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Articolo 2 Codice dei beni culturali e del paesaggio

(D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42)

[Aggiornato al 10/10/2023]

Patrimonio culturale

Dispositivo dell'art. 2 Codice dei beni culturali e del paesaggio

1. Il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici.

2. Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà.

3. Sono beni paesaggistici gli immobili e le aree indicati all'articolo 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge.

4. I beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela.

Massime relative all'art. 2 Codice dei beni culturali e del paesaggio

Cons. Stato n. 6819/2018

Le scelte tecnico-valutative amministrative in materia di tutela del bene culturale sono insindacabili, salvo che per manifesta illogicità. Le scelte tecnico-valutative amministrative in materia di tutela del bene culturale, discendenti dall'applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche proprie di settori caratterizzati da ampi margini di opinabilità, da esercitarsi in rapporto al principio fondamentale dell'art. 9 Cost., sono sindacabili, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, anche sotto l'aspetto della correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell'Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile.

Cass. pen. n. 10468/2018

L'art. 174 D.Lgs. n. 42 del 2004 (uscita o esportazione di beni culturali) si applica non solo al patrimonio culturale dichiarato, ma anche a quello reale. La tutela penale, altrimenti detto, prescinde da una dichiarazione delle autorità competenti che, secondo le procedure previste dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, attesti formalmente la culturalità del bene: è invece necessario e sufficiente che il bene stesso presenti, sul piano sostanziale, un oggettivo interesse culturale.

Corte cost. n. 140/2015

Sono costituzionalmente illegittimi per violazione dell'art. 120 Cost. gli artt. 2-bis e 4-bis del D.L. 8 agosto 2013, n. 191 (introdotti dalla legge di conversione 7 ottobre 2013, n. 112), nella parte in cui non prevedono l'intesa fra Stato e Regioni in tema di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Le disposizioni impugnate, che modificando l'art. 52 del Codice dei beni culturali e del paesaggio attribuiscono rispettivamente ai Comuni, sentito il soprintendente, i poteri di promozione e salvaguardia delle attività commerciali e artigianali tradizionali, e alle Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici e alle soprintendenze il potere, sentiti gli enti locali, di vietare gli usi di attività ambulanti e di posteggio ritenuti non compatibili con la tutela e la valorizzazione delle aree pubbliche aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico. Il legislatore statale ha ampliato l'originaria portata precettiva del citato art. 52, perseguendo finalità non solo di tutela dei beni culturali, ma anche della valorizzazione e promozione in genere del patrimonio culturale. Tale patrimonio, costituendo un bene intrinsecamente comune e refrattario ad arbitrarie frantumazioni, è affidato alla cura della Repubblica nelle sue varie articolazioni, dovendosi pertanto individuare una ideale contiguità tra le funzioni di tutela (intesa come l'individuazione, la protezione e la conservazione dei beni che costituiscono il patrimonio culturale), affidate alla competenza esclusiva dello Stato, e quelle di valorizzazione (intesa come la migliore conoscenza, fruizione e utilizzo dei medesimi), assegnate invece alla competenza concorrente di Stato e Regioni. Come nel caso in esame tale contiguità può determinare, nella naturale dinamica della produzione legislativa, una situazione di concorrenza di competenze, causata dalla circostanza che la norma statale di tutela detta una disciplina incidente direttamente e non in via riflessa sull'ambito della valorizzazione. Non potendosi ravvisare in queste occasioni una materia (e una competenza) prevalente sulle altre, e non essendo applicabile il criterio della prevalenza, si impone quello della leale collaborazione tra Stato e sistema delle autonomie, di cui all'art. 120 Cost., il cui precipitato giuridico è l'intesa. (Sono da considerarsi assorbite le ulteriori censure avanzate, riferite agli artt. 117, terzo e quarto comma, art. 118, nonché art. 118, terzo comma, Cost.).

Corte cost. n. 194/2013

Sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 1, comma 2, 2 e 4, commi 1, 2, e 3, della legge della Regione Lombardia 31 luglio 2012, n. 16, che attribuiscono alla Regione Lombardia «le attività e gli interventi di ricerca, raccolta, conservazione e valorizzazione» dei reperti mobili e dei cimeli storici che si trovano sul territorio regionale, prevedendo altresì che del rinvenimento del bene sia data «comunicazione scritta al sindaco del comune competente per territorio entro quindici giorni dal ritrovamento» e che il sindaco trasmetta le comunicazioni ricevute «alla Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Lombardia per gli atti di sua competenza, entro sessanta giorni dal ricevimento». Esse sono state impugnate per contrasto con l'art. 117, commi secondo, lett. s ), e terzo, Cost., in relazione agli artt. 10 e 88 del D.Lgs n. 42 del 2004, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio (i quali stabiliscono che «le opere per il ritrovamento» di tutte le cose «che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico» spettano allo Stato e «sono riservate al Ministero per i beni e le attività culturali») nonché in riferimento all'art. 90 dello stesso codice (il quale, relativamente alla denuncia della scoperta dei beni d'interesse culturale, stabilisce una procedura e dei termini diversi da quelli stabiliti dall'art. 4, commi 2 e 3, della legge impugnata). Il profilo di censura che assume particolare e decisivo rilievo - sul piano logico oltre che su quello pratico - è quello concernente l'accertamento o la verifica della effettiva sussistenza dell'interesse culturale che queste cose possono presentare e, dunque, di quel carattere dal quale consegua la loro sicura appartenenza al «patrimonio culturale». È, infatti, indubitabile che soltanto la disciplina statale - specialmente nel codice dei beni culturali - possa assicurare, in funzione di tutela (e, in considerazione della unitarietà del patrimonio culturale), le misure più adeguate rispetto a questo scopo: anzitutto per la previsione di specifici procedimenti e di dettagliate procedure di ricognizione e di riscontro delle caratteristiche dei beni e poi per l'attribuzione a competenti apparati di compiti che richiedono conoscenze altamente specializzate e l'impiego di criteri omogenei, da adottare, «sulla base di indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero», «al fine di assicurare uniformità di valutazione» (art. 12, comma 2). Pertanto, se la legge regionale in oggetto avesse effettivamente inteso evitare di sovrapporsi alla disciplina dello Stato, avrebbe dovuto prevederlo in maniera inequivoca: non già solo, cioè, genericamente escludendo di riferirsi - con una formula destinata a risultare quasi di stile - ai beni di cui all'art. 10 del codice dei beni culturali, ma piuttosto direttamente prevedendo di rivolgersi soltanto a quelle cose che, in quanto non riconosciute o non dichiarate di "interesse culturale", all'esito dei previsti procedimenti, risultassero, perciò, escluse, come previsto, dall'applicazione delle disposizioni del codice (art. 12, comma 4, e artt. 13 e seguenti del codice dei beni culturali), in quanto non ricomprensibili nel novero dei beni culturali di cui al predetto art. 10. La circostanza, infatti, che una specifica cosa non venga "classificata" dallo Stato come di «interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico», e dunque non venga considerata come «bene culturale», non equivale ad escludere che essa possa, invece, presentare, sia pure residualmente, un qualche interesse "culturale" per una determinata comunità territoriale: restando questo interesse ancorato, in ipotesi, a un patrimonio identitario inalienabile, di idealità e di esperienze e perfino di simboli, di quella singola e specifica comunità. In tale contesto e solo entro tali limiti, la potestà legislativa delle Regioni può dunque legittimamente esercitarsi - al di fuori dello schema tutela/valorizzazione - non già in posizione antagonistica rispetto allo Stato, ma in funzione di una salvaguardia diversa ed aggiuntiva: volta a far sì che, nella predisposizione degli strumenti normativi, ci si possa rivolgere - come questa Corte ha avuto modo di sottolineare (sentenza n. 232 del 2005) - oltre che ai «beni culturali» identificati secondo la disciplina statale, e rilevanti sul piano della memoria dell'intera comunità nazionale, eventualmente (e residualmente) anche ad altre espressioni di una memoria "particolare", coltivata in quelle terre da parte di quelle persone, con le proprie peculiarità e le proprie storie.

Cons. Stato n. 5986/2008

È illegittima la dichiarazione di interesse particolarmente importante dell'immobile con annessi beni mobili denominato Casa-Studio Dalla, per violazione dell'art. 14, D.Lgs. n. 42/2004, in quanto, pur nell'ampia discrezionalità riconosciutale, la Soprintendenza è comunque tenuta a valutazioni sull'adeguatezza e ragionevolezza del vincolo e ad un proporzionale bilanciamento degli interessi coinvolti, criteri non indagati nell'imposizione di un vincolo sul tutto, caratterizzato da aleatorietà e indeterminatezza, stante il difetto di istruttoria dovuto al mero richiamo ad una precedente relazione di massima e sommaria e la mancata individuazione delle cose mobili ricadenti nel vincolo.

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