. civ. n. 10213/2001

La responsabilità aquiliana per fatto illecito di un'associazione non riconosciuta chiamata a rispondere con il proprio fondo comune (art. 37 c.c.) si fonda sul rapporto organico e sul generale principio che rende responsabili le persone fisiche e gli enti giuridici per l'operato dannoso di coloro che sono inseriti nell'organizzazione burocratica o aziendale.

Cass. civ. n. 901/1997

A norma della legge n. 848 del 1929 e del R.D. n. 2262 del 1929, le fabbricerie esistenti nelle chiese cattedrali, dichiarate monumento nazionale, le quali provvedono all'amministrazione del patrimonio e dei redditi delle chiese stesse, nonché alla manutenzione degli edifici, senza ingerenza nei servizi di culto, vanno inquadrate tra le associazioni non riconosciute. Esse, pertanto, pur essendo prive di personalità giuridica, possono, ai sensi dell'art. 37 c.c., gestire gli immobili di proprietà della chiesa, dare attuazione a rapporti di locazione che li riguardano, disporre la cessazione di quelli esistenti, e possono stare in giudizio a mezzo di coloro che, secondo l'ordinamento interno dell'ente, ne hanno la rappresentanza.

Cass. civ. n. 3773/1981

La limitata capacità delle associazioni non riconosciute di essere titolari di un patrimonio, entro l'ambito in cui è positivamente prevista dalla legge e, quindi, in base all'art. 37 c.c., con esclusivo riferimento ai contributi degli associati ed ai beni acquistati con tali contributi (ma senza l'obbligo dell'autorizzazione governativa), riguarda solo gli acquisti a titolo derivativo, e non esclude la possibilità di acquisti a titolo originario, come l'usucapione, in relazione alla quale, in particolare, non può essere disconosciuta l'efficacia, propria del possesso, ove questo con le modalità previste dall'art. 1158 c.c., venga esercitato su di un bene dagli associati non uti singuli bensì come appartenenti all'associazione e con la volontà di riferire a questa gli atti di possesso compiuti.

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Consulenze legali
relative all'articolo 37 Codice Civile

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L. V. chiede
sabato 23/03/2024
“Associazione non riconosciuta, di tipo professionale per agenti di assicurazione.
Svolge attività di carattere istituzionale, con aspetti anche di tipo sindacale nei confronti delle mandanti, e saltuariamente attività commerciale occasionale (contribuzioni da sponsor in occasione di convegni e congressi) regolarmente assoggettati ad Iva e a Imposte dirette.
Unica previsione di statuto in caso di scioglimento è la devoluzione del patrimonio secondo delibera dell'assemblea.
Al momento dispone di un fondo comune che risulta eccessivo rispetto ai prevedibili impegni di breve - medio termine.
E' lecito che l'assemblea degli associati deliberi la restituzione di parte del fondo comune agli associati?
Poichè i contributi versati hanno costituito costi d'esercizio per l'associato, la restituzione costituirebbe provento imponibile per lo stesso.
Ringrazio in anticipo. Cordiali saluti.”
Consulenza legale i 27/03/2024
Le associazioni non riconosciute sono enti collettivi che nascono da un atto di autonomia, cioè un contratto tra i fondatori detto atto costitutivo.
Esse non dispongono della personalità giuridica, pertanto nei confronti loro e dei singoli associati non operano i benefici conseguenti all’ autonomia patrimoniale propri degli enti riconosciuti.
Ciò nonostante anche esse possono vantare una certa separazione tra il patrimonio dell’ente e quello dei suoi associati (autonomia patrimoniale imperfetta), in quanto dei debiti dell’ente risponde in primis il fondo comune dell’associazione e, solo in secondo luogo, coloro che hanno convenuto ed effettuato l’operazione in nome e per conto dell’ente.

L’art. 37 del c.c. disciplina il fondo comune dell’associazione, costituito dai contributi degli associati e dai beni con questi acquistati (ma anche da liberalità di terzi, da incentivi, sovvenzioni pubbliche, etc.).
Si rammenta, tuttavia, che il medesimo articolo vieta agli associati, fintantoché l’associazione resta in vita, di chiedere la divisione del fondo comune, nonché pretendere la restituzione della quota associativa e dei contributi versati in caso di recesso (o esclusione).
Il fondo comune costituisce un patrimonio autonomo dell'ente, da tenersi separato da quello dei singoli associati, che va utilizzato esclusivamente per i fini propri dell'associazione, o per far fronte ai debiti: su di esso grava un cd. vincolo di destinazione.

In definitiva, l’assemblea non può deliberare la restituzione di parte del fondo comune agli associati; si tratterebbe di divisione, seppur parziale, del fondo comune, vietata ex lege.

E. M. chiede
mercoledì 08/12/2021 - Marche
“Buongiorno,
sono socio fondatore di una Associazione Culturale che conta attualmente 17 soci, attiva dal 2013.
L'Associazione non si è mai dotata di un fondo patrimoniale, non disponendo nè di lasciti nè di patrimonio proprio (ad eccezione di attrezzatura d'ufficio di modesto valore). Anche le quote apportate annualmente dai soci, essendo la base sociale piuttosto ristretta, sono di importo esiguo.
Vi richiedo pertanto una testo di delibera o dichiarazione d'intenti dei soci fondatori, da sottoporre alla approvazione del Consiglio Direttivo e dell'Assemblea dei soci, finalizzata alla costituzione di un fondo comune mediante accantonamento in denaro, da quantificare sulla base delle disponibilità di bilancio. Tale delibera/dichiarazione d'intenti, dovrà espressamente prevedere un incremento annuo del fondo comune mediante destinazione di una quota dell'utile, da quantificare sempre in base alle disponibilità di bilancio.
Ringrazio e saluto.”
Consulenza legale i 27/12/2021
Per le associazioni non riconosciute si deve parlare di fondo comune patrimoniale, mentre per l’associazione riconosciuta di patrimonio in senso stretto.

Il fondo comune dell’associazione non riconosciuta permette ad essa di ottenere un’autonomia patrimoniale di tipo imperfetto, attraverso la quale essa può difendersi ma non completamente da eventuali misure di responsabilità attuate da possibili creditori dell’ente o del singolo socio.
L’autonomia patrimoniale imperfetta consente, quindi, una parziale suddivisione del patrimonio tra ente e singoli associati, la quale, in caso di azioni di responsabilità, permette ai creditori dell’associazione di rivalersi primariamente sul patrimonio dell’ente e su quello di coloro che specificatamente hanno compiuto in nome e per conto dell’ente stesso l’atto cagionevole di danno ai terzi.
Non è previsto nessun tipo di obbligo relativamente alla forma giuridica che gli atti attestanti tali conferimenti debbano assumere, al contrario di quanto richiesto alle associazioni riconosciute.
Pur non sussistendo nessuna imposizione legislativa, tale associazione ha comunque la facoltà di optare per l’atto pubblico al momento della costituzione e dell’eventuale apporto di beni ad esempio immobili.
È evidente che pur non sussistendo nessuna imposizione legislativa, tale associazione ha comunque la facoltà di optare per l’atto pubblico al momento della costituzione e dell’eventuale apporto di beni ad esempio immobili.

Le associazioni riconosciute, invece, sono enti con personalità giuridica, e beneficiano quindi dell’autonomia patrimoniale perfetta, la quale consente loro una scissione totale e chiara del patrimonio appartenente all’associazione stessa da quello posseduto dai singoli soci.
Le entità che compongono il patrimonio dell’associazione possono provenire da apporti dei soci in sede di costituzione attraverso dei conferimenti di denaro o di singoli beni, ma possono altresì provenire da donazioni fatte da imprese e soggetti privati, quote associative dei singoli soci, contributi raccolti mediante l’organizzazione di eventi o di raccolte fondi, ma anche corrispettivi legati ad un eventuale parallelo, seppur non principale, esercizio di un’attività commerciale.

Venendo al quesito avanzato, in primo luogo sarebbe opportuno verificare se l’associazione è riconosciuta o meno e, nel secondo caso, se effettivamente nello statuto è prevista o meno l’istituzione di un fondo patrimoniale.
In molti casi, infatti, nelle associazioni non riconosciute tale fondo rientra tra le previsioni statutarie, ma non viene messo in attuazione dai consociati nel corso della vita dell’associazione.

In detta eventualità, sarà sufficiente rispettare il disposto dello statuto, seguendo le modalità in esso descritte per dotarsi di un fondo patrimoniale, preferibilmente a mezzo di atto pubblico.
Se effettivamente l'associazione non se n'è mai dotata (neppure per previsione statutaria), si consiglia di recarsi da un notaio, per redigere un’apposita delibera e attuare la contestuale modifica dello statuto, che dovrà eseguirsi mediante atto pubblico.

ENRICO M. chiede
martedì 12/06/2018 - Marche
“Chiedo cortesemente una risposta al seguente quesito:
- in una associazione culturale senza scopo di lucro ( espressamente stabilito dalla statuto ) è possibile deliberare riconoscimenti economici e/o erogazioni una tantum in favore dei soci in considerazione del lavoro svolto da questi in favore dell'associazione medesima ?
Nel caso, come ritengo, ciò non fosse possibile desiderei conoscere anche le sanzioni previste ove si procedesse in tal senso.
Grazie, cordiali saluti.”
Consulenza legale i 19/06/2018
Il quesito proposto richiede di affrontare un problema abbastanza discusso in materia di associazioni non profit, ossia quello della distribuzione, sotto qualsiasi forma, di utili tra gli associati.
Nulla dispongono al riguardo le norme contenute nel codice civile in materia di associazioni non riconosciute, interessandosi del fondo comune dell’associazione soltanto l’art. 37 c.c., il quale tuttavia si limita a stabilire che, finché dura l’associazione, i singoli associati non possono chiedere la divisione del fondo comune, in quanto in tal modo si verrebbe a distogliere una parte di esso dalla finalità per cui la stessa associazione è stata costituita.

In mancanza di una norma specifica, non ci si può che rivolgere, dunque, alla normativa di settore, ed in particolare ai seguenti testi normativi:
  1. Legge quadro n. 266/1991 (art. 2);
  2. D.lgs. 460/1997 (art. 10 comma 1 lett. d)
  3. Legge n. 383/2000, contenente la disciplina delle associazioni di promozione sociale.
La prima di tali normative disciplina espressamente le “Organizzazioni di volontariato”, vietando in maniera assoluta che gli enti di questo tipo possano attribuire un qualsiasi ritorno o vantaggio economico agli aderenti.
La ratio del divieto viene individuata nella stessa nozione di “attività di volontariato”, potendosi qualificare come tale quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte; è chiaro, dunque, che l’attività di volontario non possa che risultare incompatibile con qualunque forma di rapporto di lavoro (sia esso di tipo subordinato o autonomo) e con qualsiasi altro tipo di rapporto con l’ente, a cui possa attribuirsi contenuto patrimoniale.

Una prima apertura verso una forma di attribuzione di vantaggi patrimoniali agli associati si rinviene nel D.lgs. 460/1997, contenente la disciplina degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (le c.d. ONLUS).
In particolare, l’art. 10 comma 1 lett. d) di quest’ultimo testo di legge vieta di distribuire, anche in modo indiretto, utili e avanzi di gestione nonché fondi, riserve o capitale durante la vita dell’organizzazione, pena la perdita della qualifica di ONLUS.
Tale disposizione è stata unanimemente interpretata nel senso che non è ammessa la corresponsione di somme di denaro ai membri del Consiglio direttivo e ai soci per la semplice carica che essi ricoprono, mentre non può assolutamente dirsi vietato che tali soggetti possano essere compensati per le attività che effettivamente prestano, purchè ciò avvenga secondo le forme contrattuali previste dalla vigente legislazione e volte a regolare i rapporti tra gli stessi associati e l’ente (es. contratto di collaborazione).
Sotto quest’ultimo profilo, e sotto l’aspetto quantitativo, occorre che i compensi risultino proporzionali all’attività svolta ed al volume delle entrate dell’associazione, cercandosi pur sempre di evitare di ricadere nel divieto di cui al successivo comma 6 dello stesso art. 10.

Ciò posto, sembra da escludere che nel caso prospettato possa dirsi di essere in presenza di una associazione di volontariato o di una ONLUS (in particolare, di una associazione di quest’ultimo tipo per affermazione espressa di chi pone il quesito, contenuta in una successiva precisazione).
Tale esclusione conduce inevitabilmente a ritenere applicabile la disciplina contenuta nel terzo dei testi normativi all’inizio citati, ossia la Legge n. 383 del 07.12.2000, dettata in materia di associazioni di promozione sociale.
Il comma 1 dell’art. 2 di tale testo di legge qualifica come associazioni di promozione sociale “…le associazioni riconosciute e non riconosciute, i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o federazioni costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati.”

Delle risorse economiche di questo tipo di associazioni si occupa il successivo art. 4, il quale dispone alla lettera f) che esse traggono, tra l’altro, tali risorse, necessarie per il loro funzionamento e per lo svolgimento della loro attività, dai “proventi delle cessioni di beni e servizi agli associati e a terzi, anche attraverso lo svolgimento di attività economiche di natura commerciale, artigianale o agricola, svolta in maniera ausiliaria e sussidiaria e comunque finalizzate al raggiungimento degli obiettivi istituzionali;”.
Ma la norma di tale testo normativo che più ci interessa è quella contenuta nel successivo art. 18, il quale, dopo aver previsto al primo comma che le associazioni di promozione sociale devono avvalersi, per il perseguimento dei fini istituzionali, prevalentemente delle attività prestate in forma volontaria, libera e gratuita dai propri associati, dispone al secondo comma quanto segue:
Le associazioni possono, inoltre, in caso di particolare necessità assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo, anche ricorrendo a propri associati”.

E’ proprio quest’ultima norma a legittimare esplicitamente che le associazioni di promozione sociale (quale può considerarsi quella culturale in esame) possano avvalersi dell’opera retribuita dei soci, esistendo soltanto una limitazione nell’ammontare massimo delle retribuzioni, costituito dal divieto di corrispondere utili in modo indiretto (es. aumentando in maniera fittizia tali retribuzioni).
Circa le forme contrattuali cui può farsi ricorso, si suggerisce una prestazione di lavoro autonomo di natura occasionale.

Sarà solo rispettando i suddetti parametri che non potrà corrersi il rischio di andare incontro ad alcuna sanzione, al contrario invece di quanto previsto dall’art. 28 del D.lgs 460/1997 in materia di ONLUS (norma che disciplina, appunto, le sanzioni e responsabilità dei rappresentanti legali e amministratori di tali enti per le violazioni di cui alla lettera d) comma 1 dell’art. 10 prima analizzato).

Sara chiede
martedì 28/09/2010

“Un associato di un'associazione non riconosciuta può di sua iniziativa prelevare ed impiegare il denaro della stessa per fini propri? Credo proprio di no, ma in quale responsabilità incorre? Come fare a farsi restituire le somme prelevate?”

Consulenza legale i 27/12/2010

E' certamente illecito il comportamento dell'associato che impieghi somme di denaro presenti nelle casse dell'associazione a fini personali, e ciò indipendentemente dal fatto che la persona giuridica sia o meno riconosciuta.

Il fondo comune dell'associazione non riconosciuta (art. 37 del c.c.) è costituito dai contributi degli associati, da liberalità di terzi, da incentivi, sovvenzioni pubbliche, etc., e le somme in esso custodite possono essere utilizzate esclusivamente per gli scopi sociali predefiniti, o per soddisfare le ragioni dei creditori dell'associazione. I creditori personali degli associati non possono aggredire il fondo.

Si sottolinea, inoltre, che opera un divieto ex lege di divisione del fondo comune sino al completo scioglimento dell'associazione non riconosciuta.

Per la restituzione delle somme sarà necessario agire giudizialmente, in via ordinaria, chiedendo la ripetizione di quanto illecitamente sottratto ai sensi dell'art. 2043 del c.c.. Ricorrendone gli estremi, potrebbe essere esperito un ricorso cautelare ex art. 671 del c.p.c. diretto al sequestro conservativo dei beni dell'associato. E' naturalmente consigliabile il previo ricorso a tentativi di soluzione stragiudiziale, ad esempio l'invio di raccomandata in cui si anticipino le domande che verranno formulate in sede giudiziale e si inviti il soggetto a restituire spontaneamente le somme onde evitare ulteriori aggravi.


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