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Articolo 229 Legge fallimentare

(R.D. 16 marzo 1942, n. 267)

[Aggiornato al 01/01/2023]

Accettazione di retribuzione non dovuta

Dispositivo dell'art. 229 Legge fallimentare

Il curatore del fallimento che riceve o pattuisce (1) una retribuzione, in danaro o in altra forma, in aggiunta di quella liquidata in suo favore dal tribunale o dal giudice delegato [39], è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da euro 103 a euro 516.

Nei casi più gravi (2) alla condanna può aggiungersi l'inabilitazione temporanea all'ufficio di amministratore per la durata non inferiore a due anni.

Note

(1) Rileva il dolo generico.
(2) Ipotesi non frequente in cui la pena accessoria è applicata in base ad una valutazione discrezionale del giudice.

Ratio Legis

Questa norma va letta assieme all'art. 39, dove si vieta al curatore di ricevere altro denaro in aggiunta a quello liquidato dal tribunale come compenso.

Massime relative all'art. 229 Legge fallimentare

Cass. pen. n. 4172/1995

La condotta criminosa prevista dall'art. 229 della legge fallimentare è quella del curatore che riceve o pattuisce una retribuzione, in danaro o in altra forma, in aggiunta all'altra liquidata in suo favore dal tribunale o dal giudice delegato, e la statuizione, strettamente collegata a quella dell'art. 39, comma 3, della stessa legge, è ispirata allo scopo di sottrarre il curatore alle suggestioni economiche ed ai contratti di natura patrimoniale con le parti private, per assicurarne la natura di organo processuale indipendente nelle sue determinazioni; sicché — nella qualificazione dell'ipotesi criminosa come reato di pericolo, la cui oggettività giuridica è da ravvisare nella «venalità del curatore» ed il cui elemento soggettivo si sostanzia nella consapevolezza dell'agente della mancata osservanza delle forme previste per la liquidazione del compenso — è agevole coglierne la differenza con le diverse ipotesi della concussione, nella quale la dazione o la promessa, quale realizzazione di una pretesa illecita, suppongono, altresì, l'abuso della qualità o dei poteri del pubblico ufficiale e l'esercizio di una pressione psichica, prevaricatrice della volontà del privato. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la definizione del fatto operata dal giudice di merito il quale aveva affermato l'esistenza della concussione nel comportamento del custode fallimentare che attraverso costrizione o induzione aveva determinato le parti a corrispondere la utilità richiesta al fine di destinarle a scopo ben diverso della integrazione del compenso, dovutogli, peraltro, all'esito della procedura fallimentare).

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