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Articolo 18 Testo unico IVA

(D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633)

[Aggiornato al 22/02/2024]

Rivalsa

Dispositivo dell'art. 18 Testo unico IVA

Il soggetto che effettua la cessione di beni o prestazione di servizi imponibile deve addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o al committente. Per le operazioni per le quali non è prescritta l'emissione della fattura il prezzo o il corrispettivo si intende comprensivo dell'imposta. Se la fattura è emessa su richiesta del cliente il prezzo o il corrispettivo deve essere diminuito della percentuale indicata nel quarto comma dell'art. 27.

La rivalsa non è obbligatoria per le cessioni di cui ai numeri 4) e 5) del secondo comma dell'articolo 2 e per le prestazioni di servizi di cui al terzo comma, primo periodo, dell'articolo 3.

È nullo ogni patto contrario alle disposizioni dei commi precedenti.

Il credito di rivalsa ha privilegio speciale sui beni immobili oggetto della cessione o ai quali si riferisce il servizio ai sensi degli articoli 2758 e 2772 del codice civile e, se relativo alla cessione di beni mobili, ha privilegio sulla generalità dei mobili del debitore con lo stesso grado del privilegio generale stabilito nell'art. 2752 del codice civile, cui tuttavia è posposto.

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Consulenze legali
relative all'articolo 18 Testo unico IVA

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

Franca R. chiede
martedì 18/08/2020 - Liguria
“Gli importi di un pignoramento di condanna alla parte soccombente per il pagamento delle spese processuali in favore della parte vittoriosa quando nell'importo è comprensivo dell'iva e la parte vittoriosa, (Legale e/o cliente) è soggetto passivo, in riferimento alla sentenza Cass. civ. 11877/2007, all'art. 18 DPR 26/10/1972 n. 633 e/o quant'altro in merito e se l'IVA nell'eventuale reitera dell'atto di precetto può essere sommata?(sommata due volte)
Le spese di registro addebitate nell'atto ma non pagate, per le quale Agenzia Entrate ha inviato alla parte soccombente avvivo di liquidazione, quando è già stata emessa la sentenza.”
Consulenza legale i 03/09/2020
La sentenza della III Sezione civile della Cassazione, n. 11877/2007, correttamente citata nel quesito, ha chiarito appunto che “la sentenza di condanna della parte soccombente al pagamento delle spese processuali in favore della parte vittoriosa, liquidandone l'ammontare, costituisce titolo esecutivo, pur in difetto di un'espressa domanda e di una specifica pronuncia, anche per conseguire il rimborso dell'I.V.A. che la medesima parte vittoriosa assuma di aver versato al proprio difensore, in sede di rivalsa e secondo le prescrizioni dell'art. 18 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, trattandosi di un onere accessorio che, in via generale, ai sensi dell'art. 91, comma primo, cod. proc. civ., consegue al pagamento degli onorari al difensore".
Tuttavia, prosegue la pronuncia in esame, “la deducibilità di tale imposta potrebbe, eventualmente, rilevare solo in ambito esecutivo, con la conseguente possibilità, per la parte soccombente, di esercitare la facoltà di contestare sul punto il titolo esecutivo con opposizione a precetto o all'esecuzione, al fine di far valere eventuali circostanze che, secondo le previsioni del citato d.P.R. n. 633 del 1972, possano escludere, nei singoli casi, la concreta rivalsa o, comunque, l'esigibilità dell'I.V.A.”.
Tali principi sono stati ribaditi di recente da Cass. Civ., Sez. II, n. 4674/2017: “tra le spese processuali che la parte soccombente deve essere condannata a rimborsare al vincitore rientra anche la somma dovuta da quest'ultimo al proprio difensore a titolo di I.V.A., costituendo tale imposta una voce accessoria, di natura fiscale, del corrispettivo dovuto per prestazioni professionali relative alla difesa in giudizio. L'eventualità che la parte vittoriosa, per la propria qualità personale, possa portare in detrazione l'I.V.A. dovuta al proprio difensore non incide su detta condanna della parte soccombente, trattandosi di una questione rilevante solo in sede di esecuzione, poiché la condanna al pagamento dell'I.V.A. in aggiunta ad una data somma dovuta dal soccombente per rimborso di diritti e di onorari deve intendersi in ogni caso sottoposta alla condizione della effettiva doverosità di tale prestazione aggiuntiva”.
Dunque è proprio in fase esecutiva che può farsi valere la eventuale non debenza dell’IVA per essere parte vincitrice soggetto passivo IVA, e lo strumento processuale da utilizzare è quello dell’opposizione all’esecuzione di cui all’art. 615 del c.p.c., di cui si parlerà tra poco.
Quando al conteggio, nel precetto, dell’importo relativo alla registrazione della sentenza, sempre la Cassazione (Sez. III, sent. n. 1198/2012) ha ribadito che “la sentenza non costituisce titolo esecutivo quanto alle spese di registrazione che la parte abbia sostenuto successivamente alla pronuncia”.
Pertanto, secondo la Suprema Corte, la parte che abbia sostenuto le spese di registrazione ha il diritto di ripeterne l'importo dalla controparte (nella misura risultante dalla ripartizione delle spese contenuta nella sentenza impugnata) solo in presenza dei presupposti per l'esercizio dell'azione di regresso fra condebitori solidali, prima fra tutti - precisa la Corte - la prova dell'avvenuto pagamento dell'imposta di cui si chiede il rimborso.
Anche l’illegittimo addebito, in sede di precetto, dell’imposta di registro non pagata dovrà essere contestato con l’opposizione all’esecuzione, nelle forme e nei termini previsti dall’art. 615 c.p.c.
In particolare, tale ultima norma prevede che, quando si contesta il diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata e questa non è ancora iniziata, si può proporre opposizione al precetto con citazione davanti al giudice competente per materia o valore e per territorio. In presenza di gravi motivi si può chiedere la sospensione, totale o parziale, dell'efficacia esecutiva del titolo.
Quando, invece, l’esecuzione è già iniziata, l'opposizione al precetto e quella che riguarda la pignorabilità dei beni si propongono con ricorso al giudice dell'esecuzione stessa.

Roberto T. chiede
lunedì 18/03/2019 - Piemonte
“OGGETTO: GIUDICE DEL REGISTRO
Buongiorno,
una Ditta individuale ha continuato a fornire materiale e ad emettere (ir)regolari fatture sia a noi che ad altre aziende, fino al 2012, nonostante si sia formalmente cancellata dal R.I. il 03.02.2005 (chiudendo altresì la P. I.V.A. il 31.12.2004), naturalmente tacendo la grave compromissione creata. Il fatto emerso in seguito ad una verifica della GDF nell'anno 2013. Possiamo, e a chi ci dobbiamo rivolgere per richiedere la retro-iscrizione ovvero l'annullamento della cancellazione dal R.I.? Qual'è la prassi? Il fine della richiesta è l'ottenimento della soggettività della Ditta.
Anticipatamente ringrazio, RT”
Consulenza legale i 25/03/2019
Il meccanismo applicativo dell’IVA si basa su due principi generali: la rivalsa e la detrazione dell’imposta. Il soggetto passivo che effettua l’operazione imponibile ha l’obbligo di addebitare in fattura al proprio cessionario o committente, a titolo di rivalsa, la relativa imposta (art. 18 del d.P.R. n. 633/1972). Il cessionario o il committente, se soggetto passivo d’imposta, a sua volta ha il diritto di detrarre dall’imposta relativa alle operazioni imponibili, dallo stesso effettuate, l’IVA assolta a titolo di rivalsa (art. 19 del d.P.R. n. 633/1972). Questi due principi garantiscono la neutralità dell’imposta in capo ai soggetti economici e l’incidenza della stessa nei confronti dei consumatori finali.

Con particolare riferimento alla detrazione, nella disciplina IVA è stabilito che “é detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal contribuente o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni e ai servizi importati o acquistati nell’esercizio d’impresa, arte o professione”, (art. 19, comma 1, d.P.R. n. 633/1972).

Dalla norma si desume che la detrazione è ammessa a condizione che:
  • l’acquisto sia inerente all’attività imprenditoriale o professionale dell’acquirente;
  • vi sia una fattura, regolarmente registrata nel registro degli acquisti, con addebito di IVA, salvo il diverso caso delle importazioni in cui l’imposta dovuta non risulta da una fattura.
Il diritto alla detrazione dell’imposta da parte del cessionario o committente è, dunque, strettamente correlato al momento in cui nasce nel cedente o prestatore il corrispondente obbligo di versamento.

È, infatti, stabilito che il diritto alla detrazione “sorge” nel momento in cui l’imposta “diviene esigibile”, cioè, generalmente nel momento in cui l’operazione si considera effettuata.
È bene precisare che il diritto alla detrazione è escluso se viene esercitato in modo fraudolento o abusivo o, comunque illegittimo, ad esempio a seguito di operazioni inesistenti o non inerenti (ris. 5 gennaio 1982, n. 334298; Cass., 10 giugno 2005, n. 12353).
Secondo la giurisprudenza comunitaria più recente, tuttavia, l’esclusione del diritto alla detrazione è legato alla consapevolezza dell’acquirente in merito alla realizzazione dell’operazione fraudolenta (c.d. malafede). Infatti, soltanto qualora si provi che il soggetto passivo abbia collaborato con gli autori della frode, e ne sia complice, si può negare il diritto alla detrazione dell’IVA (C. Giust. CE, 6 luglio 2006, n. C-439/04). La rilevanza della buona fede è stata evidenziata anche in relazione alle cessioni intracomunitarie.

Il contribuente, quindi, che acquista da fornitore “in nero”, come nel caso di specie, si espone al rischio di vedere negato il proprio diritto alla detrazione dell’imposta assolta in rivalsa, a meno che non dimostri la propria buonafede.

Secondo la giurisprudenza di merito, tra cui si colloca la recente sentenza 183/2018 della CTR della Puglia, il diniego del diritto alla detrazione non è legittimo laddove manchi la prova della consapevolezza della frode da parte del cessionario. Infatti, per negare la detraibilità dell’Iva in capo all’acquirente, in caso di evasione commessa dal cedente o da soggetti terzi, è l’amministrazione finanziaria che deve fornire la prova che il cessionario sapeva (o avrebbe potuto sapere) che partecipava a un’operazione evasiva.

Riprendendo la sentenza di Cassazione 17878 del 2016, nella sentenza della CTR pugliese si legge che “in tema d’Iva, l’amministrazione finanziaria che contesti la cd. frode carosello, deve provare anche a mezzo di presunzioni semplici, purché gravi, precisi e concordanti, gli elementi di fatto attinenti al cedente (come l’insistenza di una struttura autonoma operativa, il mancato pagamento dell’IVA) la connivenza da parte del cessionario, indicando gli elementi oggettivi che, tenuto conto delle concrete circostanze, avrebbero dovuto indurre un normale operatore a sospettare dell’irregolarità delle operazioni”.

A tal fine, il contribuente deve dimostrare:
  • di aver concluso realmente l’operazione con il cedente,
  • di essersi trovato nella situazione di oggettiva impossibilità, nonostante l’impiego della dovuta diligenza, di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolente dell’operazione.

In particolare l’effettività delle operazioni contestate si può dimostrare tramite:
  • la congruità dei prezzi di scambio,
  • la consegna del materiale oggetto di contestazione,
  • il suo impiego nell’attività di impresa,
  • la presenza di rapporti intrattenuti non direttamente con il cedente ma con suo rappresentante che svolgeva abitualmente tale attività.

In occasione di Telefisco 2018, è stato chiesto alla Guardia di Finanza qualche esemplificazione (documentazione, situazione soggettiva eccetera) in cui concretamente potrebbe essere riconosciuta dai verificatori la buona fede.
In generale, infatti, per poter comunque usufruire del diritto alla detrazione dell’Iva assolta sugli acquisti, il cessionario è tenuto a provare con qualsiasi mezzo di avere agito in maniera accorta e con la massima diligenza possibile, adottando ogni ragionevole cautela per evitare di essere coinvolto in un sistema di frode.
In presenza di concreti indizi di frode all’Iva, i verificatori sono chiamati dunque a esaminare il comportamento realmente tenuto dal contribuente-cessionario, valutando con attenzione tutte le circostanze utili a comprendere il suo stato soggettivo e la loro efficacia dimostrativa nel complesso, guidati soprattutto dalle indicazioni offerte dalla giurisprudenza.

In generale, in base alla giurisprudenza possono essere considerate prove a favore del contribuente:
  • prezzo praticato in linea con quanto normalmente praticato,
  • corrispondenza commerciale
  • verifica dell’esistenza della società controparte.
Riguardo a quest’ultimo riscontro, non bisogna dimenticare che, così come espressamente previsto dall’art. 35 quater del d.P.R. n. 633/1972, “al fine di contrastare le frodi in materia di imposta sul valore aggiunto, l'Agenzia delle entrate rende disponibile a chiunque, con servizio di libero accesso, la possibilità di verificare puntualmente, mediante i dati disponibili in anagrafe tributaria, la validità del numero di partita IVA attribuito ai sensi dell’articolo 35 o 35-ter. Il servizio fornisce le informazioni relative allo stato di attività della partita IVA inserita e alla denominazione del soggetto o, in assenza di questa, al cognome e nome della persona fisica titolare”.

La predetta disposizione è stata introdotta, nel corpo del d.P.R. n. 633/72, dall’art. 8 del D.L. n. 16/2012, convertito con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012 n. 44, norma finalizzata al contrasto delle frodi IVA, contenente disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento.

Per ritornare al caso di specie, il non avere effettuato, quindi, la verifica dell’effettiva “esistenza fiscale” della controparte, in presenza di un cedente che non ha affatto dichiarato e versato l’IVA dovuta, potrebbe esporre al rischio di una contestazione della detraibilità dell’IVA assolta e, rendere necessario fornire ulteriori elementi di prova in ordine alla buonafede di cui si è detto.
Ovviamente la riattribuzione della partita IVA potrebbe essere operata solo dall’ufficio, di propria iniziativa, o su richiesta dello stesso cedente ma, certamente, non su istanza del cessionario, sul quale gravano, invece, altri obblighi, di cui abbiamo detto prima.

Riguardo alla procedura tramite cui si trasmettono gli elenchi clienti e fornitori, ed al fatto che la stessa non effettua alcuno “scarto” con riferimento alle partite IVA cessate, occorre considerare che detto strumento nasce dalla necessità di incrociare i dati tra clienti e fornitori al fine di prevenire e contrastare frodi in materia di Iva, individuando quei soggetti intestatari di imprese fantasma che emettono fatture per operazioni inesistenti e/o scompaiono evitando di versare l’Iva addebitata alla controparte, spesso inconsapevole della frode. Dagli incroci è, infatti, possibile riscontrare l’eventuale mancata dichiarazione di fatture emesse o la duplice annotazione di fatture di acquisto.

La disponibilità degli elenchi, infine, permette di incrociare i dati comunicati dai contribuenti con tutti gli altri dell’Anagrafe Tributaria (principalmente quelli relativi alla comunicazione dati e alla dichiarazione Iva, ma anche alle comunicazioni delle lettere di intento ricevute da esportatori abituali) costituendo una fonte informativa sulle dinamiche di produzione dei redditi d’impresa e di lavoro autonomo. Pertanto, non desta meraviglia l’assenza di scarto da parte della procedura di trasmissione degli elenchi clienti e fornitori.