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Articolo 2598 Codice Civile

(R.D. 16 marzo 1942, n. 262)

[Aggiornato al 31/01/2024]

Atti di concorrenza sleale

Dispositivo dell'art. 2598 Codice Civile

Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi [2563, 2568, 2569] e dei diritti di brevetto [2584, 2592, 2593], compie atti di concorrenza(1) sleale chiunque:

  1. 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione [2564] con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente;
  2. 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente(2);
  3. 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda [1175, 2599, 2600].

Note

(1) Si trovano in situazione di concorrenza tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori, pur operando in qualsiasi fase della produzione degli stessi. Deve trattarsi quindi di soggetti che operano nello stesso stadio della catena produttiva-distributiva di mercato.
(2) Si parla di concorrenza sleale per denigrazione o per vanteria quando vengono diffuse notizie ed apprezzamenti sull'attività altrui tali da screditare la medesima. È richiesta una effettiva divulgazione ad una pluralità di persone, non essendo tale fattispecie configurabile nell'ipotesi di esternazioni occasionali a singoli interlocutori.

Ratio Legis

La ratio della norma è quella di imporre alle imprese operanti nel mercato regole di correttezza e di lealtà, in modo che nessuna si avvantaggi, nella diffusione e collocazione dei propri prodotti, con l'utilizzo di metodi contrari all'etica commerciale.

Spiegazione dell'art. 2598 Codice Civile

La concorrenza sleale deve consistere in attività dirette ad appropriarsi illegittimamente dello spazio di mercato ovvero della clientela del concorrente, che si concretizzino nella confusione dei segni prodotti, nella diffusione di notizie e di apprezzamenti sui prodotti e sull'attività del concorrente o in atti non conformi alla correttezza professionale; con la conseguenza che l'illecito non può derivare dal danno commerciale in sé, né nel fatto che una condotta individuale di mercato produca diminuzione di affari nel concorrente, in quanto il gioco della concorrenza rende legittime condotte egoistiche, dirette al perseguimento di maggiori affari, attuate senza rottura delle indicate regole legali della concorrenza.

In tema di concorrenza sleale, presupposto indefettibile dell'illecito e la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, e quindi la comunanza di clientela, la quale non è data dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che sono in grado di soddisfare quel bisogno. La sussistenza di tale requisito va verificata anche in una prospettiva potenziale, dovendosi esaminare se l'attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi su quello merceologico, l'offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale.

In tema di concorrenza sleale, il cosiddetto «illecito confusorio», di cui al primo comma, non postula la antecedente o parallela violazione delle regole poste a tutela dei segni distintivi e delle invenzioni, ragion per cui, in tema — ad esempio — di attività imprenditoriale di pubblicità, qualora la mancanza di novità di una determinata iniziativa renda inconfigurabile una tutela brevettuale, non resta nondimeno escluso che possa configurarsi l'illecito in questione, dovendosi in realtà accertare, caso per caso, se, con qualunque mezzo, siano stati posti in essere atti idonei a creare confusione con i prodotti e le attività del concorrente.

L'azione per la repressione della concorrenza sleale e l'azione a tutela del marchio sono diverse per natura, presupposti e oggetto, in quanto la prima, avente carattere personale, presuppone la confondibilità con i prodotti della concorrente e, quindi, la possibilità di uno sviamento della clientela, con conseguente danno, mentre la seconda, avente natura reale, opera indipendentemente dalla confondibilità dei prodotti.

Ai fini della configurabilità della concorrenza sleale per denigrazione, le notizie e gli apprezzamenti diffusi tra il pubblico non debbono necessariamente riguardare i prodotti dell'impresa concorrente ma possono avere ad oggetto anche circostanze od opinioni inerenti in generale l'attività di quest'ultima, la sua organizzazione o il modo di agire dell'imprenditore nell'ambito professionale (esclusa la sfera strettamente personale e privata), la cui conoscenza da parte dei terzi risulti comunque idonea a ripercuotersi negativamente sulla considerazione di cui l'impresa gode presso i consumatori, dovendosi apprezzare, ai fini della potenzialità lesiva delle denigrazioni, non solo l'effettiva «diffusione» tra un numero indeterminato (od una pluralità) di persone ma anche il contenuto fortemente diffamatorio degli apprezzamenti stessi ed anche la potenzialità espansiva della comunicazione per la scelta dei destinatari.
Non costituisce attività di concorrenza sleale la pubblicità comparativa, mediante la quale l'imprenditore mira a rendere noto alla clientela che il proprio prodotto ha delle caratteristiche diverse da quello della concorrenza, a meno che la suddetta comparazione non si traduca per il contenuto e per la forma nella denigrazione dell'altrui prodotto.

Ai fini della affermazione della responsabilità per concorrenza sleale e sufficiente l'idoneità dell'atto denunciato a produrre effetti di mercato dannosi per il concorrente, ma non è richiesta la dimostrazione dell'effettiva produzione del danno. La responsabilità a titolo di concorrenza sleale, ai sensi dell'art. 2598, numero 3), presuppone che l'imprenditore si sia avvalso di un mezzo, non soltanto contrario ai principi della correttezza professionale, ma anche idoneo a danneggiare l'altrui azienda; pertanto detta responsabilità non opera allorché il giudice accerti che il comportamento denunciato non abbia provocato alcun pericolo di sviamento di clientela in danno dell'imprenditore denunciante.

Massime relative all'art. 2598 Codice Civile

Cass. civ. n. 12049/2023

In tema di concorrenza sleale, la violazione di norme pubblicistiche non integra necessariamente un atto anticoncorrenziale ex art. 2598, n. 3, c.c., dovendosi distinguere tra norme volte a porre limiti all'esercizio dell'attività imprenditoriale, la cui violazione è sempre riconducibile entro il paradigma contemplato da detta disposizione, e norme che impongono costi alle imprese operanti sul mercato, la cui violazione non costituisce di per sé l'illecito in parola, occorrendo che l'imprenditore che si duole degli atti del concorrente ne dimostri l'attitudine potenzialmente lesiva dei propri diritti, mediante malizioso ed artificioso squilibrio delle condizioni di mercato.

Cass. civ. n. 6876/2023

In tema concorrenza sleale, la tutela risarcitoria va riconosciuta anche con riferimento alla realizzazione di atti preparatori rispetto a quelli presi in considerazione dall'art. 2598 c.c., qualora sia dimostrata l'esistenza di un danno eziologicamente collegato a questi ultimi; ove il pregiudizio riguardi l'immagine e l'apprezzamento che i consumatori nutrono per i prodotti commercializzati con un determinato segno distintivo, il risarcimento è parametrato, oltre che sul danno emergente e sul danno non patrimoniale, anche sul danno da lucro cessante, sempreché la condotta lesiva abbia determinato una contrazione dei ricavi del danneggiato o abbia avuto, comunque, un'incidenza sul relativo importo.

Cass. civ. n. 18034/2022

In tema di atti di concorrenza sleale, l'art. 2598, n. 3, c.c., costituisce una disposizione aperta che spetta al giudice riempire di contenuti, avuto riguardo alla naturale atipicità del mercato ed alla rottura della regola della correttezza commerciale, sì che in tale previsione rientrano tutte quelle condotte che, coerentemente con la suddetta ratio, ancorché non tipizzate, abbiano come effetto l'appropriazione illecita del risultato di mercato della impresa concorrente.

Cass. civ. n. 8944/2020

In tema di concorrenza sleale per confusione dei prodotti, l'imitazione rilevante ai sensi dell'art. 2598, n. 1, c.c. non esige la riproduzione di qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo di quella che investe le caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante, in quanto idonee, per capacità distintiva, a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa, sempreché la ripetizione dei connotati formali non si limiti a quei profili resi necessari dalle caratteristiche funzionali del prodotto.

Cass. civ. n. 7676/2020

In tema di concorrenza sleale, la violazione di norme pubblicistiche che non siano direttamente rivolte a porre limiti all'esercizio dell'attività imprenditoriale non integra di per sé la fattispecie illecita di cui all'art. 2598, n. 3, c.c., dovendo piuttosto accompagnarsi alla violazione anzidetta il compimento di atti di concorrenza potenzialmente lesivi dei diritti altrui, mediante malizioso ed artificioso squilibrio delle condizioni di mercato.

Cass. civ. n. 18772/2019

Può configurarsi un atto di concorrenza sleale in presenza del trasferimento di un complesso di informazioni aziendali da parte di un ex dipendente di imprenditore concorrente, pur non costituenti oggetto di un vero e proprio diritto di proprietà industriale quali informazioni riservate o segreti commerciali, ma è necessario che ci si trovi in presenza di un complesso organizzato e strutturato di dati cognitivi, seppur non segretati e protetti, che superino la capacità mnemonica e l'esperienza del singolo normale individuo e configurino così una banca dati che, arricchendo la conoscenza del concorrente, sia capace di fornirgli un vantaggio competitivo che trascenda la capacità e le esperienze del lavoratore acquisito.

Gli atti di concorrenza sleale di cui all'art. 2598 c.c. presuppongono un rapporto di concorrenza tra imprenditori, sicché la legittimazione attiva e passiva all'azione richiede il possesso della qualità di imprenditore; ciò, tuttavia, non esclude la possibilità del compimento di un atto di concorrenza sleale da parte di chi si trovi in una relazione particolare con l'imprenditore, soggetto avvantaggiato, tale da far ritenere che l'attività posta in essere sia stata oggettivamente svolta nell'interesse di quest'ultimo, non essendo indispensabile la prova che tra i due sia intercorso un "pactum sceleris", ed essendo invece sufficiente il dato oggettivo consistente nell'esistenza di una relazione di interessi tra l'autore dell'atto e l'imprenditore avvantaggiato, in carenza del quale l'attività del primo può eventualmente integrare un illecito ex art. 2043, c.c., ma non un atto di concorrenza sleale.

In materia di concorrenza sleale, qualora risulti prospettata la ricorrenza di un illecito concorrenziale tra imprenditori posto in essere valendosi delle informazioni fornite da un lavoratore, prima dipendente dell'uno e poi dell'altro, è ammissibile la prosecuzione dei giudizio nei confronti del lavoratore dipendente, uno dei corresponsabili solidali originariamente individuati, sebbene la controversia tra gli imprenditori sia cessata, avendo essi raggiunto un accordo transattivo.

Cass. civ. n. 25607/2018

La concorrenza sleale parassitaria, ricompresa fra le ipotesi previste dall'art. 2598, n. 3, c.c., consiste in un continuo e sistematico operare sulle orme dell'imprenditore concorrente attraverso l'imitazione non tanto dei prodotti ma piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest'ultimo, mediante comportamenti idonei a danneggiare l'altrui azienda con ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale; essa si riferisce a mezzi diversi e distinti da quelli relativi ai casi tipici di cui ai precedenti nn. 1 e 2 della medesima disposizione, sicché, ove si sia correttamente escluso nell'elemento dell'imitazione servile dei prodotti altrui il centro dell'attività imitativa (requisito pertinente alla sola fattispecie di concorrenza sleale prevista dal n. 1 dello stesso art. 2598 c.c.), debbono essere indicate le attività del concorrente sistematicamente e durevolmente plagiate, con l'adozione e lo sfruttamento, più o meno integrale ed immediato, di ogni sua iniziativa, studio o ricerca, contrari alle regole della correttezza professionale.

Nella cosiddetta concorrenza parassitaria, l'imitazione può considerarsi illecita soltanto se effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (nella concorrenza parassitaria diacronica) o dall'ultima e più significativa di esse (in quella sincronica), là dove per "breve" deve intendersi quell'arco di tempo per tutta la durata del quale l'ideatore della nuova iniziativa ha ragione di attendersi utilità particolari (di incassi, di pubblicità, di avviamento) dal lancio della novità, ovvero fino a quando essa è considerata tale dai clienti e si impone, quindi, alla loro attenzione nella scelta del prodotto. Ciò in quanto la creatività è tutelata nel nostro ordinamento solo per un tempo determinato, fino a quando l'iniziativa può considerarsi originale, sicchè quando l'originalità si sia esaurita, ovvero quando quel determinato modo di produrre e/o di commerciare sia divenuto patrimonio ormai comune di conoscenze e di esperienze di quanti operano nel settore, l'imitazione non costituisce più un atto contrario alla correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l'altrui azienda.

Cass. civ. n. 12820/2018

La reazione dell'imprenditore che sia danneggiato dalla condotta sleale di un concorrente è legittima, e non causa un danno risarcibile, solo quando risponde ai parametri della continenza generale e della proporzionalità rispetto all'offesa ricevuta.

Cass. civ. n. 12364/2018

In tema di concorrenza sleale, il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, comporta che la comunanza di clientela non è data dall'identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti, uguali ovvero affini o succedanei a quelli posti in commercio dall'imprenditore che lamenta la concorrenza sleale, che sono in grado di soddisfare quel bisogno.

Cass. civ. n. 18691/2015

La concorrenza sleale costituisce fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, sicché non è ravvisabile ove manchi il presupposto soggettivo del cosiddetto "rapporto di concorrenzialità"; l'illecito, peraltro, non è escluso se l'atto lesivo sia stato posto in essere un soggetto (il cd. terzo interposto), che agisca per conto di un concorrente del danneggiato poiché, in tal caso, il terzo responsabile risponde in solido con l'imprenditore che si sia giovato della sua condotta, mentre ove il terzo sia un dipendente dell'imprenditore che ne ha tratto vantaggio, quest'ultimo ne risponde ai sensi dell'art. 2049 c.c. ancorché l'atto non sia causalmente riconducibile all'esercizio delle mansioni affidate al dipendente, risultando sufficiente un nesso di "occasionalità necessaria" per aver questi agito nell'ambito dell'incarico affidatogli, sia pure eccedendo i limiti delle proprie attribuzioni o all'insaputa del datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale, accertata la pronuncia di espressioni diffamatorie ascrivibili ad un soggetto persona fisica fiduciario e mandatario di un concorrente, aveva correttamente imputato a quest'ultimo la responsabilità da concorrenza sleale per denigrazione).

Cass. civ. n. 4739/2012

La nozione di concorrenza sleale di cui all'art. 2598 c.c. va desunta dalla "ratio" della norma, che impone, alle imprese operanti nel mercato, regole di correttezza e di lealtà, in modo che nessuna si possa avvantaggiare, nella diffusione e collocazione dei propri prodotti o servizi, con l'adozione di metodi contrari all'etica delle relazioni commerciali; ne consegue che si trovano in situazione di concorrenza tutte le imprese i cui prodotti e servizi concernano la stessa categoria di consumatori e che operino quindi in una qualsiasi delle fasi della produzione o del commercio destinate a sfociare nella collocazione sul mercato di tali beni. Infatti, quale che sia l'anello della catena che porta il prodotto alla stessa categoria di consumatori in cui si collochi un imprenditore, questi viene a trovarsi in conflitto potenziale con gli imprenditori posti su anelli diversi, proprio perché è la clientela finale quella che determina il successo o meno della sua attività, per cui ognuno di essi è interessato a che gli altri rispettino le regole di cui alla citata disposizione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto la produzione e la distribuzione di "gabbiette" per tappi di bottiglia di vino frizzante strettamente connesse con la fabbricazione delle macchine che dette gabbiette producono, così che, pur a diversi livelli, i produttori di tali oggetti insistono nel medesimo settore di attività).

Cass. civ. n. 17144/2009

In tema di concorrenza sleale, presupposto indefettibile dell'illecito è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, e quindi la comunanza di clientela, la quale non è data dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che sono in grado di soddisfare quel bisogno. La sussistenza di tale requisito va verificata anche in una prospettiva potenziale, dovendosi esaminare se l'attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi su quello merceologico, l'offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, nella parte in cui, nonostante il diverso pregio dei prodotti delle parti ed il diverso livello dei negozi presso cui essi erano reperibili, aveva ritenuto sussistente la confondibilità tra gli stessi, in virtù della loro appartenenza alla medesima categoria merceologica e dell'adozione di un marchio fortemente confondibile, che avrebbero potuto indurre il pubblico a ritenere entrambi i prodotti riconducibili all'attività della medesima impresa).

Cass. civ. n. 21392/2005

La mancanza di un rapporto di concorrenzialità tra l'autore di un determinato fatto e l'imprenditore che si assume da esso danneggiato, o anche la mancanza in capo al primo di una qualsiasi relazione con l'imprenditore concorrente tale da far ritenere che l'attività sia stata oggettivamente svolta nell'interesse di quest'ultimo, se valgono ad escludere rispetto all'autore del fatto l'ipotesi della concorrenza sleale, non impediscono però di configurare nei suoi confronti la responsabilità per fatto illecito di cui all'art. 2043 c.c. (Fattispecie relativa a domanda di risarcimento del danno proposta da alcune società, quali titolari di un diritto sulla denominazione d'origine «Salame Felino» in quanto operanti nella zona tipica di tale denominazione, nei confronti di un ente senza scopo di lucro, avente come fine istituzionale l'attività di c.d. normalizzazione tecnica, in relazione alla divulgazione di una «norma tecnica» concernente l'individuazione delle componenti di qualità del «Salame Felino» e delle sue tecniche di produzione, la quale, secondo le attrici, non riproduceva le reali componenti tipiche del prodotto).

Cass. civ. n. 560/2005

Presupposto giuridico per la legittima configurabilità di un atto di concorrenza sleale è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori (e la conseguente idoneità della condotta di uno dei due concorrenti ad arrecare pregiudizio all'altro, pur in assenza di danno attuale), così che la normativa dettata, in materia, dall'art. 2598 c.c. non può ritenersi applicabile ai rapporti tra professionisti (nella specie, avvocati). La nozione di azienda di cui al n. 3 dell'art. 2598 sopra citato, difatti, coincide con quella di cui al precedente art. 2555, stesso codice, sicché (pur essendo innegabile che, sotto il profilo meramente ontologico, studi di liberi professionisti siano, di fatto, per personale, mezzi tecnici impiegati e quant'altro, assimilabili ad una azienda) l'intento del legislatore, inteso a differenziare nettamente la libera professione dall'attività d'impresa (intento confermato, tra l'altro, proprio con riguardo alla professione di avvocato, dal regime delle incompatibilità di cui all'art. 3 primo comma del R.D.L. 1578/1933, comprendente, tra l'altro, il divieto dell'esercizio del commercio in nome proprio o altrui, divieto privo di significato se lo studio professionale fosse assimilabile ad un'azienda commerciale) va interpretato ed attuato nel senso della inapplicabilità tout court del regime di responsabilità da concorrenza sleale ai rapporti tra liberi professionisti, e ciò in via di interpretazione tanto diretta, quanto analogica, senza che possa, in contrario, invocarsi il disposto di cui all'art. 2105 c.c., funzionale alla disciplina della responsabilità contrattuale del prestatore nei confronti del proprio datore di lavoro ed alla repressione di una fattispecie di concorrenza illecita, laddove l'art. 2598 attiene alla responsabilità extracontrattuale tra imprenditori onde reprimerne comportamenti di concorrenza sleale.

Cass. civ. n. 13071/2003

Il principio secondo il quale la concorrenza sleale deve ritenersi fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, non configurabile, quindi, qualora non sussista il cosiddetto «rapporto di concorrenzialità», non esclude la sussistenza di un atto di concorrenza sleale anche nel caso in cui un tale atto sia posto in essere da colui il quale si trovi con il soggetto avvantaggiato in una particolare relazione, in grado di far ritenere che l'attività sia stata oggettivamente svolta nell'interesse di quest'ultimo; peraltro, a detto fine è insufficiente la mera circostanza del vantaggio arrecato all'imprenditore concorrente, ma neppure occorre che sia stato stipulato con questi un pactum sceleris, essendo invece sufficiente il dato oggettivo consistente nell'esistenza di una relazione di interessi tra autore dell'atto ed imprenditore avvantaggiato; in carenza del quale l'attività del primo può integrare un illecito ex art. 2043, c.c., non anche un atto di concorrenza sleale. (Nella specie, un rappresentante di commercio di tre diverse imprese aveva compiuto atti diretti a sviare la clientela di un imprenditore in favore di una impresa da lui non rappresentata; la S.C., in applicazione del succitato principio di diritto, ha cassato la sentenza impugnata, la quale aveva ritenuto la responsabilità del rappresentante di commercio ex art. 2598, c.c., anche in mancanza di prova della esistenza di una relazione di interessi tra il predetto e l'imprenditore concorrente avvantaggiato dall'atto di concorrenza sleale).

Cass. civ. n. 5375/2001

Il principio secondo il quale la concorrenza sleale deve ritenersi fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, non configurabile, pertanto, ove manchi tale presupposto soggettivo (il cosiddetto «rapporto di concorrenzialità»), non esclude la legittima predicabilità dell'illecito concorrenziale anche quando l'atto lesivo del diritto del concorrente venga compiuto da un soggetto (cosiddetto terzo interposto) il quale, pur non possedendo egli stesso i necessari requisiti soggettivi (non essendo, cioè, concorrente del danneggiato), agisca tuttavia per conto di (o comunque in collegamento con) un concorrente del danneggiato stesso, essendo egli stesso legittimato a porre in essere atti che ne cagionino vantaggi economici. In tal caso, pertanto, il terzo va legittimamente ritenuto responsabile, in solido, con l'imprenditore che si sia giovato della sua condotta, mentre, mancando del tutto siffatto collegamento tra il terzo autore del comportamento lesivo del principio della correttezza professionale e l'imprenditore concorrente del danneggiato, il terzo stesso è chiamato a rispondere ai sensi dell'art. 2043 c.c., e non anche del successivo art. 2598, con tutte le conseguenti differenze in tema di prova dell'elemento psicologico dell'illecito de quo. (Nell'affermare il principio di diritto che precede, la Suprema Corte ha, peraltro, confermato, nella specie, la sentenza del giudice di merito, che aveva ritenuto la sussistenza dell'ipotesi concorrenziale tipica ex art. 2598 n. 3 c.c. nel comportamento della Camera di commercio di Gorizia - che aveva arbitrariamente ampliato i confini della cosiddetta «zona franca» consentendo, in tal modo, ai produttori di birra residenti di estendere la loro attività fiscalmente agevolata al più ampio territorio provinciale in danno dei concorrenti di diversa residenza, chiamati ad affrontare un maggior costo d'impresa - poiché in nessuna delle due fasi di merito era stata sollevata la questione della mancanza di collegamento tra la predetta Camera di commercio e gli imprenditori avvantaggiati, e le relative doglianze, rappresentate per la prima volta in sede di giudizio di legittimità, erano da considerarsi inammissibili in rito, pur se fondate in fatto).

Cass. civ. n. 1617/2000

In tema di concorrenza sleale, presupposto indefettibile della fattispecie di illecito prevista dall'art. 2598 c.c. è la sussistenza di una effettiva situazione concorrenziale tra soggetti economici, il cui obiettivo consiste nella conquista di una maggiore clientela a danno del concorrente. Ne consegue che la comunanza di clientela — data non già dalla identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti delle due imprese, bensì dall'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato, e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti che quel bisogno sono idonei a soddisfare - è elemento costitutivo di detta fattispecie, la cui assenza impedisce ogni concorrenza, non potendo ritenersi decisiva di per sé, a tali effetti, la circostanza, da utilizzare solo come criterio integrativo, della identità del procedimento di commercializzazione adottato. Peraltro, la sussistenza della predetta comunanza di clientela va verificato anche in una prospettiva potenziale, dovendosi, al riguardo, esaminare se l'attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e, quindi, su quello merceologico, l'offerta dei medesimi prodotti, ovvero di prodotti affini o succedanei rispetto a quelli attualmente offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale. (Nella fattispecie, la S.C. ha confermato la decisione della corte di merito che, in difformità da quella del giudice di primo grado, aveva escluso la configurabilità della concorrenza sleale nell'attività di una società che offriva prodotti per il corpo direttamente a domicilio dei consumatori, attraverso un particolare sistema di concessionarie, già adottato da altra società, produttrice di contenitori di uso casalingo).

Cass. civ. n. 11047/1998

In tema di concorrenza sleale, l'attacco ingiusto diretto a ledere le posizioni ed i diritti tutelati dall'art. 2598 c.c., e, in particolare, idoneo a confondere il pubblico circa la qualità merceologica dei prodotti offerti, con evidente vantaggio conseguente ad una comparazione tra i prezzi di vendita che non dia conto, in virtù della confusione così ingenerata nel consumatore, della differente struttura del costo di produzione, legittima una reazione, da parte del soggetto leso, volta a ristabilire la verità dei fatti onde consentire al pubblico la conoscenza circa la intrinseca diversità tra i prodotti rispettivamente commercializzati, senza che l'autore della reazione possa essere considerato responsabile del danno conseguentemente arrecato all'aggressore, e senza che spieghi influenza, in contrario, la natura extracontrattuale dell'illecito di cui all'art. 2598 c.c. (Nella specie, la Federargentieri aveva denunciato, attraverso una campagna di stampa, la diffusione di un fenomeno commerciale, ritenuto poi scorretto anche in sede giurisdizionale, consistente nella immissione sul mercato, da parte di svariate imprese, di oggetti in materiale sintetico rivestiti da una sottile patina d'argento applicata mediante bagno galvanico, oggetti sui quali veniva apposto il marchio contrassegnante i prodotti in metallo prezioso ed il relativo titolo in millesimi, così da farli apparire e porre in vendita come prodotti d'argenteria, introducendo sul mercato un inammissibile fattore di confusione. La S.C., nell'enunciare il principio di diritto di cui in massima, ha confermato la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto legittimo, sotto il profilo dell'autotutela, tale comportamento della parte lesa).

Cass. civ. n. 6887/1996

La concorrenza sleale deve, comunque, consistere in attività dirette ad appropriarsi illegittimamente dello spazio di mercato ovvero della clientela del concorrente, che si concretino nella confusione dei segni prodotti, nella diffusione di notizie e di apprezzamenti sui prodotti e sull'attività del concorrente o in atti non conformi alla correttezza professionale; con la conseguenza che l'illecito non pub derivare dal danno commerciale in sé, né nel fatto che una condotta individuale di mercato produca diminuzione di affari nel concorrente, in quanto il gioco della concorrenza rende legittime condotte egoistiche, dirette al perseguimento di maggiori affari, attuate senza rottura delle indicate regole legali della concorrenza. (Affermando tale principio, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito che non ha ritenuto configurabile un illecito concorrenziale nell'attività di una impresa di vendite per corrispondenza, la quale, acquistati legittimamente all'estero diversi capi d'abbigliamento di una casa italiana d'alta moda, li ha messi in vendita mediante catalogo postale, non determinando tale attività una scorretta ingerenza nella diffusione selettiva e nell'organizzazione d'impresa della casa di moda).

Cass. civ. n. 12103/1995

L'illecito concorrenziale di cui all'art. 2598 c.c. non si perfeziona necessariamente attraverso la produzione di un pregiudizio attuale al patrimonio del soggetto concorrente, essendo sufficiente la potenzialità o il pericolo di un danno, concretantesi nell'idoneità della condotta vietata a cagionare un pregiudizio.

Cass. civ. n. 4096/1991

Anche con riguardo a società che, sebbene sciolta, non sia ancora estinta, l'attualità dell'esercizio dell'attività sociale di impresa implica che ben possono qualificarsi come di concorrenza sleale gli atti ex art. 2598 c.c. idonei a pregiudicare gli interessi dell'azienda sociale.

Cass. civ. n. 4755/1986

Con riguardo al pregiudizio che la reputazione del prodotto d'impresa subisca a causa del comportamento altrui, come nel caso di merce che riceva uno svilimento dal fatto del rivenditore che la consegni in confezioni rovinate o manomesse (nella specie, trattandosi di profumi ed altri articoli di bellezza), la non configurabilità di atti di concorrenza sleale, ai sensi dell'art. 2598 c.c., per difetto dei relativi requisiti, quale, nella suddetta ipotesi, la mancanza di un avvantaggiamento dell'imprenditore concorrente per effetto di quel comportamento del rivenditore, non implica di per sé che il comportamento medesimo debba essere considerato espressione del principio di libera concorrenza, potendo esso integrare gli estremi dell'illecito aquiliano, ove l'indicato pregiudizio della reputazione della merce venga a riflettersi negativamente sulla reputazione dell'impresa produttrice, e quindi sulla sua sfera patrimoniale.

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Consulenze legali
relative all'articolo 2598 Codice Civile

Seguono tutti i quesiti posti dagli utenti del sito che hanno ricevuto una risposta da parte della redazione giuridica di Brocardi.it usufruendo del servizio di consulenza legale. Si precisa che l'elenco non è completo, poiché non risultano pubblicati i pareri legali resi a tutti quei clienti che, per varie ragioni, hanno espressamente richiesto la riservatezza.

G. S. chiede
giovedì 13/04/2023
“salve sono un medico dentista con studio odontoiatrico, la questione verte su un rapporto tra professionisti:
nel mio studio ho incaricato un collega specialista in ortodonzia ( disciplina di ortopedia dentofacciale) a cui affidare i miei pazienti, negli anni le cose erano andate sempre bene, poi negli ultimi tempi il collega è stato affiancato dalla moglie la quale ha rotto un po gli equilibri del mio studio e del mio staff. Abbiamo fatto discussioni e questo collega di punto in bianco ha deciso di non venire più, lasciandomi con circa 20 pazienti in trattamento che ora dovrò affidare a qualcun altro. Sta di fatto che qualcuno non ha accettato il cambiamento e quindi vuole andare da lui, nel frattempo io gli ho preparato una pec da inviare dove gli revoco il mandato di consulente di ortodonzia del mio studio, ma inoltre lo diffido dall'intraprendere azioni terapeutiche sui pazienti miei, del mio studio che quindi ha conosciuto tramite me. a questo punto posso citare la norma del codice civile 2598 comma 3 sulla concorrenza sleale, e se nel caso dovesse intraprendere azioni terapeutiche sui miei pazienti presso il suo studio, cosa potrò fare? vi ringrazio resto in attesa di vostre indicazioni”
Consulenza legale i 20/04/2023
In primo luogo occorre premettere che, pur essendo stato formulato per disciplinare i rapporti tra imprese, ad oggi l’art. 2598 del c.c. può essere applicato anche ai rapporti tra professionisti.
La Corte di Giustizia Europea, con la pronuncia n. C-41/90, ha determinato che il concetto di imprenditore deve estendersi anche all’attività professionale, che è da considerarsi attività economica a tutti gli effetti, sia che si svolga o meno mediante una struttura organizzata di rilevanti dimensioni, con sede, dipendenti, attrezzature tecnologiche, in modo tale da prevalere sugli aspetti personali dell’attività professionale stessa ed in cui siano ravvisabili i caratteri dell’impresa (come già prevede l’art. 2238 del c.c.).

Modificando il proprio precedente orientamento ed uniformandosi ai principi della giurisprudenza europea, pur non mancando pronunce in senso contrario, nel 2016 la Corte di Cassazione ha affermato che “nella giurisprudenza europea e nazionale la nozione di impresa, nell’ambito del diritto comunitario della concorrenza, comprende qualsiasi entità che eserciti un’attività economica, a prescindere dal suo status giuridico e dalle modalità di finanziamento. Si tratta quindi… di una nozione più economica che giuridica nel senso che la sua essenziale connotazione risiede nell’esercizio organizzato e durevole di un’attività economica sul mercato, a prescindere dal modo in cui i singoli ordinamenti nazionali definiscono l’ente o la persona fisica alla quale la suddetta attività economica fa capo“. (Cass. Civ., n. 9041/2016; in senso conforme Corte di Appello di Milano, 3 dicembre 2019).
Al caso di specie, pertanto, può applicarsi l’art. 2598 del c.c. in tema di concorrenza sleale per sviamento di clientela.

Va, tuttavia, considerato che la condotta di acquisire clienti altrui, in sé e per sé considerata, costituisce una componente della normale competitività concorrenziale: il cliente è libero di scegliere il professionista al quale affidarsi.

Di conseguenza, si rende necessario valutare se effettivamente siano stai posti in essere atti di concorrenza sleale, mediante una disamina dettagliata dei comportamenti tenuti dallo specialista.
Per configurare un atto di concorrenza sleale è necessario che detto specialista abbia compiuto atti idonei a creare confusione con la Sua attività (ad esempio sostenendo che il rapporto professionale tra Voi fosse ancora in essere); abbia diffuso notizie o apprezzamenti sulla Sua attività idonei a determinarne un discredito; si sia valso di ogni mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare la Sua attività.

In linea di massima, se l’accordo tra le parti non prevedeva un patto di non concorrenza (che dalle informazioni fornite non appare), il semplice fatto di intraprendere azioni terapeutiche su clienti che si erano precedentemente affidati a Lei non costituisce un atto di concorrenza sleale; resta salva in ogni caso la valutazione di cui sopra, presupposto per agire in via giudiziale.

Giusi G. chiede
giovedì 11/03/2021 - Campania
“Un supermercato vende un prodotto a un prezzo inferiore rispetto a quello di acquisto. Si ha di conseguenza un sottocosto e come tale il negoziante dovrebbe rispettare il regime di pubblicità previsto per questo caso. Cosa succede se il negoziante vende il prodotto a un prezzo inferiore rispetto a quello di acquisto ma omette di seguire la procedura prevista per il sottocosto (non chiede l’autorizzazione al comune, non lo scrive nei volantini...). In questo caso l’azienda produttrice com’è tutelata? Cosa può fare contro questo negoziante che ha venduto il prodotto a un prezzo irrisorio, senza specificare che fosse sottocosto e creando così un problema sul mercato perché I negozianti concorrenti nel frattempo chiedono una diminuzione del prezzo di acquisto.”
Consulenza legale i 17/03/2021
La condotta del supermercato può ingenerare un danno da responsabilità contrattuale ex art. 1218 del c.c. nell’eventualità in cui nel contratto di fornitura di prodotti sia specificato il prezzo e le condizioni di vendita al pubblico, eventualmente anche con violazione della buona fede nell'esecuzione del contratto di cui all'art. 1375 del c.c.; oppure extracontrattuale ex art. 2043 del c.c. se il contratto nulla dispone in merito.
Può, altresì, configurare una fattispecie di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 del c.c., n. 3, che qualifica come tali gli atti di chiunque “si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda”.

In ogni caso, a prescindere dalla qualificazione della responsabilità del supermercato, che richiederebbe un’analisi molto approfondita della vicenda, sulla scorta di informazioni ulteriori e di tutta la documentazione e lo scambio di comunicazioni inerenti all’esecuzione del contratto in essere tra azienda produttrice e supermercato, il primo passo per ottenere tutela è l’invio di una diffida al supermercato stesso, con la quale si intima di cessare il comportamento lesivo.
A ciò può anche accompagnarsi una legittima segnalazione alle Autorità (Comune, Polizia Municipale, Guardia di Finanza).

Nell’eventualità in cui la diffida non dovesse sortire gli effetti sperati, l’azienda produttrice potrà intraprendere con ricorso al Giudice competente il procedimento cautelare ex art. 700 del c.p.c., con il quale si richiederà di emanare un provvedimento d’urgenza idoneo ad assicurare la cessazione del comportamento lesivo del proprio diritto, ravvisando nella vicenda un fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il diritto in via ordinaria, questo possa essere minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile.

In seguito, potrà agire contro il supermercato per il risarcimento di tutti i danni subiti, allegando ed eventualmente dimostrando il pregiudizio che la condotta descritta ha ingenerato.


Stefano F. chiede
venerdì 08/11/2019 - Lombardia
“Buongiorno,
ad agosto 2018 sono stato licenziato (qualifica direttore generale).
Non avendo un contratto di non concorrenza ho fondato una società che effettua lo stesso servizio.

Il quesito è:
con la nuova società ho inviato proposte a tutti i potenziali clienti della vecchia mettendo in evidenza il risparmio (riduzione fee) nel caso dovessero passare con noi. Essendo il listino non pubblico, solo dopo mi sono posto la domanda che questa condotta potesse rientrare negli articoli di concorrenza sleale.
Siamo una piccola società e siamo preoccupati di aver commesso un errore.”
Consulenza legale i 15/11/2019
Ai sensi di quanto disposto dall'art. 2598 c.c. comma 3, compie atti di concorrenza sleale chiunque si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.

La norma suddetta è necessaria e funzionale all’imposizione alle imprese operanti nel mercato delle regole di correttezza e di lealtà, di modo che non vi sia acquisizione di vantaggio attraverso l’utilizzo di metodi contrari all’etica commerciale.

Orbene, venuta meno l’operatività dell’art. 2105 c.c. con la risoluzione del contratto di lavoro, in assenza di un patto di non concorrenza ai sensi dell’art. art. 2125 del c.c. c.c., all’ex dipendente non è vietato lo svolgimento di atti in concorrenza con l’ex datore di lavoro.
Tuttavia, nella sua nuova veste imprenditoriale, l’ex dipendente è sottoposto alle medesime regole, di concorrenza leale e di correttezza professionale, imposte a qualunque altro operatore di mercato e, pertanto ad egli è fatto divieto di utilizzare informazioni acquisite durante il rapporto di lavoro, non altrimenti ricavabili.

La concorde giurisprudenza di merito, corroborata da significativi arresti della giurisprudenza di legittimità (giurisprudenza della Corte di Cassazione), sostiene che l’avere costituito una nuova società, avendo come terreno d’elezione per la formazione dell’avviamento la clientela della società per la quale si è lavorato, avvalendosi delle conoscenze acquisite proprio in considerazione di tali rapporti, costituisce una violazione dei principi di correttezza professionale. Evidenziando, altresì, che il carattere sistematico e massiccio dello sviamento è idoneo a pregiudicare l’avviamento della società concorrente e ad approfittare parassitariamente dei costi d’investimento della stessa. L’illiceità della condotta concorrenziale, che certamente non va ricercata episodicamente, deve essere desunta avendo a riguardo l’insieme della manovra di approfittamento sistematico dell’avviamento della società concorrente agevolmente posta in essere acquisendo sistematicamente, per mezzo dei suoi ex collaboratori, i clienti della società concorrente, con l’ausilio delle conoscenze riservate acquisite grazie ai pregressi rapporti contrattuali.
Può non costituire, invece, ipotesi di concorrenza sleale lo sfruttamento, da parte dell’ex dipendente passato alle dipendenze di un’impresa concorrente, delle conoscenze tecniche, delle esperienze e delle informazioni relative alla politica commerciale dell’impresa dalla quale egli proviene, a condizione che non si tratti di informazioni segrete o riservate e che, in ogni caso, non emerga una sistematica attività di distrazione della clientela (Cfr. Tribunale di Milano Sez. Imprese. RG n. 59079/2015).

È, dunque, da ritenersi fisiologico che il nuovo imprenditore, nella sua opera di proposizione e di promozione sul mercato della propria nuova attività, acquisisca alcuni clienti già in rapporti con l'impresa alle cui dipendenze aveva esplicato attività; mentre è da qualificarsi come attività parassitaria scegliere come terreno d’elezione del proprio avviamento la clientela della detta società, distraendola in un arco di tempo concentrato. (Cfr. Cass. 12681/2007, T. Milano RG 32959/2015 est Marangoni; T. Milano, 11384/2015).

In buona sostanza, si configura quale attività parassitaria, la condotta dell’imprenditore che saltando il costo dell'investimento in ricerca ed in esperienza, e privando il concorrente del corrispondente risultato della sua ricerca e della sua esperienza, altera significativamente la correttezza della competizione (Cass., n. 9386/2012)

Pertanto è possibile concludere affermando che:
  • la mancata stipula del patto di non concorrenza non legittima di per sé condotte sleali di concorrenza
  • la libera iniziativa del mercato trova il limite nell’esercizio del diritto in conformità ai principi di correttezza professionale.
  • tale limite è violato nel caso di massiccia distrazione di clientela, avvalendosi di notizie di cui si sia venuti a conoscenza in precedenti rapporti contrattuali e professionali, e approfittandosi parassitariamente dei costi d’investimento della società concorrente, in definitiva, trasferendo a sé l’avviamento della società concorrente con riguardo al settore merceologico di riferimento, in virtù del vantaggio rappresentato dall’essere composta dai medesimi ex dipendenti della concorrente, a conoscenza di notizie riservate circa le liste della clientela e le condizioni praticate.

Francesca F. chiede
giovedì 30/05/2019 - Lazio
“Premessa: società di capitali (SRL) fallita, i cui soci erano garanti di tutte le obbligazioni assunte nei confronti delle banche.
L'Amministratore rinviato a giudizio per bancarotta fraudolenta viene assolto perché il fatto non sussiste. Nella sentenza di assoluzione il giudice imputa il fallimento alla condotta sleale proprio dell'istante.
Domanda: i soci possono intentare una causa di risarcimento del danno all'istante?”
Consulenza legale i 07/06/2019
In conseguenza della sentenza dichiarativa del fallimento, le azioni a tutela degli interessi della società fallita spettano al curatore fallimentare.
Nel nostro caso, quindi, i danni subiti dalla Srl per effetto delle condotte illecite altrui, dovrebbero essere chiesti, in via generale, dal curatore.
Se però le condotte poste in essere dalla Spa possono rientrare nell’ipotesi della concorrenza sleale, l’azione potrebbe essere esercitata anche dal socio della fallita, ma esclusivamente per far valere diritti propri.
Il danno sofferto dal socio, infatti, per essere risarcibile, deve essere conseguenza immediata e diretta della concorrenza sleale posta in essere dall’istante.

Sostanzialmente, per agire ed ottenere ragione dei propri interessi lesi, la socia della fallita dovrà dimostrare di aver perduto utili o, comunque, in generale, di aver visto vanificare le legittime aspettative patrimoniali che le derivavano dalla partecipazione nella Srl.
Mezzo di prova nel caso si procedesse con questo tipo di azione potrebbe essere, qualora fosse stato predisposto, il piano industriale della fallita o, in ogni caso, i bilanci da cui si può evincere che se la società non avesse subito la condotta illecita avversaria avrebbe conseguito utili e li avrebbe ripartiti tra i soci.

Sicuramente danno immediato e diretto per il socio e, quindi, risarcibile, può considerarsi la perdita della quota di capitale conferito nella fallita, ma non l’esecuzione forzata in sé e per sé considerata.
Le procedure esecutive subite, infatti, hanno origine nelle garanzie prestate (fideiussioni) in favore della Srl, o, meglio sarebbe dire, nei rapporti debitori per cui sono state concesse. Non si può ritenere, quindi, che l’esecuzione sia un danno diretto ed immediato, per le socie, attribuibile alla condotta della Spa che avrebbe cagionato il fallimento.
Pertanto, le socie della Srl fallita possono agire, iure proprio, nei confronti della Spa, esclusivamente per ottenere il risarcimento di danni che siano conseguenza immediata e diretta della condotta illecita (si presume di concorrenza sleale) posta in essere dall’istante. In sede giudiziale, le attrici dovranno dimostrare, in primis, la sussistenza della condotta lesiva (di certo, l’attività difensiva posta in essere, in sede penale, da parte della difesa dell’amministratore sarà di utile supporto) e, poi, l’effettività del danno conseguente alla perdita delle legittime aspettative di guadagno riposte nel buon andamento della Srl. Anche la perdita del capitale conferito nella Srl potrà essere considerato un danno risarcibile. A supporto di tale richiesta, dovranno essere allegati i bilanci della fallita e, qualora fosse stato predisposto, il piano industriale da cui si potrà evincere il tracollo conseguente alla condotta della Spa.

Un’ulteriore ipotesi da considerare, non essendo molto chiaro sul punto il quesito posto, è se la Spa che avrebbe cagionato il fallimento della Srl fosse anche socia di quest’ultima. In tal caso, qualora il fallimento fosse conseguito alla concorrenza sleale della socia Spa, le azioni esperibili contro quest’ultima, da parte del curatore o delle altre socie, necessiterebbero degli stessi presupposti esposti in precedenza.
Qualora, invece, la Spa avesse acquistato le quote della Srl ancora in bonis e quest’ultima fosse poi fallita per effetto della condotta sleale della Spa medesima, si avrebbe un’ipotesi di c.d. “acquisto aggressivo”. In tal caso, qualora dall’acquisto delle quote della Srl fossero derivati danni a causa della condotta interna illecita della Spa, si ricadrebbe nell’ipotesi di cui all’art. 2598, n. 3 c.c. e, anche in questo caso, i soci dovrebbero dimostrare, per ottenere ragione dei propri diritti lesi, le aspettative perdute a causa di tale condotta.

Altra ipotesi potrebbe essere quella in cui la Spa fosse stata, in realtà, amministratore di fatto della Srl fallita. In tal caso, qualsiasi condotta di concorrenza (anche non sleale) posta in essere dalla Spa, troverebbe la censura di cui all’art. 2476 c.c., conseguente al divieto assoluto, per l’amministratore, di porre in essere attività di concorrenza. In tale ipotesi l’azione per il risarcimento dei danni diretti ed immediati potrebbe essere esercitata sia dal curatore, che dalle socie.

Infine, unica ipotesi in cui si ritiene che non si potrebbe pretendere alcunché dalla Spa sarebbe quella in cui quest’ultima non avesse posto in essere alcuna condotta di concorrenza sleale propriamente detta. La semplice concorrenza, anche se interna, da parte del socio non amministratore, infatti, non è condotta vietata e, pertanto, non si può ritenere che ne sia derivato danno risarcibile né alla società fallita, né ai soci di quest’ultima.


Anonimo chiede
martedì 26/09/2017 - Lombardia
“Buonasera, sono un subagente assicurativo, ad oggi lavoro con un mandato e la mia agenzia di riferimento commercializza polizze di una nota compagnia assicurativa da Gennaio 18 mi dimetterò e otterrò mandato da una agenzia di una sua concorrente, nel attuale mandato non ho nessun patto di non concorrenza quindi nessuna indennità in denaro.
Vorrei, una volta preso il mandato con la nuova agenzia, contattare tutti i miei clienti (tutti acquisiti da me e fidelizzati nel corso degli anni) per avvisare del mio passaggio a nuova compagnia, e sicuramente la maggior parte mi chiederanno un preventivo il quale sarà certamente più vantaggioso per delle scontistiche che la nuova compagnia mi mette a disposizione.
Vi scrivo per capire qual è la linea da non superare per incappare nella concorrenza sleale, mi spiego meglio con degli esempi:

Posso tenermi un documento Excel redatto da me con la lista di tutti i clienti e i dati personali (num telefono, mail, data sottoscrizione polizza, premio annuo) ?

Posso contattare i miei clienti per proporre nuove polizze (o io devo solo limitarmi ad avvisare del cambio e solo se saranno loro a chiedermi info potrò operare)?

Da quello che ho capito non è concorrenza sleale se non denigro la vecchia compagnia e se non utilizzo banche dati create da loro, ma se mettessi a confronto le due polizze (la pol della vecchia compagnia utilizzando documenti che ai tempi ho consegnato al cliente o che reperirei sul web) e la nuova proposta risulterebbe obiettivamente più vantaggiosa in termini di costi per il cliente, rischierei?

da quanto mi è stato riferito, se apporto un vantaggio al consumatore e non denigro la vecchia mandante o utilizzo banche dati di proprietà dovrei essere in una botte di ferro, ma sono cose così delicate che preferisco chiedere a voi esperti

Grazie mille”
Consulenza legale i 03/10/2017
La fattispecie descritta rientra in quella disciplinata dall’articolo 2598 del Codice Civile, il quale regola gli atti di concorrenza sleale.

Le pronunce dei giudici sul tema specifico non sono del tutto omogenee, soprattutto perché ogni caso concreto analizzato ha le sue sfaccettature e la pronuncia, alla fine, deve risolvere il caso concreto.
Vediamo di analizzare qualche pronuncia.

Una pronuncia del Tribunale di Mantova dell'ottobre 2003 ha affrontato il tema dell’attività concorrenziale posta in essere da soggetti che in precedenza hanno operato all’interno dell’organizzazione imprenditoriale concorrente, disponendo di notizie, informazioni ed esperienze tali da poter pregiudicare l’equilibrio concorrenziale (c.d. concorrenza differenziale).
In particolare, la pronuncia citata si riferisce alla figura di un agente assicurativo, il quale, cessato il rapporto di lavoro con un’impresa di assicurazioni, ha iniziato a lavorare per un’impresa concorrente, avvalendosi di notizie riservate relative alla clientela della "vecchia" assicurazione, attraverso elenchi dettagliati dei clienti.
Da un lato, continuava a gestire i rapporti assicurativi facendosi delegare dai clienti stessi per il compimento delle relative attività (come il pagamento dei premi), così impedendo l’instaurazione del rapporto con i nuovi agenti, dall’altro, presentandosi a loro in prossimità delle scadenze, li convinceva a non rinnovare i contratti ed a concluderne di nuovi con la società per cui lavorava; alla precedente assicurazione pervenivano infatti centinaia di disdette, tutte uguali, confezionate dall’ex agente. Alcune delle disdette erano anche risultate false, e l’attività era compiuta denigrando con notizie false la vecchia compagnia assicuratrice.
L'impresa ha proposto ricorso, poi concesso, per ottenere un provvedimento cautelare d’urgenza ex art. [[n700pc]] c. proc. civile per inibire l’utilizzo delle informazioni relative alla clientela da parte dell’ex agente, provvedimento confermato dal Tribunale di Mantova.

Bisogna citare altresì una pronuncia della Corte di Cassazione del 1991, che ha stabilito i princìpi e definito l’ambito di applicazione dell’art. 2598 c.c. relativamente allo storno di clientela da parte di ex dipendente. Come nel caso di cui al quesito, l’analisi condotta dalla Corte si svolge “al di fuori di qualsiasi pattuizione di non concorrenza”: in tal caso, l’attività concorrenziale in sé è lecita, ma con il limite codicistico previsto dalla citata norma e dall'art. 2600 c.c. che sanziona la concorrenza sleale.
La Corte di Cassazione ha compiuto una distinzione fondamentale tra la “situazione concorrenziale fisiologica”, che consiste nell’acquisizione di clienti altrui attraverso la proposizione di più efficienti servizi o migliori condizioni economiche contrattuali, che “costituisce componente della normale competitività concorrenziale”, valore dell’economia di mercato e fonte di sviluppo economico delle imprese, dalla c.d. “concorrenza parassitaria” in senso ampio, “volta a sviare a proprio vantaggio i valori di iniziative originali ovvero dei valori aziendali delle imprese concorrenti”.
Parallelamente la Corte ha stabilito che, se da un lato il lavoratore può crescere professionalmente proprio in virtù delle conoscenze acquisite nel corso del rapporto di lavoro e che tali competenze possono legittimamente costituire supporto nell’impostazione di nuove iniziative imprenditoriali, dall’altro, nel momento in cui l’ex dipendente offre la sua professionalità arricchita ad altra impresa o ne diventi titolare, scatta l’operatività delle regole di “correttezza professionale”, le quali impongono innanzitutto il rifiuto della concorrenza parassitaria.
La sentenza della Cassazione ha spiegato che le informazioni relative alla clientela ed ai rapporti tra l’impresa e la clientela stessa costituiscono “per loro natura la riserva operativa interna di ogni impresa che, in quanto tale, non è destinata ad essere offerta alla conoscenza dei terzi ed è destinata a rimanere riservata, come garanzia di validità funzionale dell’iniziativa imprenditoriale”. In quest’ottica, le informazioni relative alla clientela sono per loro natura riservate e l’utilizzazione a proprio vantaggio di esse può costituire una delle forme di concorrenza parassitaria in senso lato, contrarie ai princìpi della professionalità imprenditoriale e come tali illecite, ma la Corte ha anche precisato che l’illiceità della condotta non deve essere ricercata episodicamente, ma deve essere desunta dall’insieme della manovra posta in essere per danneggiare il concorrente o per approfittare sistematicamente del suo avviamento sul mercato.
La decisione della Corte di Cassazione del 1991 è stata successivamente ripresa nel 1999 da una sentenza di merito, relativa al caso di un agente assicurativo. Il Tribunale di Trento, nel 1999, ha escluso la responsabilità dell’ex agente, ritenendo che la condotta posta in essere non costituisse concorrenza sleale, osservando che, nel caso concreto, non era possibile rilevare l’esistenza di una manovra volta al danneggiamento del concorrente o all'approfittamento sistematico del suo avviamento sul mercato; infatti, il particolare rapporto personale che legava l’agente agli assicurati escludeva il fatto che l’acquisizione sistematica della clientela alla nuova compagnia derivasse dalla conoscenza di notizie riservate, quanto piuttosto dalla mera conoscenza in capo agli assicurati del passaggio dell’agente da una compagnia all’altra. Se l’agente si era "approfittato" di un fattore, questo era la stima e la fiducia che in lui nutrivano gli assicurati, ma ciò era frutto della preparazione e della capacità professionale che l’agente aveva acquisito e/o affinato durante il preesistente rapporto, liberamente utilizzabili nel gioco della concorrenza.

Quest’ultima sentenza si pone in apparente contrasto con la decisione del Tribunale di Mantova di cui sopra. Tuttavia, i princìpi sottesi sono i medesimi; la differenza si rinviene nei comportamenti oggetto di giudizio, che possono atteggiarsi in maniera molto diversa: se la mera comunicazione alla clientela di aver cambiato compagnia è lecita, illecita risulta la condotta di chi si rechi dai clienti per convincerli a cambiare assicurazione o addirittura di chi non espliciti chiaramente la sua condizione di ex agente, approfittando della confusione ingenerata nella clientela.

Nel 2014, i Tribunali di Milano, con la sentenza n, 3958 del 2014, e di Genova, con la sentenza n. 6579/14, si sono pronunciati su ricorsi presentati da alcune compagnie assicurative contro propri ex agenti, che avevano illegittimamente fotocopiato e trattenuto la documentazione contrattuale del "loro" portafoglio, in vista dello sviamento di clientela in favore della nuova compagnia in procinto di rilasciare loro il mandato. In entrambe le vicende, in vista del cambio di compagnia, un agente ha allestito un proprio "archivio" composto dai dati personali e contrattuali dei clienti intermediati, in vista dell'invio di una pluralità di disdette volte allo sviamento di clientela. Tali attività configurerebbero, ad unanime avviso dei giudici, una violazione del diritto di proprietà industriale della compagnia sui dati personali e contrattuali dei propri clienti. Da una parte, "il fatto che l'agente cerchi di portarsi, nel nuovo rapporto d'agenzia, il cliente è attività illegittima e professionalmente scorretta". Dall'altra parte, "il fatto che l'assicuratore concorrente attiri il cliente medesimo, con tariffe più basse, appartiene, ugualmente, all'ambito dell'illegittimità e della scorrettezza professionale", e sarebbe onere della nuova compagnia mandante, "conoscendo i pregressi rapporti dell'agente, di compiere tutti i necessari accertamenti, prima della stipula delle nuove polizze procurategli", per stabilire se ciò avvenisse, illegittimamente, a scapito della prima compagnia.

Alla luce di quanto esposto, quindi, si consiglia prudenza.
Se da un lato avvisare i clienti del cambio di agenzia può ritenersi attività concorrenzialmente lecita da un punto di vista del libero mercato e della correttezza professionale, convincerli a stipulare nuove polizze o addirittura denigrare la precedente agenzia potrebbe importare responsabilità come concorrenza sleale. Se sono i clienti, invece, che per la stima che ripongono in lei, spontaneamente si propongono di seguirla nella nuova compagnia e nella sottoscrizione di una nuova polizza ... allora non v'è alcun problema. Va trovata la giusta formula.

Anonimo chiede
martedì 11/04/2017 - Lazio
“Buongiorno, vi scrivo per ricevere una consulenza riguardo ad un progetto che intendo realizzare e che potrebbe, sebbene senza dolo da parte mia, incorrere nella c.d. concorrenza sleale o violazione di copyright.
Nello specifico ho intenzione di commercializzare all'ingrosso dei prodotti che abbiano attinenza con la mia città; io ed il mio team abbiamo regolarmente acquistato delle illustrazioni (e relative licenze per la vendita) riferite ad alcuni elementi architettonici tipici della mia città. Il mio grafico ha realizzato, partendo da tali immagini, delle nuove e originali opere frutto dell'unione di più immagini e della propria abilità.

Il problema, nello specifico, è che la mia città di origine è sede di una manifestazione estremamente conosciuta non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Per questo motivo, senza violare alcun copyright posseduto dalla società che detiene regolarmente i diritti, abbiamo pensato di inserire un elemento ( regolarmente acquistato da noi) che richiami in modo esplicito, tale evento. Non abbiamo preso spunto da oggetti già prodotti dalla sopracitata società né abbiamo utilizzato una terminologia che anche lontanamente abbia a che fare con questo evento.

Proprio quest'anno si festeggia una ricorrenza speciale e perciò abbiamo pensato di inserire il numero (in cifre arabe) di tale edizione e in un altro soggetto l'anno di inizio e l'anno attuale.
La società organizzatrice ha prodotto un logo specifico per festeggiare tale ricorrenza.

Il mio quesito è il seguente: è possibile che la società detentrice dei diritti di immagine possa agire contro le mie opere ?
Nel caso in cui mettessi in vendita tali prodotti incorrerei in una violazione o illecito sfruttamento ?
È questo il caso del c.d. atto di confusione ?

Spero di essere stato chiaro ed esaustivo.
Vi ringrazio per la disponibilità.”
Consulenza legale i 19/04/2017
Gli elementi forniti nel quesito non consentono, ad avviso di chi scrive, di ravvisare un’ipotesi di concorrenza sleale in capo alla società che intende sfruttare l’evento che si tiene nella sua città per promuovere i propri prodotti.

Va preliminarmente e doverosamente chiarito che è difficile fornire un parere esaustivo e specifico in merito se non si prende visione dei prodotti in questione ed altresì di quanto, invece, commercializzato/pubblicizzato dalla società che detiene (a quel che è scritto nel quesito) i diritti di immagine legati alla manifestazione cittadina.

In generale si può dire che affinché si abbia concorrenza sleale occorre, prima di ogni altra cosa, che l’imprenditore utilizzi o imiti i segni distintivi di un altro imprenditore: nel caso di specie, pare che già tale fondamentale presupposto manchi, dal momento che si parla di elementi grafici che richiamano l’evento cittadino ma senza l’utilizzo dei “segni distintivi” propri dell’altra società.
Se le immagini, le forme, gli slogan utilizzati non richiamano esplicitamente o implicitamente quelle altrui, ma più semplicemente viene richiamato all’attenzione del consumatore finale l’evento tipico della città utilizzando elementi grafici del tutto nuovi e slegati da quelli dell’altra società, non si ravvisa l’elemento dell’uso di segni distintivi altrui e, quindi, il presupposto essenziale per la “confusione” cui si accenna nel quesito.

Quest’ultima fattispecie (art. 2598 n. 1 cod. civ.) presuppone che i segni della società A che detiene i diritti legati alla manifestazione abbiano attitudine “distintiva” della società stessa, ovvero siano capaci di contraddistinguere l’imprenditore in questione sul mercato: quindi, se un altro imprenditore B utilizza segni uguali o simili a quelli di A, crea confusione in capo alla clientela, che viene indotta a pensare che i prodotti di B siano in realtà riferibili ad A, con evidente vantaggio per la prima e danno economico per la seconda.

Per lo stesso motivo pare doversi escludere l’”imitazione servile” (sempre n. 1 del 2598 cod. civ.), perché – nel caso di specie – non viene posta in essere alcuna “imitazione” dei prodotti concorrenti, o meglio non viene posta in essere con lo scopo di creare confusione nel pubblico.

Si noti bene, infatti, che l’imitazione fedele di prodotti altrui non è di per sé illecita, ma lo è solamente laddove sia confusoria: chi lamenta un danno sotto questo profilo deve dunque dimostrare che l’imitazione da parte del concorrente investe nello specifico quegli elementi che servono a distinguere il suo prodotto sul mercato. E questo carattere di “originalità” sussiste solo laddove il prodotto in questione presenti degli aspetti formali nuovi rispetto a ciò che è già noto.
Da questo punto di vista, per tornare alla fattispecie in esame, non si ravvisano elementi per affermare un’imitazione servile confusoria.

Per ciò che riguarda, invece, il diritto d’autore e le sue possibili violazioni, va ricordato che la disciplina del diritto d’autore assicura tutela non alle semplici idee, ma alla loro concretizzazione esterna, ovvero alla forma che esse assumono, forma che deve presentare i caratteri dell’originalità e della novità oggettiva.

Per questo motivo, nel caso in esame, è evidente che – per quanto riguarda il logo creato ex novo ed originalmente dalla società che detiene i diritti sull’evento – non potrà essere utilizzato il medesimo identico logo né creato un logo simile che possa creare confusione con il primo.
Lo stesso valga per eventuali prodotti eventualmente creati ad hoc in relazione all’evento cittadino e che abbiano assunto una forma particolarmente creativa ed originale che li rende unici e riconducibili solamente a quel determinato autore (la società di cui si discute).

Si riportano infine due pronunce, datate ma ancora valide nei principi che esprimono, che possono costituire un utile spunto di riflessione in casi come quello di cui al quesito che ci occupa:

- “Il titolo di un'opera è protetto ai sensi dell'art. 100 l. 22 aprile 1941, n. 633 sul diritto d'autore non come bene autonomo, ma in quanto individua l'opera stessa, sicché non può esistere un diritto al titolo ove non esista l'opera dell'ingegno tutelata da esso individuata. La tutela prevista dal citato art. 100 non può, pertanto, attribuirsi ad una sigla volta ad individuare una manifestazione consistente in un incontro fra artisti (nella specie cosiddetti Madonnari) con periodicità annuale e nello svolgimento fra gli stessi di una gara. Invero, la manifestazione organizzativa, anche se a contenuto artistico, non può mai costituire un'opera dell'ingegno tutelata ai sensi della legge n. 633 del 1941, giacché essa di esaurisce in sè stessa e non realizza un'opera avente una sua estrinsecazione materiale idonea a circolare o ad essere riprodotta separatamente dall'idea creativa.” (Cassazione civile, sez. I, 05/02/1988, n. 1264);

- “L'idea pubblicitaria, ancorché dotata del requisito della creatività, non è compresa nella elencazione delle opere protette, contenuta nell'art. 2575 c.c. e nell'art. 1 l. 22 aprile 1941 n. 633, elencazione che ha carattere tassativo. L'idea pubblicitaria non può essere considerata come lavoro di ingegneria od opera analoga protetta dall'art. 99 della citata legge n. 633 del 1941.” (Corte appello Milano, 02/10/1981).

In ogni caso, lo si ripete per correttezza, sarebbe necessario visionare i prodotti e gli elementi grafici di cui si sta parlando, per poterli mettere a confronto; sarebbe necessario inoltre approfondire il significato delle frasi “abbiamo pensato di inserire un elemento ( regolarmente acquistato da noi) che richiami in modo esplicito, tale evento” e “abbiamo pensato di inserire il numero ( in cifre arabe) di tale edizione e in un altro soggetto l'anno di inizio e l'anno attuale” (a quale “soggetto” si fa riferimento?); infine, occorrerebbe – a titolo di completezza – effettuare una ricerca (laddove ciò non sia già stato fatto) per verificare sotto il profilo formale (ad esempio presso l’Ufficio marchi e brevetti o il Ministero dei Beni Culturali) se vi siano e quali siano, nello specifico, i diritti che fanno capo alla società che pubblicizza la manifestazione cittadina.

Anonimo chiede
martedì 13/12/2016 - Sardegna
“Salve, sono un piccolissimo importatore di articoli da regalo,
ho acquistato in Cina tramite un sito internet dei puzzle in legno tridimensionali che si animano grazie a dei pannelli solari, la spesa totale dell'importazione è stata circa 18 mila dollari.
La ditta fornitrice ha fornito i vari certificati necessari all'importazione.
Il problema nasce dal fatto che un altro importatore italiano di cui io ero cliente (tramite una società diversa da quella usata per la mia importazione) ha importato in precedenza lo stesso articolo e adesso minaccia (ad oggi solo verbalmente) persecuzione legale nei miei confronti per concorrenza sleale, la ditta cinese fornitrice non è la stessa della mia.
Le considerazioni sono queste:
1)gli articoli in oggetto sono praticamente identici (questo l'ho scoperto solo quando sono arrivati in Italia)
2)i certificati CE degli articoli in questione del mio fornitore sono del 2016 mentre quelli della ditta fornitrice di cui si è avvalsa controparte del 2012.
3)Nelle scatole e nelle istruzioni non c'è indicato nessun copyright o riferimento a patenti d'importazione (né nelle sue e tanto meno nelle mie).
4) Sono stato cliente della controparte ma tramite una ditta diversa da quella che poi ha importato gli articoli in questione.
Non so bene come comportarmi o come avrei dovuto comportarmi.
Grazie Cordiali Saluti

Consulenza legale i 19/12/2016
Gli atti di concorrenza sleale sono disciplinati dall’art. 2598 cod. civ., il quale, nella parte che qui ci interessa maggiormente, recita: “(…) compie atti di concorrenza sleale chiunque:
1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente; (…)”; (3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda”.

Presupposto di una situazione di concorrenzialità è che si tratti di attività svolta da due imprenditori, e che vi sia l’idoneità della condotta di uno dei due ad arrecare un pregiudizio all’altro, anche solo potenziale. Infatti, l’art. 2598 c.c. non richiede il danno effettivo: la condotta concorrenziale è illecita anche quando costituisce un potenziale danno per l’altrui attività imprenditoriale.
Per “danno” si intende il concreto rischio che l’uno tolga all’altro uno spazio di mercato: un atto di concorrenza è riscontrabile solo ove vi sia l’astratta possibilità di una clientela comune. E’ sufficiente a tal fine il contemporaneo esercizio, da parte di più imprenditori, di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune.

Per tornare al quesito, dunque, occorre in primo luogo verificare (ma ciò non risulta esplicitato nel testo) - presumendo che i due importatori svolgano tale attività a titolo professionale - se questi ultimi operino nello stesso spazio di mercato e/o comunque che possano raggiungere potenzialmente la medesima clientela (per vicinanza territoriale, per categoria merceologica venduta, ecc.).

Ciò detto, nel caso di specie pare potersi ipotizzare la fattispecie concorrenziale tipica dell’”imitazione servile” (2598 secondo comma): in tal caso, occorre che la parte che si assume lesa dimostri non solo la priorità della forma del prodotto che si ritiene sia stata imitata ma soprattutto il carattere distintivo (e non funzionale) sul mercato della medesima.
Chi agisce in concorrenza, insomma, non può limitarsi a provare che il proprio prodotto è imitato fedelmente da quello concorrente ma deve anche dimostrare che l’imitazione è confusoria perché investe quegli elementi che servono a distinguere il suo prodotto sul mercato, così risultando idonea a generare confusione nel pubblico.
Nel caso di specie, dunque, sarebbe necessario che l’importatore che si ritiene leso dimostrasse che quell’articolo, da lui importato per primo e poi venduto al pubblico, ha una reale capacità distintiva sul mercato, tale da renderlo facilmente riconoscibile dalla clientela come prodotto di quel determinato imprenditore.
Ad avviso di chi scrive, tale fattispecie concorrenziale - di fatto - dovrebbe escludersi, salva l’ipotesi della vendita in esclusiva, ovvero che il prodotto importato di cui si discute sia stato acquistato dal fornitore cinese, con l’accordo che l’importatore italiano vendesse il prodotto stesso in esclusiva.

Al di fuori dell’imitazione servile, è concorrente sleale chi “compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente”. In questa categoria residuale di atti concorrenziali può rientrare, evidentemente, qualsiasi condotta astrattamente idonea a danneggiare l’altrui attività: tuttavia, anche in tale ipotesi, si potrà/dovrà valutare solo caso per caso e spetterà a chi agisce come parte lesa provare la potenzialità lesiva dell’attività imprenditoriale altrui.

Si precisa che il fatto che il prodotto non sia coperto da copyright è del tutto irrilevante ai fini dell’illiceità delle condotte di cui all’art. 2598 c.c..

Ugualmente irrilevante è il presupposto soggettivo: la fattispecie concorrenziale è integrata, infatti, solo dalla presenza dei presupposti oggettivi sopra evidenziati di cui alla norma e prescinde dalla sussistenza del dolo o della colpa che non ne sono fatti costitutivi e rilevano unicamente ai fini del risarcimento del danno.
Sotto questo profilo, “Può rilevarsi buona fede nel soggetto attivo della concorrenza sleale solo quando costui abbia posto in essere il comportamento vietato ignorando incolpevolmente di ledere l'altrui diritto, intendendosi tale circostanza non nel senso di ignoranza di porre in essere un atto di concorrenza sleale, ma nell'adozione di tutte le iniziative che avrebbero consentito di evitare l'errore” (Tribunale Firenze, Sez. Proprietà Industriale e Intellettuale, 11/12/2006).
Purtroppo, quindi: “Ai fini dell'accertamento di condotte di concorrenza sleale per sviamento di clientela non è necessario che il comportamento del concorrente sia malevolo o fraudolento, dovendosi avere riguardo esclusivo alla natura oggettiva delle condotte, le quali assumono rilievo ai sensi dell'art. 2598, n. 3 c.c. quand'anche siano tenute in perfetta buona fede o per mera ignoranza o imperizia.” (Tribunale Bologna, 18/04/2008).

In conclusione, quand’anche il secondo importatore abbia operato nella più assoluta buona fede, egli potrà comunque essere ritenuto responsabile di atti di concorrenza sleale, beninteso, se ve ne siano i presupposti oggettivi (quelli anzidetti della natura imprenditoriale dell’attività; del medesimo, anche solo potenziale, bacino d’utenza raggiunto; dell’idoneità dell’una attività a sottrarre spazi di mercato all’altra, ecc.) e se controparte (perché l’onere della prova spetta a chi si assume leso) riesca a dimostrare concretamente la potenzialità lesiva della condotta altrui, in alcuni casi in modo specifico (come nel caso dell’imitazione servile).

Anonimo chiede
domenica 16/05/2021 - Lombardia
“Buongiorno,

attualmente sono dipendente e mi occupo di vendere e consegnare alla clientela una ampia gamma di prodotti, specifico che sulle vendite mi viene riconosciuto un premio obiettivo del 1%.

Nel tempo ho costituito un interessante pacchetto clienti.

Non essendo assolutamente in sintonia con la dirigenza della società per cui lavoro, ho pensato di costituire una SRL con una ditta che commercia gli stessi prodotti ed in alcuni casi è fornitrice della società di cui sono dipendente, in poche parole le due srl sono concorrenti.

Era mia intenzione, inizialmente aprire una partita iva e fare il procacciatore d’affari per la società concorrente, con la quale ho già accordi in merito.

Praticamente, dal primo giorno di mancato preavviso (preavviso che NON darei), lavorerei come libero professionista per la società concorrente dell’attuale ditta in cui lavoro come dipendente.

Successivamente, dopo aver costituito una nuova SRL, sia io che la società, per la quale svolgerei la nuova mansione di procacciatore d’affari e consegna del materiale, ed una terza società che commercia in prodotti attinenti la mia area merceologica, diverremmo soci, ed abbandonerei la partita iva.

Descrivo i passi che vorrei intraprendere:

apertura partita iva mentre sono ancora dipendente;

mentre sono dipendente ma al di fuori dell’orario di lavoro, farei la ricerca del capannone per la nuova società;

mentre sono dipendente ma al di fuori dell’orario di lavoro, organizzerei il capannone;

mentre sono dipendente ma al di fuori dell’orario di lavoro, cercherei il personale per la nuova società;

darei le dimissioni volontarie;

NON rispetterei il previsto preavviso di 15 giorni e non mi recherei più nella ditta da cui mi sono dimesso, facendomi trattenere la quota prevista in questi casi;

dal primo giorno dei 15 giorni di mancato preavviso inizierei l’attività del procacciatori d’affari con partita iva;

dal primo giorno, dei 15 giorni del periodo di preavviso (che NON DAREI), andrei a visitare tutti i vecchi clienti della ditta per cui lavoravo e mi proporrei quale nuovo fornitore e se del caso farei delle vendite, specifico che quanto venderei è esattamente identico a quanto vendevo per la società dalla quale mi sono licenziato;

successivamente aprirei una nuova SRL nella quale confluirebbero come soci lo scrivente (che chiuderebbe la partita iva), la società per la quale avrei fatto il procacciatore d’affari ed una terza società.

Dato che vorrei fare questo passo seguendo scrupolosamente i dettami di legge chiedo quanto segue:

facendo i passi di cui sopra mi esporrei ad una causa intentata dalla società per la quale lavoravo da dipendente;

in caso ci fosse questa eventualità ci sarebbe la possibilità di fare quanto sopra senza esporsi ad eventuali cause.

Ringraziando anticipatamente, cordialmente saluto.”
Consulenza legale i 24/05/2021
Per quanto riguarda gli atti che verrebbero realizzati in costanza di rapporto, anche se al di fuori dell’orario di lavoro, viene innanzitutto in rilievo il dovere di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., il quale prevede il divieto per il lavoratore di compiere attività a favore di terzi (sia durante sia fuori l’orario del lavoro) idonee ad entrare in conflitto con gli interessi economici del datore di lavoro.

Il lavoratore non può intraprendere alcuna attività imprenditoriale in settore analogo a quello in cui è operante il datore di lavoro, indipendentemente che ciò rilevi ai fini della slealtà della concorrenza ai sensi dell’art. 2598 c.c.

L’azione di responsabilità fondata sulla violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 cod. civ. ha infatti natura autonoma rispetto all’azione per concorrenza sleale. Quest’ultima, infatti, configura un illecito extracontrattuale tipizzato, che può concorrere con la prima, ma non condizionarne la sussistenza.

Solitamente la violazione dell’art. 2105 c.c. ha rilievo sul piano disciplinare, rendendo giustificato il licenziamento, ma non esclude anche la possibilità di una richiesta di risarcimento del danno da parte dell’azienda.
In giurisprudenza, tuttavia, è controverso se per integrare la violazione dell’art. 2105 c.c. sia necessaria una effettiva lezione procurata dalla condotta in concorrenza del lavoratore.
Secondo un primo orientamento sviluppato dalla Suprema Corte, infatti, ai fini della violazione dell’obbligo di fedeltà incombente sul lavoratore è sufficiente la mera preordinazione di un’attività contraria agli interessi del datore di lavoro che sia anche solo potenzialmente produttiva di danno (Cass. Civ. sez. lav., 30/01/2017, n. 2239 ; Cass. Civ., sez. lav., 09/08/2013 n. 19096; Cass. Civ. n. 1878/2005). La Cassazione ha infatti riconosciuto la liceità del licenziamento del lavoratore subordinato per il semplice fatto di aver sottoscritto una partecipazione in una società di capitali svolgente attività concorrenziale rispetto a quella del datore
Un secondo orientamento della Corte di Cassazione, invece, richiede non già la mera potenzialità lesiva della condotta concorrenziale, ma è necessario che almeno una parte dell’attività concorrenziale sia stata compiuta, così che il pericolo per il datore di lavoro sia divenuto concreto durante la pendenza del rapporto (Cfr. Corte appello Brescia sez. lav., 31/01/2019; Cass. Civ. sez. lav., 09/03/2017, n.6091; Conformi_ Cass. Civ., sez. lav., 26/08/2003, n. 12489; Cass. Civ., sez. lav., n. 2478/2008). In tal senso, dunque, sarebbe illegittimo l’addebito nei confronti del lavoratore dipendente a tempo parziale che, nel residuo orario disponibile, lavori nell’azienda del familiare, operante nello stesso settore del datore di lavoro, qualora concretamente non si profili un pur minimo animus nocendi, cioè una consapevolezza del danno arrecato al datore di lavoro originario, nonché l’espletazione di effettiva attività integrante concorrenza.

Si precisa peraltro che il contenuto dell’obbligo di cui all’art. 2105 cod. civ. viene esteso ex lege anche alle ferie e all’eventuale fase di impugnazione del licenziamento.

Tornando al caso di specie, per l’attività svolta in costanza di rapporto di lavoro potrebbe esserci il rischio di una causa intentata dall’azienda, soprattutto nel momento in cui le azioni attuate configurino comunque un danno nei confronti dell’azienda. Se si tratta, come riferito, di attività meramente preparatorie, il rischio dovrebbe essere minimo, a meno che non si utilizzino informazioni e segreti dell’azienda datrice di lavoro.

Nel caso di specie, secondo quanto riferito, non è stato sottoscritto alcun patto di non concorrenza, quindi l’operatività dell’obbligo di fedeltà dovrebbe terminare con le dimissioni, dal momento che non si effettuerebbe il preavviso lavorato e si sarebbe disposti a vedersi decurtata la relativa indennità.
Infatti, secondo la giurisprudenza “nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti, a meno che la parte recedente, nell’esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l’efficacia sino al termine del periodo di preavviso” (Cass. 4 novembre 2010, n. 22443; Cass. 30 settembre 2013, n. 23222; Cass. 6 giugno 2017, n. 13988; Cass. 26 ottobre 2018, n. 27294; Cass. ordinanza 11 febbraio 2021, n. 3543).

Sotto il profilo giuridico, è lecito che un soggetto che ha prestato attività lavorativa come dipendente di un’azienda, una volta cessato il proprio rapporto di lavoro con la stessa (in seguito a dimissioni o a licenziamento, o al termine della durata del rapporto di lavoro) svolga la propria attività lavorativa nello stesso ambito in cui lavorava in precedenza nella precedente azienda, sfruttando le competenze, conoscenze ed abilità maturate nel periodo in cui lavorava in quest’ultima.
È quindi lecito, in via generale, che l’ex dipendente continui a svolgere la propria attività in concorrenza con la precedente azienda per cui lavorava, venendo assunto quindi da un’azienda concorrente o iniziando un’attività concorrenziale in proprio (ad esempio costituendo una nuova società).

Tuttavia, vi sono dei limiti allo svolgimento di un’attività lavorativa da parte dell’ex dipendente, superati i quali l’attività diventa illecita, in quanto concorrenza sleale fonte di responsabilità dell’ex dipendente (e in taluni casi anche della nuova azienda) nei confronti della ex azienda.

Vi sono innanzitutto ipotesi in cui la prosecuzione dell’attività degli ex dipendenti in proprio costituisce concorrenza sleale, e quindi illecita.

L’utilizzo delle conoscenze e dei rapporti commerciali da parte di un ex dipendente non vincolato da un legittimo patto di non concorrenza è lecito. Pertanto, l’ex dipendente è in linea di principio libero di esercitare attività in concorrenza con l’ex datore di lavoro, purché tale attività non costituisca un caso di concorrenza sleale.

La concorrenza sleale è disciplinata dall’art. 2598 del Codice Civile, il quale stabilisce che compie atti di concorrenza sleale chiunque:
  • usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente;
  • diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente;
  • danneggia l’azienda concorrente utilizzando qualsiasi mezzo che viola i presupposti della correttezza professionale.
Le prime due ipotesi costituiscono le fattispecie tipiche di concorrenza sleale:
  • la “confusione” si ha quando l’imprenditore (in questo caso l’ex dipendente) indirizza al pubblico dei potenziali acquirenti un messaggio idoneo a generare il falso convincimento che i suoi prodotti e/o le sue attività siano riconducibili ad un imprenditore concorrente (il suo ex datore di lavoro);
  • l’“imitazione servile” si ha quando l’ex dipendente sviluppa un prodotto violando un brevetto della società in cui lavorava, e/o sfruttando informazioni tecniche di carattere confidenziale dell’ex datore di lavoro.
La terza ipotesi (la violazione della correttezza professionale) costituisce invece una clausola generale della fattispecie di concorrenza sleale, che ricomprende cioè tutti i comportamenti illeciti diversi da quelli specificatamente descritti nei precedenti punti n. 1) e 2) del medesimo articolo.

Tra gli atti “non conformi alla correttezza professionale”, previsti dall’art. 2598 n. 3 c.c., rientra il caso di illecito commesso da parte di un ex dipendente che si verifica più frequentemente nella pratica: lo sviamento della clientela.

Il tentativo di sviare il cliente altrui, tuttavia, di per sé non è illecito, in quanto rientra nel gioco della concorrenza. Affinché l’appropriazione della clientela altrui costituisca un illecito sviamento di clientela, occorre che essa sia ottenuta, direttamente, o indirettamente con un mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale. Si dovrà accertare, pertanto, caso per caso, analizzando le concrete modalità con cui opera un ex dipendente.
Il caso tipico è quello che si verifica allorché l’ex dipendente sfrutti informazioni riservate (conoscenze, competenze, know how, contatti e rapporti) acquisite nel corso del suo precedente impiego, quali:
  • listino prezzi;
  • condizioni commerciali e di vendita;
  • caratteristiche e schede tecniche dei prodotti;
  • archivio clienti e contatti.
Tuttavia, è necessario che le informazioni siano effettivamente riservate, cioè non ricavabili in altri modi e non connesse alle proprie capacità professionali. In questo modo, infatti, l’ex dipendente riesce ad inserirsi nel mercato e fare concorrenza all’ex datore di lavoro prima e con costi minori rispetto a quelli che sarebbero stati necessari se avesse ottenuto autonomamente le stesse notizie.
Ad esempio, la giurisprudenza ha ritenuto illecito (anche in assenza di un patto di non concorrenza) il comportamento dell’ex lavoratore che:
  • forte dei contatti che si erano creati nell’impresa del datore, aveva indotto i vecchi clienti del datore a cambiare, recandosi presso l’impresa da poco costituita;
  • aveva utilizzato le tecniche di costruzione di impianti caldaia apprese presso la precedente impresa in cui aveva lavorato per produrre i macchinari della ditta fondata da poco dallo stesso;
  • aveva utilizzato dati tecnici e commerciali della sua ex azienda per formulare offerte più vantaggiose alla clientela;
  • aveva proposto a un fornitore in esclusiva di utensili dell’ex datore di lavoro di fornirgli gli stessi utensili, ostentando presso la propria qualità di ex dipendente e proponendo prezzi scontati.
Se effettivamente dovesse trattarsi di concorrenza sleale, l’azienda potrebbe innanzitutto agire in via cautelare urgente, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., con una c.d. azione inibitoria, cioè ottenere un provvedimento che ordini la cessazione della condotta illecita da parte dell’ex dipendente.
Per ottenere tale provvedimento, occorre dimostrare:
  • il fumus boni juris, cioè che l’ex dipendente si è appropriato di clientela in modo illecito;
  • il periculum in mora, ciò che il comportamento dell’ex dipendente ha causato e sta causando un danno gravissimo; ciò implica che occorre agire in giudizio molto celermente.
In secondo luogo, l’azienda potrà chiedere all’ex dipendente il risarcimento dei danni. Questi potranno consistere in:
  • lucro cessante, cioè mancati guadagni (calo di fatturato) da parte dell’impresa che abbia subìto lo sviamento di clientela;
  • danno emergente, cioè spese che l’impresa ha dovuto affrontare a seguito della perdita di clientela (ad es. spese promozionali, spese per reclutare nuovi dipendenti, etc.).
L’onere della prova spetterà al danneggiato, quindi all’azienda, che dovrà dimostrare:
  • che l’ex dipendente si è appropriato dei propri clienti in modo illecito (cioè sfruttando informazioni riservate);
  • che a causa di questo comportamento illecito ha subìto un danno, cioè abbia subìto una effettiva perdita di fatturato o abbia dovuto sostenere costi aggiuntivi.
Naturalmente, l’azione di concorrenza sleale potrà essere intentata dall’azienda anche nei confronti della società per la quale lavorerà e di cui diventerebbe socio l’ex dipendente.


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